Nemesi: The Assignment di Walter Hill
di Daniela Turco
Dell’iter particolarmente travagliato di Nemesi. The Assignment iniziato alla fine degli anni ’70 e concluso oltre trent’anni e diversi tentativi dopo, prima con la pubblicazione nel 2017 in Francia di una graphic novel basata sul soggetto iniziale, e poi, con la realizzazione del film vero e proprio, qualcosa comunque passa nelle sue immagini, una sorta di eccitante tensione, tra difficoltà e desiderio.
A dominare nel film è soprattutto la presenza dei corpi ambiguamente seduttivi di Michelle Rodriguez e Sigourney Weaver che arroventa questa declinazione colta e virata in chiave sperimentale del noir, con cui Walter Hill ha voluto restituire qualcosa dell’atmosfera dei film di Ulmer, Fuller, Daves, Aldrich ecc, che andava a vedere da ragazzo e su cui si è formato,
e c’è qualcosa di commovente e nello stesso tempo di elettrizzante nello scoprire, in un’epoca digitale e a dominazione tecnologica come questa, che la grande lezione del cinema a basso costo, che lavora con povertà di mezzi e gusto del rischio, non si è esaurita e può ancora entrare in gioco e liberare la sua carica di trasformazione. In Nemesi si sente agire, soprattutto, la potenza di uno stile, per questo è rilevante l’accenno che la dottoressa Rachel Jane (Sigourney Weaver), durante gli incontri con lo psichiatra nella struttura in cui è reclusa, fa al saggio di Edgar Allan Poe, La Filosofia della Composizione, che rappresenta infatti uno degli elementi costitutivi di questo film, che, seguendo a sua volta la struttura e il refrain del testo di Poe – il verso Nevermore, Nevermore, che compare accanto alle foto di Frank Kitchen versione maschile, viene precisamente da lì -, mette a nudo i passaggi, inclusi i propri, con cui un’opera giunge a comporsi e a compiersi.
Due attrici, due donne, Michelle Rodriguez e Sigourney Weaver, due corpi femminili “estremi” su cui si gioca la partita ambigua dell’identità sessuale. Michelle Rodriguez nel film interpreta il doppio ruolo di Frank Kitchen, killer di professione prima e dopo l’operazione con cui la dottoressa Rachel Jane (Sigourney Weaver), chirurgo plastico in una clinica illegale e artista maudit, per vendicarsi dell’uccisione del fratello e per punirlo, lo trasforma, contro la sua volontà, in una donna. L’assoluta sicurezza con cui Michelle Rodriguez si muove nei panni maschili di Frank Kitchen, a dispetto di capelli lunghi, barba e pene posticcio, si ribalta, dopo l’operazione, in un totale spaesamento, quando, una volta restituita alla realtà fisica naturale del proprio corpo femminile, si scopre, spesso nuda e riflessa nei mille specchi sparsi nel film, completamente straniera a se stessa. Non è che uno dei tanti paradossi, spinti al limite, di questo film, che provoca continuamente lo spettatore, chiamandolo in causa proprio sui propri stessi limiti di credibilità, capovolgendo di continuo, quindi politicamente, aspettative e clichè, attraverso l’interpretazione travolgente di Michelle Rodriguez che riesce a caricare il suo personaggio in metamorfosi di rabbia intrecciata a un insopprimibile erotismo e all’infinita malinconia per un’identità perduta.
La maschera, che a un certo punto, come già accadeva in Eyes Wide Shut, compare sopra un mobile della casa di Johnnie, la ragazza rimorchiata da Frank Kitchen, non è che uno degli oggetti-chiave di cui servirsi per inoltrarsi in questo film-saggio, immerso nelle ombre, e come già Street of Fire, bagnato dalla pioggia e da una dominante disforica dei colori, che riflette profondamente, ben oltre il suo aspetto pulp di superficie, sull’identità e sul doppio, fino ad assumerne tutte le tensioni, le contraddizioni e le variazioni nel proprio stesso corpo. Non a caso, alcune delle sequenze si concludono con un’inquadratura che prima si fissa nel freeze-frame, per riconfigurarsi subito dopo nei contorni bidimensionali e stilizzati di un disegno che la rappresenta, che non è altro che il marchio a fuoco della doppia identità di un film che è, di fatto, in un mondo parallelo, anche una graphic novel, che può penetrare, talvolta, obliquamente, nel tessuto del film, nello stesso tempo, come corpo estraneo e come altro del medesimo.
Walter Hill, in ogni suo film si è sempre impegnato da vero estremista a esplorare la frontiera, a partire da quella del genere, per modificarla dall’interno e modularne ogni possibile mutazione; per questo dietro l’uso sovversivo dei mondi poetici di Shakeaspeare e Poe evocati nei discorsi della dottoressa Rachel Jane, si intravvede lo stesso regista che indica in quale terreno Nemesi affondi le proprie radici, inclusa la costellazione da cui il film proviene, in cui risplendono Switch (Nei panni di una bionda) di Blake Edwards, e, prima ancora, Ciao Charlie ( Goodbye Charlie) di Vincente Minnelli, due film, altrettanto spinti ed estremisti, in cui veniva declinato, nei toni di commedia già predestinata a una mutazione dark, lo stesso schema punitivo di un cambiamento di sesso da maschile a femminile.
Resta, nel film, il problema di Frank Kitchen: esiste davvero o, come sostiene lo psichiatra che la esamina nel carcere in cui è rinchiusa, è solo un fantasma inventato dalla dottoressa Rachel Jane, per giustificare la carneficina dei suoi collaboratori, nella sua clinica illegale?
Walter Hill, non usa nessuna cortesia nei confronti dello spettatore, scegliendo di non chiarire il mistero, neppure le dita mutilate della dottoressa, alla fine, sono in sè una risposta risolutiva, mentre viene lasciata allo spettatore, se lo vuole, la libertà di ricomporre i fili, che questo fluire magnificamente dissociato e dis-narrativo in continuo movimento e spaesamento, tra passato e presente, maschile e femminile, menzogna e verità, legge e trasgressione, amore e tradimento, lascia volutamente sospesi e irrisolti, sapendo che ciò che importa davvero, forse, in realtà si trova altrove. Ad esempio, in quella speciale atmosfera che viene dall’aspetto scalcinato delle stanze di hotel di passaggio, dove si vive, si beve, si uccide e si contano i soldi, o dalla pioggia e dalle pozzanghere dove danzano le luci e i colori, o, ancora, dall’incurabile solitudine di questi personaggi e dagli incontri casuali ai banconi dei bar. Questa è, in fondo, la lezione terribilmente vitale di questo film straniato e mutante, fuori legge e fuori norma, che mostra con coraggio una politica del sesso, contraddittoria e alla ricerca di una liberazione, tra i dischi suonati nei juke box, tra la fuga degli specchi e quella degli sguardi, e un romanticismo livido e disperato nutrito di desideri impossibili. A contare, in fondo, per Walter Hill sembrano essere un bacio e, ancora di più, una pistola, il freddo oggetto dark, che Nevermore, Nervermore scriverà la parola fine.