Nella ragnatela della Settima Arte
La morte al lavoro (1978) di Gianni Amelio.
di Vittorio Giacci
Tratto dal racconto Il ragno di Hans H. Ewers ma ispirato anche al romanzo di Roland Topor Le locataire chimerique da cui è stato ricavato L’inquilino del terzo piano (Roman Polanski, 1976) e alle storie di Cornell Woolrich dove “non vi è un enigma da scoprire ma un incubo da placare”, La morte al lavoro, dalla celebre frase di Jean Cocteau ripresa da Il testamento di Orfeo (1960) e posta a didascalia iniziale, più che di un film possiede le caratteristiche di un tributo manifesto ad Alfred Hitchcock, fin dai titoli di testa accompagnati da Que sera sera, la canzone eseguita da Doris Day ne L’uomo che sapeva troppo (1956), omaggio che viene suggerito passo passo dalle musiche preesistenticomposte da Bernard Herrmann per Marnie (1964) e La donna che visse due volte (1958) che ne scandiscono lo spazio e il tempo, le dinamiche e gli sviluppi, fondandosi sul principio formale che ogni immagine abbia “un proprio suono predestinato”.
Oltre a questo primo stimolo apparente, il film si presenta come un canto sulla fine del cinema del passato, intonato ed espresso con le medesime modalità di quest’arte e ricordato, oltre che dalle colonne sonore, dalle fotografie dei divi (Bogart, Dean, Hayworth, Garland, Gable, Monroe) e dai manifesti che progressivamente ricoprono le pareti e il pavimento dell’appartamento affittato da Alex, il protagonista (Federico Pacifici).
Non film di referenze ma esso stesso referenza assoluta, totale, continua, ininterrotta, meta-film senza ulteriore motivazione diegetica se non di rappresentare sé stesso e in cui la cinepresa riprende – come rileva Gianni Amelio – “nel tempo anche brevissimo di un’inquadratura, l’invecchiamento di un viso, fissa un istante che non potrà più tornare, fotografa l’avvicinarsi della morte. E’ nello spirito di questa definizione che sta forse il vero soggetto del film, il suo significato”.
La morte al lavoro sembra svelare in tal modo il suo funebre universo, dal microcosmo di un personaggio che poco alla volta entra nell’identità di chi l’ha preceduto e, indossati i suoi panni, come lui si toglie la vita, al macrocosmo di un’arte che si contempla e si dichiara nel suo fascino e nella sua fatiscenza.
Non sono fatti concreti a impressionare Alex e a farlo precipitare nella sua ossessione ma impalpabili allusioni, oscure atmosfere, ricordi non della propria vita ma del cinema come categoria dell’esistenza ad adescarlo, come fa un ragno con la propria preda in una ragnatela, nella coinvolgente, secolare tessitura della Settima Arte. E non è solo la morte di un personaggio che si suicida come attore ma è quella di un intero universo iconico, evocato in un “crescendo” di vertiginose implicazioni.
La stanza presa in affitto da Alex ben presto diventa una sala cinematografica il cui schermo è una finestra (“la vista non è molto spaziosa ma con quello che si vede oggi per la strada molto meglio una finestra sul cortile”, dice la portiera nel consegnargli le chiavi di casa, “ripetitore ingenuo” che non sta dialogando con l’interprete ma, obliquamente, con lo spettatore, ricordandogli il capolavoro hitchcockiano sull’ambigua relazione tra realtà e rappresentazione), un punto di osservazione non dal quale ma sul quale, così come nel punto di vista dell’obiettivo, vengono proiettate le immagini mentali di un protagonista/attore/spettatore che vede nell’illusorio effetto di realtà che caratterizza questa forma di espressione ciò che vuole vedere, invitandolo a scorgere entro quel magico riquadro il riflesso assillante di una donna vissuta due volte e, con essa, la metafora di una perdizione.
Attento a non interrompere l’emergere di questa meta-atmosfera e sapendo bene – pensando a Tourneur – che “lo spavento più forte deriva non da ciò che si vede ma da ciò che si immagina nel buio” e che “il terrore, quello vero, sta sempre fuori-campo”, Amelio, cancella ogni plot sostituendolo con figurazioni filmiche consolidate, come la permanente penombra dell’ambiente. Fondamentale è poi il ricorso all’idea di casa che da rifugio sicuro e tranquillizzante si trasforma in un luogo angoscioso che respira di vita propria attraverso una lunga tradizione che comprende numerose pellicole, da Gli invasati (Robert Wise, 1963) a La scala a chiocciola (Robert Siodmak, 1946), da Shining (Stanley Kubrick, 1980) alla serie di Sam Raimi.
In questa angoscia tutto è cinema, dalle strane telefonate nel cuore della notte il cui trillo fa sobbalzare di paura, come ne Il terrore corre sul filo (Anatole Litvak, 1948) o, ancor più, ne Il delitto perfetto (Alfred Hitchcock, 1954) alla bambina con il gatto nero (archetipo classico di ogni noir che si rispetti) che mostra di sapere più di ciò che dice e che rinvia agli inquietanti adolescenti di Suspense (Jack Clayton, 1961) dal racconto Giro di vite di Henry James. Ma il film è anche un canto d’amore, pur se disperato, sulla sopravvivenza del cinema in quanto bisogno primario nell’universo immaginifico dell’uomo e geneticamente connaturato a quest’arte.
“La celebre boutade di Cocteau – osserva giustamente Amelio – sarà pure una frase a effetto, uno svolazzo decadente, ma è vero che ogni volta si rinnova sullo schermo il miracolo della resurrezione. Buster Keaton o Greta Garbo ci fanno ancora ridere o piangere come la prima volta, e nelle antiche immagini in bianco e nero riscopriamo i vent’anni di Louise Brooks o la grazia giovane di Gene Tierney. La macchina da presa ha catturato una volta per sempre i loro corpi e, come una macchina del tempo, li riporta intatti a ogni visione”. Il film, per sua natura, muore e rinasce a ogni nuova proiezione.
Per compiacere la bella sconosciuta di cui si è perdutamente innamorato, Alex, in questo meta-thriller, comunica con lei in un dialogo, impossibile realisticamente ma plausibile filmicamente, silenzioso come un eroe del muto o sottovoce come potrebbe fare uno spettatore quando, nel buio della sala, coinvolto nell’emozione della vicenda, conversa a tu per tu con il protagonista del film guidandolo nell’azione e con-dividendo con lui le emozioni; si trucca da Charlot per farla ridere alle sue gag immortali, balla a distanza con lei come Fred Astaire con Cyd Charisse sulle note di Dancing in the Dark in Spettacolo di varietà (Vincente Minnelli, 1953), per Gianni Amelio “il musical più bello di ogni tempo con Cantando sotto la pioggia” (Gene Kelly-Stanley Donen, 1952), il film che, nella fantasmagoria delle sue melodie è, per felice paradosso, un omaggio al cinema muto, “l’altra faccia, solare e non sinistra, di Viale del tramonto, che ne ripeterà la tematica con Fedora (1978) e chegli contrappone proprio come la luce all’ombra, la vita alla morte, per poi chiudersi in una melanconica depressione quando l’immagine sparisce, proprio come James Stewart dopo la scomparsa di Kim Novak.
Una fotografia alla parete di Louise Brooks, icona dell’eterno femminino, fa significativamente accendere il personaggio di Lulu, donna del peccato che distrugge gli uomini (Il vaso di Pandora, Georg W. Pabst, 1929) nella misteriosa vicina, che si chiama, biblicamente, Eve, e che in tal modo si riallaccia, in una ascendenza mitica tipica nel cinema di Amelio, al manifesto de La valle dell’Eden (Elia Kazan, 1955), appeso alla parete e più volte inquadrato dalla cinepresa che richiama nel titolo il luogo della tentazione femminile e nei suoi contenuti di ambiente di forti conflitti genitoriali “dove è il figlio a prendersi cura del padre che non gli ha mai voluto bene”, uno dei temi costanti della sua filmografia.
Privato del piacere che l’ha ormai invaso come un’inguaribile malattia Alex si uccide contornato dalle fotografie delle star come da una inestricabile ragna-tela. E’ la morte del cinema, certamente, ma è anche la morte senza il cinema, con la sua congenita capacità di risorgere.
“Dal momento in cui esci dal cinema – ricorda il regista scrivendo proprio a proposito de La valle dell’Eden che fonde mirabilmente le tematiche della cinefilia e della relazione padre/figlio – ti porti dietro un’unica sequenza tua; e il film ruota e ruoterà per anni intorno a quella sequenza, che poi magari si deformerà, diventerà un’altra cosa, non esisterà più se non come cosa tua. Questo significa che il film ti ha camminato dentro nel modo forse più bello, più libero. Io sono uscito da La valle dell’Eden portando con me la sequenza del dialogo con il padre. Era la sequenza con il padre quella con la quale potevo identificarmi. Cosa intuivo? Mio padre non c’è, mio padre non torna, quindi mio padre non mi ama, perché se mi amasse tornerebbe. (…) Quindi La valle dell’Eden è stato il momento in cui ho visto rappresentato quello che mi dicevo un giorno sarebbe accaduto tra me e mio padre. E probabilmente è stato uno dei primi film che ho visto di un regista che aveva coscienza di quello che raccontava”.
Ancora una volta, la ragnatela di referenze si dipana dalla memoria di una proiezione a cui si è assistito in gioventù, come spettatore fortunato di “tempi che furono, “quando il pubblico vedeva i film magari alla rovescia – se il proiezionista, come poteva capitare, invertiva l’ordine dei rulli, ndr -, però le sale erano piene”. E ad Amelio, ricco di cinema vissuto, basta un manifesto affisso a una parete, non per comunicare dotte citazioni ma per trasmettere stati d’animo che hanno lievitato nel tempo dal ricordo dello spettatore alla ispirazione del regista.
Anche lui è un regista che, come Kazan, ha coscienza di ciò che racconta ed entrambe queste qualità nascono dal suo amore per il cinema, un vizio preso in giovane età e che fortunatamente non lo ha mai abbandonato, nonostante le alterne fortune che lo hanno attraversato e a volte pregiudicato la sua carriera, diventando sempre più “piccolo” rispetto alle proprie aspettative.
La battuta di Norma Desmond in Viale del tramonto: ”Io sono ancora grande, è il cinema che è diventato piccolo”, in cui sicuramente il Gianni Amelio di oggi si riconosce, si riferiva al momento storico di quando il muto rischiava di morire, sopraffatto dall’invenzione del sonoro. In La morte al lavoro si riferisce ad un’altra possibile morte, quella causata dall’avvento della televisione e anche qui, come in La fine del gioco, l’antinomia strutturale si esercita sul rapporto tra linguaggio cinematografico e linguaggio televisivo, nella sfida paradossale di salvarlo grazie al suo nemico.
Dovendo girare in studio, in interni e con telecamere e non potendo pertanto eseguire il montaggio successivamente in moviola, Amelio adotta la tecnica rosselliniana del piano-sequenza, nello spazio unitario e concentrazionario di “un appartamento su cui aleggia in ogni angolo la morte”, come in Nodo alla gola (Alfred Hitchcock, 1948), un montaggio interno alla sequenza, senza tagli, interruzioni, mutamenti di piano o di prospettiva, il cosiddetto “montaggio in quadro”, mantenendo comunque il primato della cinepresa e adeguandolo al clima allusivo e interiore alla tensione crescente, tutta “in soggettiva”, della meta-vicenda, fino alla tragica meta-conclusione quando si svela che l’appartamento di fronte non è che un rudere disabitato e l’immagine alla finestra un’illusione o, più semplicemente, una proiezione.
“I miei occhi sono come finestre – dice il personaggio del film di Cocteau – da cui non posso uscire”, schermi di metafore ossessive in cui si può solo entrare senza corsie di ritorno e dove, come scrive Amelio alla ricerca del senso “segreto” di La donna che visse due volte, “siinsinua il sospetto che forse il solo amore eterno di cui siamo capaci sia “quello per chi non ci appartiene più” e che l’amore che non muore sia “l’amore per un fantasma”. Come nel film di Hitchcock, come in La donna fantasma di Siodmak tratto da Woolrich. E, proprio come nei racconti di questo scrittore così ben descritti da Amelio, l’angoscia non scompare dopo ma continua a mietere vittime, nei prossimi inquilini che verranno ad abitare quella casa, o, più semplicemente, a frequentare il cinema per quello che è, una gigantesca ragnatela in cui reticolarmente si invischiaogni spettatore.
Dalla partecipazione affettiva di una realtà attenuata in assenza di attività pratica che è l’immagine cinematografica – seguendo l’analisi di Edgar Morin, si è passati, senza soluzione di continuità, alla partecipazione immaginaria, dal grado affettivo al grado magico.
Oggi la sfida sferrata dalla rivoluzione digitale potrebbe essere ugualmente ritenuta valida, da qui l’attualità di quest’opera che, contrariamente a quanto ritiene lo stesso Amelio che ne prende oggi le distanze, quasi a disconoscerla come un errore di gioventù, appare più che mai rispondente non solo all’obbiettivo di salvare dalla scomparsa l’arte più giovane e popolare ma, in sintonia con le più innovative e sperimentali soluzioni dell’arte figurativa che ha già da tempo abbandonato i cliché della narrazione classica e con essi i modelli del naturalismo e del figurativismo, si muove per accedere all’universo puro delle forme, dei volumi, degli spazi e dei colori.
Con riferimento alla distinzione di Amelio tra film riusciti e film importanti, si può affermare che La morte al lavoro sia entrambe le cose: riuscito per la corrispondenza euritmica tra intenzioni e risultati, importante per la riflessione sul mezzo e per l’influenza, in quanto film “programmatico” sulle proprie tematiche nei confronti del quale l’autore si carica di tutti i rischi, come è avvenuto per Tirate sul pianista (François Truffaut, 1960), L’uomo che uccise Liberty Valance (John Ford, 1962), Alphaville (Jean-Luc Godard, 1965), Persona (Ingmar Bergman, 1966), Partner (Bernardo Bertolucci, 1968), una scelta di struttura che fa diventare un film immediatamente Cinema. Come una tela di Pollock è immediatamente Pittura e una composizione di Arvo Part immediatamente Musica.
Astratto come l’arte moderna, La morte al lavoro, cinema all’ennesima potenza, ridà la nostalgia del cinema che è stato, nell’ebbrezza del cinema che sarà.