Maria Zef. Un film di Vittorio Cottafavi del 1981
di Francesco Salina
Tre donne, una carretta e un cane, vagano per le campagne del Friuli vendendo stoviglie e vettovaglie. Vittorio Cottafavi realizzò questo film da tempo progettato e sognato. Lo trasse dal romanzo di Paola Drigo, premio Viareggio nel ’37. Lo volle dialogato in friulano e sottotitolato in italiano. Lingua antica la friulana, detta ladina, derivata dal romano di Aquileia del 181 a C. Lingua dolce, dal suono cantabile.
Maria Zef è il suo capolavoro. Narra la disperata e isolata terra carnica nell’Ottocento, e i crimini dello stupro e un omicidio. Nel 1981 il film fu presentato in anteprima in Friuli. Critica e pubblico lo giudicarono troppo audace e crudo. Non ne compresero né valore, né rango, né linguaggio, né segno.
Tre donne, una madre e due figlie, Carìte di quarantatre anni, Mariùte di quindici, Rosùte di otto. Tirano avanti a fatica, sopravvivendo, e tirano la carretta di legno. E vagano senza posa, seguite dal cane fedele, detto Petòti. Vagano in quella terra desolata, dimenticata e tormentata da forti contrasti sociali.
I disperati sono privi di tutto, ma le tre donne un tesoro lo posseggono, si amano e mai si separano.
Cottafavi è stato cineasta di generi differenti. Colto, di fine ingegno, di acuto sguardo filmico. Troppo poco apprezzato a suo tempo. Rivisitato dalla critica attuale, Maria Zef è rinato, elevato a film di culto. Tutto appare dimesso, tutto povero. Tutto è riscattato dalla ricchezza del linguaggio cinematografico. Innocenza e malvagità, pietà e spietatezza, paura e temerarietà si intrecciano in un mondo solitario e negletto, filmato tra esternigiorno e interninotte. Figurato con sorprendente, magistrale incantamento. Colore ombroso, sapientemente dosato, tra ombre e luci disegna e designa stati affettivi e stati mentali. Privo di colonna sonora, la sua musica è la stessa lingua friulana. Alternata ai dolenti silenzi si diffonde come un canto. Anche il silenzio, frammesso ai dialoghi, ha un bel suono, basso, profondo, riflessivo. Maria Zef è un film coraggioso, rischioso, interpretato da un cast eccellente di attori non professionisti.
Un mattino, lungo una strada afosa e assolata, la madre si accascia al suolo. Soccorsa morirà, di fatica, di povertà, di sfinimento, in un ricovero gestito da monache. L’amore non basterà a rianimarla. Come accade nel prodigioso risveglio di Inger, la madre, nell’Ordet di Dreyer, dove il mondo si accorda col desiderio, dove l’amore sconfigge la morte. In Maria Zef la povertà non ammette, non riserva prodigi. Mariùte e Rosùte, rimaste sole, si disperano, ma non piangono. Sanno che la morte è necessaria alla vita. Vengono convocate dalla superiora e dalla sua aiutante. Può farsi monaca se lo vuole. Non accetta, deve fare da madre a Rosùte. Le due monache sono realiste. Non comprendono, non sospettano di avere dinanzi a loro due misere, dolenti, piccole Sante. La cinepresa panoramica su volti, corpi, espressioni. Indugia, si intrattiene morbida e lieve sulle due fanciulle, come una dolce carezza, lungo l’amara vicenda. Maria Zef è un film laico, che rende sacra la povertà. Sakros in latino arcaico significa anche sacrificale. Un film duro e tenero unitamente. Una liturgia per chi possiede la capacità di amare, e niente altro.
Le due sorelle saranno accolte dallo zio, Barbe Zef, che abuserà di Mariùte. Lo temono, come l’orco predatore di una favola crudele e vera. Con lui vivranno, accudendo le poche capre e una mucca, che mette al mondo un vitellino. La bambina assiste al difficile parto. Impaurita, sbalordita, poi sorridente dinanzi al nuovo nato. La sua carezza, sul capo del nuovo venuto in quel misero mondo, appare tanto amorevole quanto desolata. Cottafavi filmò dal vero questa grande sequenza. Primipiani dominanti si alternano, si intrecciano con campimedi, dando respiro allo scenario. Anche le immagini cantano qui. Maria Zef è la sua penultima opera. L’ultima, Il diavolo sulle colline, la trasse dal romanzo di Cesare Pavese nel 1985. Poi si ritirò nella sua casa di Anzio fronte al mare. Morì solitario e silenzioso nel 1998. Luc Moullet, critico dei Cahiers du cinema, mise in luce questo film e lo definì il più bello del realismo. Fu presentato nei Festivals di Montreal, Cannes, Barcellona. In Italia si scoprì di avere un altro capolavoro.
La tragedia antica incombe su questa moderna vicenda. Mariùte non sente più dolore, non ha più lacrime per sé, sente rabbia e furore verso colui che l’ha abusata, che ha dissacrato la sua adolescenza. Teme che, come lei e come sua madre, Barbe Zef commetterà stupro nei confronti della piccola Rosùte. Stupro e incesto, perché lo zio è il padre della bambina. Carìte fu abusata quando il marito era emigrato da tempo. Rosùte è destinata a subire lo stesso oltraggio, la stessa reiterata violenza inflitta a loro, impunemente.
Ѐ notte. Barbe Zef ha svuotato la bottiglia di grappa. Si addormenta con il capo riverso sul tavolo. Mariùte lo fissa a lungo. Nel suo sguardo si esprimono insieme disprezzo e pietà. La cinepresa indugia sul suo volto, sulla testa dell’uomo addormentato. Primipiani si alternano sulle due figure. Ora è solo l’immagine a evidenziare il conflitto che agita l’animo della fanciulla. ‘Rosùte no! Rosùte no!, mormora Mariùte. Prende l’ascia poggiata accanto al camino, la impugna, la solleva…la solleva. Uccide Barbe Zef.
Paola Drigo così conclude il suo premiato romanzo: Ella afferrò la scure, e l’alzò quanto più poteva. La lama lampeggiò nell’ombra. Mirò al collo, e vibrò il colpo. Non un grido, solo un fiotto di sangue.
Cottafavi, con l’ultima inquadratura, primopiano della scure impugnata da Mariùte, conclude il suo film. Restaurato, nel 2019 fu presentato a Venezia nella sezione ‘Venezia Classici’. Dieci minuti di applausi.