Magic Mike – The Last Dance di Steven Soderbergh
Indiscreto
di Daniela Turco
Che strano, imprevedibile regista è Steven Soderbergh, che ha fatto dell’incertezza tra filmare e dipingere – risale a una decina di anni fa il suo annuncio di voler lasciare il cinema per dedicarsi solo alla pittura – una leva sorprendentemente creativa, visto che è uno dei pochi cineasti americani contemporanei in grado di praticare una sperimentazione militante e tenace, visibile nella torsione con cui le sue immagini vengono spinte verso i confini del concettuale americano più impegnato nella ricerca di una scrittura di luce – si pensa in particolare all’opera di Dan Flavin e di Bruce Nauman – e di metterla a valore nella sua riflessione sul cinema e sul suo linguaggio, continuando, di conseguenza, a “pensare” il tempo; di qui, anche, il suo interesse per la messa in serie e la ripetizione, modulata e variata con i vari Ocean 11, 12, 13, The Knick (stagione 1 e 2), incluso lo stesso progetto annunciato di dare un seguito al suo film di esordio Sex, Lies and Videotapes. Il cinema per Steven Soderbergh sembra quindi muoversi sostanzialmente lungo questi due assi ortogonali: un versante visuale-pittorico, con cui viene portato avanti un vero e proprio “discorso” di luce, spesso così potente da essere in grado di assorbire e orientare il flusso narrativo, e un versante più strutturale, geometrico e astratto, dove si svolge l’eterno ritorno di temi, corpi, volti, gesti, azioni, memoria, che il regista preleva e ri-ordina metodicamente nella forma di un appassionante archivio-inventario in divenire, aggiornato sistematicamente con ogni nuovo film. Non sorprende allora che Soderbergh si trovi così a corrispondere al profilo di un artista visivo-concettuale, a tutti gli effetti, continuando a resistere come il regista, forse, più sovversivo a Hollywood, dentro e contro il sistema, qualcuno cioè che si occupa in ogni suo film dei lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, scartando la sociologia più superficiale, e portando in luce gli aspetti essenziali altrimenti nascosti, di volta in volta, del sistema medico, o assicurativo, o delle multinazionali, o del lavoro in fabbrica, ecc., tutti settori attraversati e collegati dall’equivalente universale, onnipresente e spettrale, del denaro, di cui si insegue ossessivamente la traccia… Si direbbe che è proprio da questa combinazione anomala di elementi tra loro disomogenei che la visione dei suoi film viene portata al livello di un’esperienza completamente fuori dal comune, sia estetica che politica, senza distinzione. E’ abbastanza chiaro che per Steven Soderbergh, erede tra i più liberi e inventivi del cinema di Jean-Luc Godard – il suo Full Frontal resta un remake fra i più irriverenti e azzardati di Le Mépris – non ci sia poi molta differenza tra l’aspetto estetico e quello politico, non si esce mai infatti da nessuno dei suoi film, senza che il circuito fluido e abbagliante del visuale non riporti all’incontro o allo scambio con il circuito politico e concettuale, due facce ugualmente essenziali di una stessa medaglia, dove non si dà l’uno senza l’altro.
Magic Mike 3. The Last Dance non fa eccezione: denaro, corpo, danza, sesso e luce sono ancora gli ingredienti che Soderbergh mette in gioco, a dieci anni dal primo Magic Mike (2012), per aggiornarci sullo strano mondo di Michael Lane/ Channing Tatum, protagonista e attore, di cui fin dagli inizi ha prelevato segmenti significativi della sua vita reale per riversarli nei film – Channing Tatum ha effettivamente lavorato in un club di Tampa come spogliarellista – che funzionano in questo senso come puri squarci documentari, frammenti occasionali di realtà, che si prendono la scena e che, per la nuda semplicità di questo movimento, emozionano. Questo ultimo film, ad esempio, come ha osservato lo stesso Soderbergh in un’intervista con Matt Zoller Seitz per la rivista online Vulture, non esisterebbe affatto se non gli fosse capitato di vedere lo show “Magic Mike Live”, tutt’ora in cartellone a Londra, determinante per spingerlo a girare Magic Mike 3, e a portare la sua ultima danza proprio sul palco di un teatro londinese. Ma questo scambio e ibridazione avventurosa tra cinema, vita, teatro, danza, e perfino – come si vedrà – romanzo, permette a Soderbergh con questo terzo, e probabilmente ultimo, capitolo della saga personale di Mike Lane, di farne uso anche per collegare tra loro tutti i diversi punti che rappresentano le sue idee sul cinema e il suo modo di farlo, mostrandone in controluce il disegno, sul rovescio delle stesse immagini, che al dritto, incantano con il corpo, o il fantasma, di un racconto.
Qualcosa del genere succedeva anche in Band Wagon (Spettacolo di varietà, 1953) di Vincente Minnelli, la cui struttura è molto simile a questa di Magic Mike 3. The Last Dance. In entrambi i film infatti ci si trova di fronte alla messa in scena di un backstage show, in cui si mostra il processo attraverso il quale il progetto di uno spettacolo viene trasformato in qualcosa di completamente altro, inoltre entrambi i film sono determinati dalla presenza/assenza del denaro, dall’ombra oscura del fallimento e della perdita come da quella imprevedibile e luminosa dell’amore, ed entrambi, infine, si lasciano interamente attraversare dalla malinconia, come tonalità stessa del film, che accomuna Minnelli a Soderbergh, due registi irretiti nel sogno possibile/impossibile del musical, in un’epoca ancora “al presente” per Band Wagon di Minnelli, che, però, giunta al suo vertice, già iniziava a finire, mentre la personale interpretazione di Soderbergh del musical si concentra sull’essenzialità di un passo a due: la danza morbida e intima tra un uomo e una donna, che si staglia contro un cielo al tramonto, mentre, intanto, si continua a sognare e nel sogno si cerca l’incontro impossibile con un cinema che non si fa più.
La danza come forma visibile del desiderio, non potrebbe infatti essere più esplicita, nell’incontro tra Channing Tatum/Mike e Maxandra Mendoza/Salma Hayek, tanto da portare la coreografia a un punto di reale incandescenza, mentre è il desiderio stesso come significante di una mancanza a essere messo a nudo, senza più schermi, all’interno di una villa dalle enormi vetrate, affacciata sul mare. Soderbergh si serve di questo incontro tra Maxandra, una donna separata, estremamente ricca e sola, alla ricerca di un momento di completo abbandono a qualcosa o a qualcuno, e Mike, ex spogliarellista a Tampa, che, dopo il fallimento del suo progetto di costruire mobili di design, si ritrova a lavorare a Miami come barista, per spingere il film a pochi minuti dall’inizio dentro i cristalli trasparenti di un ambiente che funziona per metà come un laboratorio e per metà come una rischiosa “zona rossa”. Sembra infatti che, dopo una breve contrattazione tra i due, tutto possa succedere, mentre dall’intreccio dei corpi sale un’onda di pura corrente elettrica assorbita dalla geometria delle dissolvenze incrociate, nell’ultimo bagliore del tramonto, prima del buio. C’è qui una questione precisa in gioco, che Soderbergh mette in rilievo nell’intervista su Vulture e che ha a che vedere con la necessità di confrontarsi con la realtà, misteriosa e sfuggente del desiderio, con la fantasia, con la differenza fra sessualità e sensualità, in breve, con qualcosa che oggi è molto difficile da vedere al cinema. In fondo il cinema secondo Steven Soderbergh, è proprio di questo che parla, senza troppe parole, della realtà fisica di un desiderio in cerca di un’immagine, tra visibile e invisibile, della pressione di una sensualità che penetra fin dentro i movimenti di macchina che acquistano spessore erotico nel filmare e nel (far) sentire, un aspetto che Soderbergh condivide, ad esempio con Robert Rodriguez, e che in Magic Mike 3 si attiva anche attraverso la presenza di Salma Hayek, corpo morbidamente sensuale e politicamente ribelle, filmato da entrambi i registi.
Quanto al versante romanzo, presente nel film, non è questa per Soderbergh la prima volta che la letteratura – da Kafka (1991) al più recente Let Them All Talk (2020) – entra nei suoi film come soggetto profondo e come ambiguo fattore interno di destabilizzazione, impegnato in una prolungata contrattazione con le immaginì. Per Soderbergh, come già per Godard, secondo la lettura di Deleuze in L’immagine tempo, in qualche modo si tratta di dare al cinema le potenze che sono del romanzo; Magic Mike 3. The Last Dance inizia con l’immagine dell’insegna luminosa del teatro di Londra che si rispecchia al contrario in una pozzanghera, mentre al rumore smorzato della pioggia si affianca una voce off femminile, che parla della danza come pratica ancestrale in grado fin dalla preistoria di rinforzare i legami tra gli umani. Quando Maxandra invita Mike a seguirla a Londra e a rivoluzionare con la sua coreografia allusiva e sensuale, la noiosa commedia che va in scena nel teatro di sua proprietà, trasformandola in un elettrizzante spettacolo di danza, si scopre che la voce off dell’inizio, appartiene a Zadie, la figlia adolescente adottata da Maxandra, che ogni mattina scrive un romanzo in cucina, il cui soggetto sembra coincidere con lo spazio stesso del racconto del film. Soderbergh apre così un misterioso doppio canale tra parola e immagine che si fa strada attraverso la mediazione di questa strana ragazzina e del suo sguardo lucido, che le permette di vedere l’altro, per come è veramente e che per questo lo può “raccontare”. E’ con la sua voce off che il film prende inizio e, di nuovo, è grazie a Zadie, al maggiordomo Victor, deliziosamente convocato dal mondo di Ernst Lubitsch, e all’energia vitale di Mike, che lo spettacolo potrà essere messo in scena, e il progetto di Maxandra trionfare, nonostante gli impedimenti messi in atto dal suo ex-marito.
E’ dal conflitto tra queste diverse “visioni”, quella di Mike, incerto all’inizio e poi sempre più coinvolto, per amore, nel suo ruolo di art-director, quella di Maxandra, la cui femminilità vitale viene umiliata e ricattata dal perbenismo del marito, quella di Zadie che non potrà vedere lo show, perché proibito a una minorenne, eppure, ironicamente, è ancora e sempre lei, a tenere il filo del racconto, dove, come in Band Wagon, è la scena a prendere infine il sopravvento, e a preparare l’incontro, bagnato dalla pioggia, più fisico e struggente con il musical degli anni cinquanta – segnatamente, Singin’ In the Rain di Stanley Donen -, nella sequenza più densa del film, dove Mike mette in gioco la sua last dance, che è, insieme, un messaggio d’amore per Maxandra e il dispiegarsi di una fitta costellazione di immagini-tempo, che permettono a Soderbergh di mostrare una danza amorosa ancora più prolungata e profonda, che entra, bagnata dalla pioggia, dentro la storia del cinema, vissuta, sentita e mostrata come un corpo vibrante, vulnerabile e terribilmente vivo, dove continua a battere il tempo senza tempo del sogno di un desiderio che ritorna.