L’Utopia come direzione. Conversazione con Amos Gitai
A cura di Daniela Turco e Bruno Roberti
Queste due “opere” che hai presentato a Firenze, di grande impatto emozionale e visivo: Promised Lands, l’installazione all’interno della sala d’Armi di Palazzo Vecchio, e Exils Intérieurs, l’atto unico messo in scena al Teatro della Pergola, già a partire dai loro titoli sembrano stabilire una tensione tra le “terre promesse” dell’uno e gli “esili interiori”, dell’altro; lo consideri come un unico progetto, articolato in due parti, oppure…
A. G. No, direi che si tratta piuttosto di un dialogo, perché Promised Lands, parla della società, e di una società dislocata, in movimento; in sé le due parole “terre promesse” indicano la speranza di una situazione migliore, e nell’installazione c’è una presenza molto forte di lingue diverse, come l’ebraico, l’arabo, il filippino, l’yiddish, il tedesco, l’inglese, l’ucraino, il russo, l’italiano, il francese; ci saranno almeno dieci lingue, che nel loro insieme danno quindi l’idea di un collettivo, mentre la rappresentazione teatrale Exils Interieurs è invece focalizzata sull’individuo, e sull’individuo nel mondo, il che significa che in un certo senso è una sorta di vis-a-vis tra la posizione dell’individuo e la società, in un determinato momento in cui entrambi sono sottoposti a una forte pressione esterna. Il punto che Exiles Intérieurs indaga, consiste su come avevano reagito determinati autori di fronte a una forte pressione esterna. E allora vengono date due tipi di risposte che sono molto diverse tra loro, da parte di Thomas Mann e da Hermann Hesse. Hermann Hesse aveva suggerito a Thomas Mann di non farsi coinvolgere dalla politica, infatti, gli aveva detto “ Tu sei un grande autore, non hai nessun bisogno di prendere posizione, Hitler o non Hitler, non è poi questo grande problema, e così via….” Tuttavia, Thomas Mann in seguito aveva fatto esattamente l’opposto di quanto gli era stato consigliato da Hesse, era infatti andato a Bonn e lì aveva fatto un discorso dichiaratamente schierato contro il razzismo e contro l’antisemitismo. A quel punto, evidentemente, non era stato più possibile per lui rimanere in Germania e infatti dovette emigrare in America, ma il dato rilevante è il fatto che con la sua scelta era rimasto fedele a se stesso e alla verità.
Di fronte a entrambi i lavori che hai proposto a Firenze abbiamo pensato, ancora una volta, all’angelo della Storia di cui ha scritto Walter Benjamin, che “ con il volto rivolto al passato, dove ci appare una serie di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula macerie ai suoi piedi……” Abbiamo pensato all’angelo di Benjamin soprattutto per il rilievo che tu hai dato ai frammenti, di immagini e di suoni, di parole in entrambi i lavori. Mentre però nell’installazione c’è una prevalenza dell’immagine insieme ai suoni, nello spettacolo viene dato un grande risalto alla parola, segnatamente, a quella degli scrittori, siano dei letterati come Thomas Mann e Hermann Hesse, Albert Camus, la poetessa Else Lasker Schüler,(una delle protagoniste di Berlin-Jerusalem), oppure dei filosofi e attivisti politici come Antonio Gramsci e Rosa Luxemburg,
A. G. In Exiles Intérieurs mi interessava mettere in evidenza come si sente uno scrittore quando deve fronteggiare la guerra, la politica, i regimi. Ad esempio uno scrittore come Albert Camus, che entra verso la conclusione della pièce, con il discorso pronunciato nel 1957, in occasione del Nobel, all’università di Uppsala, rende molto esplicita la situazione di un autore nei confronti del potere. In quel suo discorso viene sottolineata la posizione necessariamente scomoda di un autore. Del resto Camus vedeva lucidamente che “l’arte cammina tra due abissi che sono la frivolezza e la propaganda. Lungo questa linea di cresta su cui avanza il grande artista, ogni passo è un’avventura, un rischio estremo. In questo rischio, però, e solo in esso sta la libertà dell’arte.” Tra l’altro, devo ringraziare mia moglie Rivka per la presenza di questo testo di Camus, che è stata lei a propormi dopo averlo trovato durante il lavoro di ricerca.
In Exiles Intérieurs ho voluto raccogliere insieme i testi di alcuni autori europei che si erano trovati in una condizione di oppressione data dalla dittatura. E il rapporto tra la pièce e l’installazione risuona anche qui nel mescolarsi delle lingue: il francese di Jerome Kircher, l’attore che mantiene il filo narrativo conduttore introducendo gli autori scelti, e di Nathalie Dessay, che legge le lettere di Rosa Luxemburg, il tedesco, di Markus Gertken e Hans Peter Cloos, gli interpreti del carteggio tra Thomas Mann e Hermann Hesse e di Talia De Vries, che interpreta la poetessa Else Lasker Schüler, l’italiano di Antonio Gramsci, le cui lettere dal carcere vengono lette da Pippo Delbono, e di cui si trovano dei frammenti anche in Promised Lands. Anche qui sullo schermo al fondo del palcoscenico, scorrono a tratti le immagini di alcuni miei film, ma in modo meno continuo rispetto a quello di Promised Lands. Qui il lavoro del montaggio viene condotto sulle parole degli scrittori.
Nell’installazione ci si trova circondati e chiamati dalle tue immagini a compiere un viaggio che porta a nuove scoperte, mentre si chiede allo spettatore sensibilità e attenzione, come per esempio, per le sequenze dei lavoratori nei campi di ananas delle Filippine, da Pinepple, o per i travelling strazianti e silenziosi che riprendono i palestinesi nei campi profughi, da Field Diary.
A. G. Oggi la questione delle immagini è molto presente, sempre e in ogni momento, ne siamo circondati e bombardati di continuo. Nel cinema lo si vede chiaramente, è un ambito in cui è sempre più visibile il crescente conservatorismo di coloro che finanziano i progetti, e le pressioni economiche cui vengono sottoposti i registi sono sempre più forti in un contesto di omologazione crescente, molto evidente nell’affermazione sempre più diffusa delle varie piattaforme, anche facilitata dalla situazione della pandemia, e che non è altro che la rincorsa allo spettatore consumatore, non certo a uno spettatore critico. A me interessa invece uno spettatore che possa essere aperto e interpretare ciò che vede, che non sia quindi semplicemente un consumatore di immagini. Le opere di un artista per me non hanno nulla a che fare con l’intrattenimento, ma se mai ti devono trasmettere un’inquietudine, devono sollevare dei problemi, e non soltanto da un punto di vista tematico ma anche formale. Devono disturbare lo spettatore, fargli compiere uno sforzo per capire, questo è quello che mi interessa.
Ciò detto, dispiace in modo particolare che registi come Spielberg e come Scorsese che hanno sempre agitato la bandiera di un cinema di autore, indipendente, si siano poi adeguati a questo stato di cose e finiscano per assecondarlo. Non sorprende che certi cineasti in questi anni abbiano scelto di non girare più, perché ci si sente sempre più incalzati e obbligati a fare degli oggetti di consumo, non dei film…
Ci sono due metodi opposti che sembra tu abbia seguito in Promised Lands e in Exiles Intérieurs: mentre nell’installazione è come se tu aprissi le immagini e noi come spettatori ci trovassimo in questa apertura spaziale, nello spettacolo Exils Intérieurs c’è il movimento contrario, cioè, una concentrazione molto forte; sembrano due modi diversi di compiere un percorso comune; tu hai pensato a questo?
A. G. Sì, certamente, e tra l’altro proprio in questa direzione ho lavorato molto intensamente con Jean Kalman che si è occupato delle luci. E abbiamo lavorato molto anche sulla presenza dell’ombra, delle ombre che sia nell’installazione che nello spettacolo hanno un ruolo determinante. Ho anche cercato di conservare al massimo il minimalismo del decor perché secondo me nel teatro c’è sempre un’attenzione troppo esasperata nei confronti del decor, invece mi interessava che la scena fosse il più nuda e scarna possibile.
Con Exiles Intérieurs che interroga così fortemente la Storia, sembra che tu abbia voluto interrogare il passato e il futuro attraverso una forza che ha a che fare con il presente. Qual è per te la relazione tra il passato e il futuro perché il tuo lavoro mette in scena un’interrogazione al Novecento, che forse non è mai finito. Che cosa pensi di questo?
A. G. Sì, si tratta sicuramente di un modo di osservare la Storia, attraverso i miei stessi lavori. Non è tanto un processo per rendere oggettivo lo sguardo sulla Storia, quanto di osservarla, di avvicinarla attraverso il mio lavoro. Per quanto riguarda l’aggancio con la contemporaneità, questo per me ha a che fare, credo, con un’alchimia che quasi sempre si stabilisce quando si è portato avanti un lavoro sentito, pensato; avviene un passaggio molto forte. Comunque, per quanto riguarda il tema del presente, vorrei parlarne anche nel suo rapporto con la lingua ebraica, che è una lingua molto antica e nello stesso tempo estremamente giovane, perché a differenza dall’italiano, che grosso modo è ancora molto simile alla lingua parlata da Dante, l’ebraico è più recente, nel senso che, praticato come lingua parlata effettivamente, ha poco meno di cento anni. A differenza delle lingue europee, come l’inglese, il francese, l’italiano, che hanno molte sfumature per i tempi diversi dei verbi, nell’ebraico la cognizione del tempo non assume un’importanza così fondamentale. Per l’ebraismo, piuttosto, è importante la condizione dell’azione, se, cioè, è completa o incompleta. In ebraico la forma perfetta o compiuta è la sola che riguarda il passato, e in essa sono comprese tutte le sfumature dei tempi delle lingue occidentali. In ebraico il tempo perfetto indica un’azione portata a termine, che, però, paradossalmente si può riferire a qualsiasi periodo di tempo: passato, presente o futuro. Per l’imperfetto è la stessa cosa: indica un’azione incompleta che può riguardare qualsiasi periodo di tempo. In senso più ampio, nella cultura ebraica l’idea del tempo può essere definita come un dialogo tra le sue dimensioni di “tempo della storia” e “tempo della vita” e da quello tra le due concezioni lineare e circolare del suo scorrere. Sono diverse visioni che influiscono l’una sull’altra e che si intrecciano tra loro a formare un’idea generale del tempo articolata e affascinante, che intrattiene sempre dei rapporti molto forti con la Torah. Per sintetizzare, il verbo ebraico non sottolinea tanto l’aspetto temporale ma piuttosto, esprime e rende vive le diverse qualità dell’azione, con un’attenzione maggiore data all’immediatezza poetica e narrativa, piuttosto che alla consequenzialità logico filosofica. Parlo con voi di questi aspetti perché sono importanti, del resto la materia linguistica è sempre estremamente ricca; ho spesso in mente, per esempio, una frase nella Torah che dice: “si va a fare e si va ad ascoltare”, che sembra in apparenza una cosa strana, contraddittoria, perché di solito prima si ascolta e poi si va a fare, e invece il senso della frase è proprio questo, sottolinea cioè l’importanza di passare prima all’atto materiale. Non avete idea di quante pagine di talmudisti siano state scritte per indagare e riflettere su questa inversione molto affascinante, che, in un certo senso, secondo me, trasmette anche una fiducia nella capacità delle persone, nella loro fede.
C’è una dimensione fortemente politica in Exiles Intérieurs, data soprattutto dalla selezione degli autori messi in campo e dalle scelte che li hanno coinvolti: Thomas Mann e Hermann Hesse, Antonio Gramsci e Rosa Luxemburg, Else Lasker Schüler (indimenticabile il suo ritratto che proviene da Berlin-Jerusalem) e Albert Camus.
A. G. La coppia formata da Rosa Luxemburg e Antonio Gramsci nella pièce condivide l’impegno politico e l’isolamento, l’enorme solitudine del carcere. Proviene da lì, la scelta di mettere in scena le loro lettere, piuttosto che i loro scritti, e questo perché è appunto attraverso le lettere che mandano, che viene fuori di più la loro fragilità, altrimenti difficile da trovare nei loro testi. Ho scelto un passaggio famoso e molto intenso di una lettera del 1917 che Rosa Luxemburg scrive dal carcere di Breslavia, dove era stata rinchiusa per aver manifestato contro la guerra, all’amica Sonja Liebknecht, moglie di Karl, e che riguarda un bufalo che aveva visto maltrattare all’interno del carcere. Rosa vedendolo sanguinare aveva trovato negli occhi dolci e neri dell’animale la stessa espressione di un bambino che ha pianto dopo essere stato picchiato. Nella lettera di Rosa viene fuori un senso di vicinanza, anzi, di vera e propria fratellanza con il bufalo e la sua muta sofferenza, che commuove ancora profondamente. Analogamente, Antonio Gramsci nelle lettere che scrive dal carcere alla madre, alla moglie Giulia, alla cognata Tania, ai figli, fa continuamente sentire il suo bisogno di contatto umano, e insiste sempre alla fine delle lettere con un febbrile “scrivimi, scrivimi”. Analogamente a Rosa, Gramsci mantiene anche in prigione una viva attenzione per le piante, gli animali; in una lettera al figlio parla delle piantine che sta crescendo nella sua cella e di una lucertola che cerca di addomesticare.
Infatti, la pièce Exils Intérieurs possiede una potenza così forte soprattutto perché ha a che fare e mette in scena una “Puissance de la parole”, attraverso il peso delle parole di autori che hanno segnato il Novecento.
A. G. Sì, sicuramente. A proposito di Puissance de la parole, vorrei dire qualcosa che riguarda proprio Jean-Luc Godard, che qualche tempo fa si è messo in contatto con me attraverso Jerome, un amico comune che come lui abita a Rolle. Godard mi voleva far sapere di aver amato Laila in Haifa, il mio ultimo film che ho portato nel 2020 alla mostra di Venezia… Così mi ha scritto che dei frammenti del film, o dei pensieri sul film, gli ritornavano in mente come nuvole sottili nel cielo. E che i merli sono ora in preda a un virus che fa sì che si sentano di meno in questi giorni. Poi ha concluso il suo messaggio così: “Amos Gitai con il suo ultimo film mi ha fatto pensare a uno di questi merli, diventati rari”. Poi, nello scambio di parole tra di noi, Godard mi ha anche detto di volersi occupare di Cabala ebraica…
In Exiles Intérieurs non ci sono solo attori, c’è anche la presenza dei musicisti e della cantante d’opera Nathalie Dessay che oltre a leggere le lettere di Rosa Luxemburg canta, accompagnata al pianoforte da Philippe Cassard, inoltre c’è anche il violino di Alexey Kochetkov e la fisarmonica di Bruno Maurice. Si avverte un’atmosfera che rimanda un po’ a Berlin-Jerusalem, evocato anche dalla presenza di Else Lasker Schüler … C’è una memoria al lavoro, ci sembra…
A. G. Sì, Berlin-Jerusalem di cui una delle due protagoniste era appunto Else LaskerSchüler, che è presente anche qui nella pièce, parlava, come tanti altri miei film, di utopie andate in frantumi.
Per quanto riguarda le musiche nella pièce, ho lasciato abbastanza spazio ai suggerimenti degli stessi interpreti. Nathalie Dessay è una cantante d’opera molto celebrata, che anche qui oltre a leggere le lettere di Rosa Luxemburg, canta accompagnata al pianoforte da Philippe Cassard. Tutti gli interpreti hanno dato con molto coinvolgimento e calore il loro apporto, proponendomi i loro materiali.
L’elemento dell’esilio e quello dell’utopia, sembrano essere per te sempre molto legati…
A. G. Sì, è qualcosa di molto presente per me, come lo è del resto nell’ebraismo, che, attraverso i secoli, prima della fondazione di Israele, ha sempre mantenuto aperta una tensione tra il vivere in diaspora e l’utopia della terra promessa; il Seder, la cena rituale della Pasqua ebraica termina con l’affermazione: “L’anno prossimo a Gerusalemme”, che indica certamente un desiderio, una disposizione ad attendere e una spinta utopica. Tuttavia il fatto che la si ripeta sempre, dà anche l’idea di un obiettivo destinato a non essere mai raggiunto. Come ho sempre sostenuto, l’utopia deve soprattutto esistere come direzione, perché se viene realizzata finisce per trasformarsi in un incubo.
In Exiles Interieurs c’è la presenza forte di questo tavolo molto lungo che è praticamente l’unico segno di decor sulla scena, con intorno le sedie e, sopra, una serie di lampade… Se non ci sbagliamo, quando avevi allestito nel 1993 nel ghetto di Venezia la pièce tratta da Giuseppe Flavio The War Between The Sons Of Light And The Sons Of Darkness, era stato un tavolo a ispirarti…
A. G. Sì, allora avevo avuto diversi problemi nell’allestimento a Venezia, e mi ricordo che alla fine mi ero rivolto a una rappresentazione molto astratta e ricorrente in molti dipinti, quella dell’ultima cena. In particolare, avevo in mente l’affresco di Andrea Del Castagno in Sant’Apollonia a Firenze, dove la presenza del tavolo ha un impatto orizzontale decisamente dominante. E, tuttavia, questa stessa forma, il tavolo, è anche un’immagine classica e molto comune nella nostra contemporaneità. L’immagine di persone che siedono intorno a un tavolo, con sopra dei microfoni, e bicchieri d’acqua, per meeting e conferenze è un’immagine familiare a chiunque. Anche in quella pièce nel ghetto di Venezia, come ricordavate, venivano usate molte lingue diverse, proprio come in questa…
Tra l’altro, lo stesso tavolo che ho portato qui al Teatro della Pergola, l’avevo già usato sia in Ytzhak Rabin, Chronicle of An Assassination, sia nel mio corto Letter To a Friend in Gaza, presentato a Venezia. Ora che l’ho adoperato anche qui, (ridendo), e dato il mio interesse per le trilogie all’interno della mia filmografia, si potrebbe parlare di una “trilogia del tavolo”…
Anche l’anno prossimo, comunque, proseguirò ancora con il teatro, porterò infatti al Piccolo Teatro di Milano un’opera che prende House, il mio primo film, come punto di partenza.
L’incontro con Amos Gitai si è tenuto a Firenze il 14 aprile 2022.