LUSSU di Fabio Segatori
Insurrezione e dintorni
di Daniela Turco
Nelle righe conclusive del suo testo: “Perché Filmcritica è la mia casa” – uno dei più emozionanti pubblicati sul n. 700 della rivista -, Fabio Segatori scriveva di cercare “dal /nel/per il cinema, il nitore dei paesaggi interiori, l’estasi di un’esperienza, la visione che da “segno di vita” si fa riflessione. Con parole identiche si potrebbe definire anche la stessa ricerca di Segatori, che soprattutto con i suoi due ultimi film: Guerrieri (2018) e Lussu (2021) – due titoli netti, che coincidono con il cognome dei protagonisti – sembra aver raggiunto un nuovo consistente rilievo, attraverso un lavoro molto serio di documentazione storica e un uso sperimentale e innovativo dei filmati d’archivio.
Spettatore e critico, appassionato del cinema di Rossellini e di Herzog quanto di quello di Tsui Hark e del cinema di Hong Kong, le cui tracce si disseminano fin dall’inizio nel suo lavoro di cineasta, Fabio Segatori, prima con Guerrieri e ancor più con Lussu, raggiunge una libertà e un orizzonte più ampio, che va molto oltre il soggetto trattato. In Guerrieri il film prende le mosse dal percorso artistico e umano di Gerardo Guerrieri, che aveva avviato nel dopoguerra del secondo conflitto mondiale un appassionato lavoro di studio e di traduzione di testi teatrali-chiave – E. O’Neill,, W. Saroyan, A. Miller, T. Williams -, molti dei quali da lui introdotti per la prima volta in Italia, e che, in seguito, alla fine degli anni Cinquanta, aveva fondato insieme alla moglie, Anne d’Arbeloff, il Teatro Club a Roma. Il fascino del film proviene in gran parte dalla sua stessa struttura: un mosaico di incontri, di voci, di testimonianze e di filmati rari, attraverso i quali viene ricostruito l’iter di un intellettuale schivo, eppure molto determinato, al punto da impegnarsi radicalmente per portare a Roma la cultura e il linguaggio delle avanguardie, anche a prezzo di notevoli rischi, economici e personali. In questo modo, Gerardo Guerrieri era riuscito a ribaltare la scena teatrale di allora, dominata da un diffuso clima provinciale, aprendola completamente all’avventura fin lì impensabile di portare a Roma la scena internazionale del mondo. Quello di Gerardo Guerrieri è stato un progetto culturale e politico straordinario, cui il film di Segatori restituisce il rilievo che merita, non soltanto per la ricchezza di idee e di immaginazione investite nell’irripetibile esperienza del Teatro Club – che aveva accolto gruppi come il Living Theatre, e autori come Tadeusz Kantor, Peter Brook, Bob Wilson, ecc. -, ma soprattutto per l’intento politico che lo animava in sottotraccia, l’evidente ricerca di una reale diffusione popolare, l’idea di portare la carica trasformatrice del teatro a un pubblico vasto, di ogni classe sociale, e non solo di élite.
Molto della struttura su cui si muove Guerrieri, si ritrova anche in Lussu; i due film sono segnati dalla presenza cruciale, che fonda entrambi, di filmati d’epoca, spesso rari, che per quanto riguarda Lussu provengono da archivi diversi, tra cui quello del Senato Americano, l’Imperial World Museum, l’Archivio del Movimento Operaio, lo Steven Spielberg Film Archive, il Museo della Città di Marsiglia, ecc., con l’esclusione decisa da parte del regista degli archivi Luce, per il legame diretto dell’Istituto con il regime fascista. Il confronto di Segatori con questa “realtà” disomogenea delle immagini prende in Lussu modulazioni diverse: i materiali di repertorio possono entrare in una posizione di controcampo dialettico a incalzare le immagini finzionali, in cui vengono ricostruite le tappe essenziali della vita di Emilio Lussu, oppure, attraverso il compositing digitale, possono essere usati direttamente come sfondo, una cornice entro cui far muovere i corpi degli attori, praticando così una strada di aperta contaminazione, nel solco fertile di un cinema impuro, e, tuttavia – come per Rossellini – molto rigoroso, fedele a una verità che non riguarda soltanto la Storia e gli avvenimenti, ma che si spinge fino a toccare nel vivo, idee, sentimenti e passioni. Ed è proprio in questo groviglio tumultuoso di materiali eterogenei, raccolti in un unico flusso attraverso il montaggio, che Segatori riesce a immaginare e a mostrare una realtà che esce dalla leggenda e dai libri di storia, per prendere i contorni della vita.
Non sorprende, del resto, che Fabio Segatori abbia affidato ritmo e senso del film proprio a questo mescolarsi di materiali filmati e di registri diversi che si muovono liberamente tra documentario e fiction; in anni lontani Segatori con L’avventura estetica. Filmcritica 1950-1995 (Il Saggiatore 1998) aveva raccontato e “ritratto” i primi cinquant’anni di vita di Filmcritica, raccogliendo in quel libro una polifonia di voci diverse che appartenevano ai vari redattori che negli anni avevano scritto sulla rivista, con un lavoro di montaggio, straordinariamente analitico e poetico, che riuniva i frammenti in un unico flusso dove pluralità e singolarità potevano coesistere, nel mistero di un senso in più.
Di Lussu, colpisce soprattutto che in soli 52’ sia stato possibile concentrare una densità narrativa e una stratificazione temporale così intensa; seguendo il tumultuoso percorso di vita di Emilio Lussu, nel film si riflette inevitabilmente l’intera dorsale del Novecento, a partire dal trauma originario della prima guerra mondiale, che di colpo apre gli occhi al giovane Lussu (interpretato da Giacomo Fadda) sulla violenza di una carneficina che aveva un’inequivocabile connotazione di classe, sull’insensatezza dell’uccidere, sulla paura che dilagava dentro le trincee e davanti al fuoco nemico.
Questo sguardo lucidissimo sulla realtà della guerra spinse allora il tenente Lussu a disobbedire agli ordini dei generali, scegliendo di non mandare i suoi uomini a morire e rischiando per questo la fucilazione. Soltanto nel 1937, durante la convalescenza dopo un’operazione al torace, Lussu scriverà di quell’esperienza tragica nelle pagine leggendarie di Un anno sull’Altipiano.
La struttura a incastro del film si apre nei piani sfalsati di un tempo non lineare, iniziando nel 1975 con un Lussu ormai anziano (interpretato da Renato Carpentieri), sorpreso nel giardino della sua casa sarda da un gruppo di ragazzini che stanno giocando alla guerra e, che, avendolo riconosciuto, iniziano a fargli delle domande. Avviene così che, nello schema esplicito di un dramma didattico brechtiano, il racconto delle sue vicende, diventi la chiave per “passare a contropelo la storia”, fino ad arrivare all’esperienza sul campo della Prima guerra mondiale, di cui già aveva scritto Walter Benjamin nel saggio “Esperienza e povertà”, osservando che: “ …la gente tornava dal campo di battaglia ammutolita. Non più ricca, più povera di esperienza comunicabile.”
Come spiegare, allora, a dei ragazzini che non l’hanno mai vista, la guerra e il dramma dell’uccidere che resta dentro per sempre, e come parlare loro della nascita del fascismo? Segatori affida alla voce in off di Carpentieri, che, nel racconto al presente, scorre insieme alle immagini, il ruolo di tracciare l’essenziale della vita di Lussu, uno dei tanti uomini eccezionali del Novecento: la guerra e la disobbedienza, la ribellione ai soprusi e al regime, l’uccisione di un fascista, e, nonostante la legittima difesa, la condanna al confino a Lipari. Lì, nell’isola, dall’incontro di Lussu con Carlo Rosselli, Parri, Nitti e altri antifascisti saranno gettate le prime basi di quella che diventerà poi il gruppo di Giustizia e libertà, fondato a Parigi, dopo la fuga avventurosa da Lipari, insieme ai fratelli Rosselli, Salvemini, Tarchiani, Nitti, Cianca, ecc,; il primo importante tassello che già prepara la Resistenza.
Tutti gli avvenimenti fondamentali, dall’uccisione dei fratelli Rosselli, alla guerra di Spagna, fino all’intero processo del secondo conflitto mondiale, entrano del film nel segno di un’autenticità di materiali che portano la Storia all’interno della ricostruzione finzionale del percorso di Lussu, dove il bianco e nero che uniforma i filmati di repertorio e i nuovi materiali girati, può comunque accendersi, talvolta per qualche istante, dei colori della vita.
Sono questi i momenti che nel film toccano di più, come l’immagine improvvisamente a colori del mare azzurro, guardato da Lussu dalla finestra, mentre è a letto, malato, oppure la forza dirompente del primo incontro con Joyce, dove l’insorgenza del colore coincide con la nascita dell’amore. Questi improvvisi momenti di colore che sovvertono letteralmente il fluire delle immagini, vanno intesi per quello che sono, le tracce potenti di un’insurrezione, una violenta affermazione di vita, che resta il segno più politico e nello stesso tempo più intimo e personale del film. Non ci si trova qui molto lontani dalla sensibilità di Edgar Reitz che nei suoi vari Heimat ha lavorato in un modo analogo sul passaggio dal bianco e nero al colore, come un trascorrere, cioè, legato alle mutazioni repentine dei sentimenti, al vibrare imprevedibile e improvviso di un’emozione. La figura di Joyce Salvadori Lussu (interpretata da Carolina Signore, e, magnificamente, da Galatea Ranzi nelle sequenze del 1975), intellettuale, attivista politica, moglie e compagna di lotta di Emilio Lussu, porta nel film il senso della differenza nella condivisione; entrambi erano militanti di Giustizia e Libertà, impegnati nella lotta partigiana per la quale alla fine della guerra le sarà consegnata una medaglia al valore. Anche attraverso la figura di Joyce Lussu, una delle fondatrici dell’Unione Donne Italiane, traduttrice delle opere di Nazim Hikmet, vicina alle lotte anticolonialiste per averle conosciute da vicino, il film sottolinea la dimensione cosmopolita che animava l’attivismo politico di Emilio e Joyce, l’idea di costruire una rete internazionale di viaggi, di incontri, di studio, come tappa necessaria per preparare e sostenere efficacemente la lotta. Questo aspetto della necessità di ricostruire un paese distrutto e allo sbando – straordinarie e angoscianti, da questo punto di vista, alcune riprese girate da John Huston, al seguito dell’esercito americano, della distribuzione del cibo agli italiani sfollati e dei corpi estratti dalle macerie dopo i bombardamenti -, è evidente nel congedo finale del racconto fatto da Lussu ai ragazzi, nel 1975. Mentre scorrono le immagini filmate in soggettiva dell’emiciclo vuoto del Parlamento, la voce di Lussu in off parla di un’idea di democrazia conquistata e difesa con le armi in pugno, per poterla consegnare ai giovani, che, a loro volta, se necessario, saranno chiamati a difenderla. Nessuna inutile retorica appesantisce Lussu, che per questo commuove, restando un film asciutto ed essenziale, con il suo deciso ripudio della guerra e con il senso profondo di una lotta per la liberazione, che – come osserva Joyce a proposito della vita – non è mai finita.