Locarno 76: Les Premiers Jours
Fantasmagorie del reale
di Marco Allegrezza
Da una parte c’era il mare, dall’altra la terra, in mezzo una comunità arcana. Come oggetto di studio/desiderio, questa volta Stéphane Breton sceglie un (non) luogo evanescente, popolato da creature che sembrano provenire dalla letteratura del fantastico. Dove siamo? Chi sono? Perché tanta meraviglia? Perché non credere ai tuoi occhi, San Tommaso? Le risposte a queste domande non esistono, però di certo, se è possibile cercarle, non è nel regno della fantasia o dell’imaginario che risiedono, ma bensì nella dimensione del reale. Continuiamo a non vedere un film documentario, ma un oggetto alieno che racconta vite e “cose mai viste” in terre remote. Non è un racconto d’avventura, ma la vita di una micro società autarchica, ai margini di quella ufficiale.
Ci troviamo nel nord del Cile, dove sentiamo più che vediamo, dunque viviamo in un limbo d’immagini di concreta esistenza, che fanno sfumare i confini tra realtà e illusione.
L’autore francese, etnologo e filmmaker, con Les Premiers Jours (The First Days) sua opera terza, in selezione ufficiale alla Semaine de la critique della 76a edizione del Locarno Film Festival, trascende la forma del racconto etnovisuale, quasi soverchiandolo, e punta tutto sull’esperienza del secondo sguardo, quello dello spettatore, che resta avvolto in uno stupore sensoriale più che in un atto di osservazione, seppur politico. Le immagini di cruda verità si affievoliscono, lasciando spazio alla persistenza di un lirismo immaginario, un abbandono insolito, una rivoluzione poetica da sala cinematografica e da salone museale. Un’esperienza trasversale da soprattutto udire, poi guardare. Un’opera che chiede di essere esperita e vissuta, più che vista.
Ritorniamo dove eravamo, su un’isola sperduta, da qualche parte nel nord del Cile. Qui tra le rocce, il mare e le carcasse urbane della vita moderna, troviamo “una comunità di uomini che ha rinunciato alle comodità del mondo civilizzato”[1].
Sono tutti uomini, e la loro principale attività è quella di confrontarsi con lo scenario marino nel tentativo di raccogliere e prelevare, con dotatissimo ingegno e in diversi modi e tecniche, resti vegetali che le onde trasportano a riva. La raccolta di queste particolari alghe è l’unica fonte di guadagno e sostentamento per la minuscola comunità.
Una routine continua, quasi teatrale, vede gli individui in scena ripetere gli stessi forzi, gli stessi gesti: la durissima lotta per procacciarsi il loro oro verde, cacciatori vegetali che cooperano laboriosamente per un obiettivo comune. Superare le rocce, entrare tra le onde, raccogliere le alghe o pescarle o strascinarle o combatterci energicamente, portarle a riva, farne grandi matasse e trasportarle per la vendita, verso altre coste della piccola isola dove prenderanno il mare per proseguire un altro viaggio per chissà dove e soprattutto per chissà cosa.
Un confronto pedissequo, non solo tra uomo e natura. Tutto il cosmo sembra resistere, lottare e sopravvivere verso qualcos’altro o qualcun altro.
L’habitat in cui queste infaticabili persone vivono è diviso tra natura brulla e contaminazione umana, residui dell’era moderna e scorie umane. Gli scenari degradati sono composti da accampamenti-baracche dove riposano dopo le faticose lotte tra le onde dell’oceano, e da mezzi di trasporto ridotti a carcasse metalliche divorate dalla ruggine, indispensabili per trainare le alghe sulla terraferma e trasportarle. In questo luogo ai confini del mondo, per far bollire un pentolone carbonizzato per cucinare qualcosa, il fuoco lo si accende con i resti di scarpe, suole e altri pezzi gomma. Si beve da grandi taniche di plastica e si indossano abiti spaiati, recuperati da cestoni comuni. Sembra un trendy pop di un’abile stilista o costumista, ma non lo è. È ciò che resta del consumismo.
La vita viene ripresa, da Breton, così come si palesa, nei momenti di arduo lavoro come in quelli di risposo e a volte anche di festa, mentre la comunità si aggrega e vive momenti di svago e convivio, consumando fugacemente i pochi “doni” provenienti dal mondo dell’agio. Subito dopo tutto torna ad essere come prima, riparte l’ingranaggio estenuante del lavoro con una sola aggiunta, materiale, dei rifiuti in più ospiti in questo territorio arido, in una miscela tra ordinario e straordinario che conserva naturalmente una grande carica di mistero e magia.
C’è solo una voce fuori dal coro tra questi abitanti, un uomo che enigmaticamente fa delle istallazioni con rottami e resti vari trovati sull’isola. Ma chi è questo compositore di istallazioni metallurgiche? Un artista che gioca con e trai rottami? Sembra che non fare parte della comunità, ma ci torna spesso, alla ricerca di qualcosa di sempre nuovo. D’altronde non si sa mai cosa arriverà dal mondo urbano, quale oggetto che, raggiunto il fine vita, viene qui rigettato per risorgere in un altro modo e per un altro tempo, nell’altro mondo del consumo, l’aldilà dell’universo moderno.
Se tutti gli altri frugano tra gli oggetti alla ricerca di qualcosa di utile nella prassi, lui gioca con il materiale, si dedica a qualcosa di infruttuoso, ovvero l’arte. L’unico gesto volto alla non efficacia produttiva, quindi incomprensibile agli occhi degli altri. L’uomo è un land artist, ma lo sa solo lui, e noi che lo osserviamo. L’apparente inutilità dei suoi gesti e delle sue creazioni viene enfatizzata dall’atteggiamento degli autoctoni, che non prestano alcuna attenzione alle sue creazioni, né si domandano il particolare disseminazione, ingente e cumulativo e non, di oggetti in posizioni inusuali. Lì vediamo addirittura abbattere le sue opere di riciclo. Per loro non sono creazioni artistiche, ma oggetti che svuotati del loro possibile utilizzo, non valgono nulla. Resta un dilemma la presenza di questo bizzarro artista è lì. Se non ci fosse stata la macchina da presa di Stéphane Breton, qualcuno avrebbe mai visto le sue istallazioni? Se a questa domanda viene difficile rispondere, affiora tuttavia un’affermazione al contrario: l’arte esiste solo nei contesti dove può esistere. O forse è sempre lo sguardo il responsabile delle coscienze e conoscenze, lo sguardo del dispositivo, lo sguardo postumo. Chissà se basta osservare per comprendere che è negli interstizi più profondi delle logiche umane che la verità appare ancora più nebulosa.

Il principale linguaggio di Les Premiers Jours (The First Days), è quello dei gesti, che si ripetono infinitamente, dei movimenti delle persone e dei paesaggi. I pochi dialoghi presenti, sono non udibili, sempre coperti da suoni o rumori come quello del mare, del vento, delle rocce, dei passi o del lavoro. Fungono come bisbigli, un vociare utile alla creazione di un tappeto sonoro antropico, ma non è un’assenza, perché a parlare sono i suoni diegetici dell’ambiente e dei vari materiali e quello extradiegetico della musica.
L’autore ci riportare alle origini della vita e del linguaggio, dove è possibile ascoltare e padroneggiare la prima forma di comunicazione, l’idioma della natura e i versi dei primi abitanti, nei loro First Days.
La dimensione sonora è la principale traccia da seguire, tesse e domina le fondamentali linee di comunicazione, sia dei personaggi che dei luoghi introducendoci oltre il voyeurismo e trasportandoci violentemente dentro l’esperienza. È straordinario il modo in cui musica e suoni fanno dialogare questi personaggi, come strumenti di una grande banda. Ma perché non dotare di voce la realtà? Perché questa volta non ce n’è bisogno, non quando tutto ci vuole portare verso un’unica direzione universale e onnisciente, costruendo un film-saggio in una forma nuova, che chiameremo “empatia sensoriale”.
Suoni distopici di natura e materia accompagnano infatti le immagini, si smarriscono e poi si ritrovano, sostenuti da un sound design straordinario da massima installazione sonora percettiva che rifiuta il logos canonico. Giocano a un ritmo armonico impeccabile, assomigliano a un accoppiamento amoroso, ogni tanto l’uno sembra richiamare l’altro, si precedono e si susseguono, poi si incontrano al culmine di in una fusione simbiotica ancestrale, un’unione perfetta ambigua e seducente, come nella magnetica scena della lotta canina a ralenti. “Gli elementi come la musica e i suoni in presa diretta, sono stati utilizzati come ingredienti per una ricetta, un gateau”, dichiara Breton alla fine della partecipata anteprima al Festival di Locarno che ha incuriosito e catturato la platea e coinvolto catarticamente e in modo totalizzante i sensi. “Il compositore del suono e della musica, ha mescolato i timbri di un concerto da camera con i sospiri di una lavatrice, perché non c’è niente di più bello dell’incontro inaspettato di cose che non hanno nulla a che fare l’una con l’altra, ma che desiderano guardarsi negli occhi”.
In questa terra di mezzo che ospita animato e inanimato, persone e oggetti, vivono e convivono come in un’epica mitologica moderna, lotte e resistenze, celebramenti festosi, finali e nuovi inizi. Nessuna messa in scena è più vera della vita osservata, filmata e vissuta o sognata. Non siamo a Dune, né in Mad Max, ci troviamo in un Cile mai visto così, e questo esperimento sul reale è una “canzone cinematografica” dalle nuance etnodistopiche, che ci lascia oscillanti tra realtà e fantasticheria, in una landa apparentemente immaginaria, ma che invece esiste e, nonostante ai nostri occhi sia aliena, vive di una propria caparbia e inevitabile normalità.

[1] Dal brano “Legoland” del gruppo musicale Pop X: https://www.youtube.com/watch?v=ud3xJ5qSkPo&ab_channel=Superblutone