Locarno 76: Jude, Vecchiali, Diaz, Mandico, Dupieux
Liberi di morire.
di Francesco Scognamiglio
Aria fresca e non pretenziosa dai nuovi cineasti del presente. Decido però di scrivere sulle opere libere di quegli autori già affermati, di cui ero già interessato e allettato già leggendone i titoli prima di giungere al festival, molto presi dalle proprie ricerche ossessive su questioni di universale rilevanza. Quali la vita, la politica e la morte.
Concorso internazionale:
Do not expect too much from the end of the world di Radu Jude
Una corsa senza sosta e senza orari quella di Angela, giovane ragazza dal vestito largo e scintillante, che si prodiga tra le strade affannose della Romania, verso case e persone sparse in quartieri diversi di Bucarest, distanti l’uno dall’altro.
Senza mai perdere una singolare capacità ironica, la giovane runner del cinema si affretta a svolgere i molteplici compiti che le vengono assegnati dall’assistente di produzione attraverso brevi chiamate telefoniche.
Ma in questo attacco totalizzante alle ingiustizie del mondo e alla stupidità dell’essere umano portato avanti dal regista Radu Jude, già premiato a Berlino due anni prima con l’Orso d’oro, il cinema viene preso di mira soltanto in un secondo momento.
Da subito siamo in strada per molto tempo al fianco di Angela. Molti automobilisti insultano e importunano gratuitamente la nostra lavoratrice che, nonostante le ore mancate di sonno per colpa dell’overworking impostole dalla produzione, risponde a tema sfogando la rabia di una generazione stanca di questo pantano socioculturale.
L’unica amica che l’aiuta a mitigare la fatica è il suo AlterEgo digitale. Il prodotto di un filtro elaborato su TikTok, dall’aspetto maschile (sembra Andrew Tate l’influencer arrestato in Romania per tratta di esseri umani), a cui Angela stessa dà vita e con cui si diverte (ottenendo parecchie visualizzazioni dagli altri utenti) ironizzando su situazioni complesse che incontra lungo la strada. Il viso filtrato irrompe nelle scene in primo piano come un fantasma libero che tramuta l’immondizia contemporanea in linguaggio alieno.
I viaggi nella Romania contemporanea in cui Angela è immersa sono interrotti bruscamente da alcuni estratti di un film rumeno del 1981: Angela merge mai departe di Lucien Bratu.
Anche qui una donna di nome Angela è alla guida di un’automobile. Questa volta però la Romania è quella della Repubblica Socialista in cui Angela è una tassista alle prese con i più terribili passeggeri, uomini ottusi e a volte saccenti. Improvvisamente le sequenze del film d’archivio si rallentano di parecchi fotogrammi per secondo per permetterci di osservare bene le facce dure dagli occhi spigolosi delle comparse (apparentemente casuali) ai margini dell’inquadratura.
Queste immagini dai ritmi più riflessivi vengono alternate spesso al girato graffiante del film in modo da alimentarsi una coerente ricerca sistematica sul luogo e sulle persone.
“It’s later than you think” recita una scritta al centro di un orologio senza lancette fisso al muro di una delle case in cui l’Angela di Jude è giunta per lavoro. Dopo aver posizionato il suo cellulare su un piccolo cavalletto inizia a girare l’ennesimo provino da mandare in produzione. I soggetti che stanno cercando sono tutte persone gravemente infortunate sul lavoro. Una società austriaca vuole girare in Romania uno spot educativo sulla promozione dei dispositivi di sicurezza per gli impiegati nelle fabbriche e ha contattato una troupe televisiva locale in cui anche Angela lavora.
L’ansia e lo stress a catena generato dagli austriaci portano Angela a continuare a lavorare e a temere di non riuscire a rimanere ancora sveglia dopo oltre 12 ore di lavoro. In Romania c’è un altissimo tasso di morti per incidenti d’auto. Una strada in particolare di oltre 500km ha addirittura più morti che chilometri. Ne vediamo a lungo le croci ai lati della strada. Le persone continuano a correre sulle corsie di emergenza incuranti del fatto che potrebbero essere loro i prossimi nomi da incidere sulle croci da piantare.
Angela cita questa strada mentre accompagna in macchina dall’aeroporto all’albergo la delegata di produzione australiana parente del Goethe dei I Dolori del Giovane Werther.
Conversando e confessando giungono dinanzi al mastodontico palazzo del Parlamento rumeno, simbolo della dittatura di Ceausescu. Angela spiega di come è estato eretto violentemente negli anni 80’ sulla Collina degli Spettri al posto del quartiere storico Uranus, completamente raso al suolo per fare posto a questa nuova opera architettonica. Intanto nei rallenti dell’Angela tassista stiamo viaggiando nel tempo e vediamo le strade e le abitazioni di questo vecchio quartiere ancora intatto.
Le ultime parole sacre di Wolfgang Goethe, “Mehr Licht” (More Light), sono in realtà false per la pronipote austriaca. “More nothing!” Era così che disse secondo lei.
Veniamo al cinema, contenitore di tutte le sofferenze del mondo.
Anche chi lavora con le immagini appare infine debole e rassegnato. Un fantoccio mortale che si piega alla formula dettata da un industria nichilista assai convincente.
I neocolonialisti portatori di oro, ricchezze e rovina, liquidano la troupe televisiva con poche ed elementari sentenze da adottare per la riuscita dello spot promozionale. Come quella del presidente della società estera che in videocall organizzativa ha soltanto una cosa da dire al regista: “Emotion”.
O come quella di utilizzare come riferimento visuale il video della canzone Subterrean Homesick Blues di Bob Dylan, che rimbomba pesantemente nei nostri animi costretti a sopportate alla vista gli occhi struggenti dell’uomo in sedia a rotelle e di tutta la sua famiglia che intorno a lui è costretta a rimanere in posa davanti la camera nonostante l’improvvisa pioggia e il tempo d’attesa eterno.
Il freddo cinema li costringe con furbizie a distorcere la verità. Questo spot è per promuovere i dispositivi di sicurezza da utilizzare sul lavoro ma il soggetto che hanno scelto come portavoce ha avuto un incidente in fabbrica per colpa di una sua distrazione e ritiene giusto denunciare lo sfruttamento sul lavoro che ha subito (l’avevano fatto lavorare troppo a lungo, di gran lunga oltre i limiti sindacali, stanco, non si era accorto del pericolo). Ora l’intera famiglia chiede soltanto di esporre, davanti la telecamera, come si è svolto l’incidente. Non vogliono problemi con la legge e per questo non cedono ai tentativi della produzione che sta cercando di convincerli a dichiarare il falso. Sui cartelli verdi che al disabile viene indicato di far scorrere lentamente, come Dylan fa nel video della sua canzone, in post-produzione i dipendenti inseriranno quello che i finanziatori meglio riterranno funzionale per la campagna.
Finito il lavoro nessuno aiuta questa povera gente a risistemarsi. La famiglia ha paura di una futura manipolazione del filmato e alle loro lamentele per avere chiarificazioni riguardo la funzione dei cartelli loro cercano solo di tranquillizzarli senza però dare certezze.
Tutto questo ci scorre davanti in un’unica immagine fissa dalla durata di 30 minuti circa in cui vediamo l’intera ripresa che l’operatore sta realizzando senza mai stoppare. Per fortuna il nostro angelo luccicante continua la sua ironia sui social, facendo freddure sottili su Putin e la guerra.
Chi lavora senza sosta ha almeno diritto di parola. L’umorismo non morirà per affaticamento.
“Summer grasses, all that’s left of warriors dreams”.
Essential Truths of the Lake di Lav Diaz
Secondo capitolo per il tenente Hermes Papauran, perso, anche questa volta, tra le fitte violenze nelle Filippine.
Cronologicamente antecedente ai fatti narrati in When the Waves Are Gone, il film (dalla durata di quasi quattro ore) inizia presentando i vari elementi e personaggi del racconto che il regista, Lav Diaz, decide di alternare in montaggio per offuscare il tempo e lo spazio su cui si muove la narrazione principale. Ottenendo così uno stato di confusione ideale per prendere parte a un’indagine che sembra decisamente più grande del singolo caso che sentiamo ritornare alle orecchie del tenente. A quest’ultimo fa infatti visita una vecchia collega di corso (ora colonnello) per convincerlo ad indagare nuovamente sul caso Eagle che in passato era stato chiuso e che lo aveva ossessionato fino alla follia.
Vediamo l’attrice Esmeralda Stuart, la ragazza vestita da aquila assassinata nel 2005 durante il governo del presidente Duterte, che si fregiava di esercitare tolleranza zero per i criminali, a cui il colonnello e il tenente Hermes devono il proprio marciume interiore, che protesta con il gruppo di attivisti amici contro l’abbattimento delle foreste del Taal a Batangas.
Spesso siamo immersi nelle immagini distorte di un locale notturno in cui questi ragazzi danzano liberi dagli usi e costumi canonici dell’epoca conservatrice. La ragazza aquila si destreggia in spettacoli liberatori e nudità espressive.
Il caso Eagle è riaperto ed Hermes, solitario, inizia ad indagare con circospezione partendo dalle vecchie piste investigative che aveva lasciato in sospeso.
Altri piani narrativi si sovrappongono nel contesto sociale delle nuove indagini del recente 2019.
Molte persone radunate in quella che sembra un’associazione culturale guardano in televisione vari casi di denuncia in cui sono state coinvolte diverse donne filippine come vittime di violenza. C’è sempre qualcuno che ha la forza di combattere queste ingiustizie. Il tenente Hermes non è realmente solo.
Grazie a queste immagini continuiamo a vedere gli ultimi giorni di Esmeralda. L’ultima notte sta danzando in compagnia di un uomo più grande di lei, soprannominato “fisherman”.
Hermes si presenta a casa di quest’uomo per ottenere maggiori informazioni su quella fatidica notte. Ma quello che si rivela essere l’ultimo amante di Esmeralda lo dissuade a continuare questo tipo di ricerca. Le tracce intorno a lago sono una perdita di tempo, consiglia fisherman a Hermes. La verità si trova al centro del lago perché nelle sue profondità vive il male incontaminato.
Il tenente sa che scavando affondo troverà tanto altro dolore insieme a quello indelebile dell’omicidio Eagle.
Dal cielo nuvoloso i raggi del sole frammentari e abbaglianti si stanno lentamente ordinando per stabilirsi in un’unica direzione. Così su linee parallele anche gli elementi del film procedono lasciandosi sempre di più identificare ritrovandosi in fine tutti a mostrare le svariate forme delle contaminazioni del male.
Hermes ha la forza ossessiva per farsi coinvolgere da tutto ciò ma l’unico modo che ha è di lasciare che il caso prenda il sopravvento dentro di se. Deve abbandonare la ragione e diventare lui stesso il rapace dal vestito sfarzoso che sta cercando (ruba l’abito di Esmeralda dal baule in cui era conservato che trova a casa della vittima durante le indagini).
Il tenente in preda alla follia diventa egli stesso il simbolo della lotta e conquista una certa armonia con il mondo naturale. Ma il colonnello che gli aveva affidato il caso trovandolo in questo stato di confusione, lo rimprovera e lo riporta alla realtà. Hermes è obbligato a lasciare le indagini.
Dalle profondità il male risale. Violentemente irrompono le immagini, mandate in onda dai telegiornali locali, dell’eruzione del vulcano del monte Taal. Morte e devastazione in tutto il territorio rendono questa località, ormai colma di rovine abbandonate, un habitat sporco e desolato.
Batangas è ora una città senza legge e senza male. Nella rovina la povera gente che è rimasta riacquista lentamente una propria dignità e serenità. Tutto è stato ripulito ma il dolore profondo nasce e collassa ogni giorno per ognuno dei suoi abitanti. Le macchie oscure del male non tarderanno ad arrivare come quelle che si iniziano a sfogare sulla pelle di Hermes (la psoriasi che in When the Waves Are Gone avevamo visto tormentare il protagonista), ritornato ancora una volta per il caso da risolvere.
Ma l’impeto ossessivo ormai si è attenuato. Con amarezza si trascina tra le persone, e con cordialità e altruismo continua a domandare di Esmeralda mostrando a tutti la stampa di una sua foto identificativa. Ma conoscendo le nuove persone che incontra inizia a farsi coinvolgere emotivamente dai drammi che li attanagliano. Il povero Hermes si fa carico dei loro dolori scoppiando in un pianto ai piedi di una madre che ha appena saputo di aver perso il figlio.
Yannick di Quentin Dupieux
Sul palco di un piccolo teatro, tre attori stanno recitando una commediola poco intrigante dal titolo “Il cornuto”. Nonostante il basso livello artistico il pubblico è parecchio divertito, come anche chi tra il pubblico conosce Dupieux, il regista di questa pellicola, ed è in preda alla voglia di sapere cosa succederà da lì a breve.
Yannick, un giovane lavoratore della periferia di Parigi, è venuto da solo a teatro, non sta ridendo e si è appena alzato per interrompere lo spettacolo. Protesta apertamente perché lo spettacolo non lo sta divertendo e lui a teatro ha deciso di andarci proprio per divertirsi nel suo unico giorno di riposo dal lavoro che ha soltanto una volta a settimana.
In poco tempo e con sottili ed esilaranti dialoghi surreali (ma credibili), Yannick, il protagonista di questo film, l’anomalia di una società spenta, conquista il palco scenico per imporre un nuovo spettacolo, il suo, che inizia a scrivere con tutta calma.
Grazie alla pistola di cui è impossesso ma soprattutto grazie alla sua prontezza dialettica (da strada) riesce a comandare all’interno della sala. L’imprevisto buñuelliano soffoca di ansia l’apparato di ordine e disciplina a cui i piccolo/medio borghesi (cioè gli altri componenti del pubblico), sono soliti appoggiarsi per sentirsi al sicuro.
La prepotenza di Yannick finisce per celarsi dietro la lucidità brillante di un pensiero lineare formidabile. Nessuno può scappare dal dibattito. Ognuno degli abitanti della scena viene interpellato e chiamato a giudizio dal nuovo re solo. In questo modo gli vediamo commentare con leggerezza molti degli aspetti critici di quest’epoca (disturbi sessuali, depressione, ansia e paranoia).
Paul, il più saccente dei tre attori, prende in mano la situazione sottraendo la pistola di mano a Yannick. Vittima evidentemente di una forte insicurezza, Paul, che nella commedia interpretava il cornuto, esplode in uno stato di onnipotenza finalmente con il potere dalla sua parte.
Le divertenti vicissitudini accuratamente sviluppate in sceneggiatura fanno in modo che Yannick riacquisti il comando e che il suo spettacolo si metta davvero in scena. Dopo ore di sequestro le persone sono finalmente contente di vedere il lavoro conclusivo.
Dupieux attraverso il testo dello spettacolo finale che ascoltiamo ci consegna un nuovo lato del nostro Yannick: quello di vittima d’amore per qualche passata delusione.
Il suo sguardo così estasiato pe il divertimento e per la rivalsa sul mal d’amore che tanto lo ha tormentato, cade nella consapevolezza della sua tragedia. La morte non è altro che il seguito di questa storia. Ma è tutto così dolce e giusto in questo triste finale. Yannick è stato nostro amico. Ora lo dobbiamo salutare perché ha dato il meglio di sé.
Il pathos finale viene consegnato alla musica nel nero dei titoli di coda.
Fuori concorso:
Bonjour la langue di Paul Vecchiali
“Il cinema è arrivato tardi perché non sapevo più cosa fare”.
Jean-Luc suona nelle parole, vive nei personaggi. La folata di vento passata ricorda il dovere che abbiamo nei confronti delle nostre azioni sulla terra, di quello che abbiamo seminato e delle responsabilità che abbiamo verso il futuro. i fraintendimenti e le bugie che vanno chiarite per liberarci. Per lasciarci in pace.
Racchiuso in tre momenti, significativamente distinti e spazialmente divisi, l’ultimo film del maestro Vecchiali è veramente il lascito di un’intera vita dedicata al cinema e alla riflessione.
Un anziano signore (Vecchiali stesso) è seduto dall’alba dei tempi nel giardinetto di fianco alla porta di casa sua. Sta attendendo la resa dei conti. Dal fondo della via arriva dunque suo figlio, chiamato Jean-Luc, pronto finalmente a un confronto diretto col padre che non rivede da anni.
La valigia del figlio (Pascal Cervo), rimane all’ingesso della via. Iniziano a raccontarsi la vita come se dalla nascita non si fossero mai incontrati.
Vecchiali stanco e provato dall’incontro non riesce a gestire la sua fragilità emotiva. Così con le mani in viso per l’imbarazzo piange, e dopo un po’ piange nuovamente.
Da qualche anno sia la moglie che la figlia non ci sono più, come anche numerosi amici che dice di avere perso.
“Non puoi mai realizzare davvero la morte degli altri”. Dice il padre al figlio mentre spera che quest’ultimo decida di rimanere per concedergli un’ultima lunga conversazione prima di abbandonarsi alla morte, la sua, che come un bambino sente prossima. Ebbene da una certa età in poi non si può fare a meno di attendere la fine con l’ossessione di trovarla dietro l’angolo.
Jean-Luc ricorda gli atti egoistici del padre che lo hanno accompagnato durante la crescita cercando di fargli capire le motivazioni per le quali non si sono più visti per anni.
Il figlio era scappato di casa. Verso la fine del film vediamo alcune loro discussioni passate che hanno sancito il clima del distacco. Vecchiali è più giovane. Sono estratti da altri film sempre di Vecchiali. Gli ultimi, come Le cancre (2016), in cui entrambi recitavano gli stessi ruoli.
Ma Jean-Luc oggi ha difronte un padre disposto a liberarsi, a volte però nonostante le crude confessioni con apparente furbizia omette la verità. Ma ormai l’artista corazzato nell’animo dalla lunga vita fa soltanto tanta tristezza come uomo. I suoi rimpianti vengono esternati con fiumi di parole.
Il figlio, ormai sereno per essere stato in grado di fronteggiare il padre, accetta l’invito a pranzo.
Il Vecchiali attore trattiene i lamenti. Durante la scena al ristorante i due stabiliscono confini più equilibrati e conversano grazie ai ricordi in comune come due amici ormai adulti.
Nel terzo scenario una confessione rompe gli equilibri. Jean-Luc ha deciso di rimanere anche dopo pranzo. Sono su una sdraio vicino al mare della Costa Azzurra e la conversazione si arricchisce di nuovi rimpianti da colmare.
L’ansia nel cervello del vecchio artista va troppo più veloce del suo corpo. Richiede al figlio di essere assolutamente ascoltato e perdonato di tutto quello che ha da dirgli.
Ma Jean-Luc è stanco di continuare a pensare la sua vita con la presenza di nuovi dolori ora indelebili nella storia. Sceglie quindi il silenzio e il Vecchiali attore non riesce a rassegnarsi al fatto che forse non hanno più nulla da dirsi.
Rintocca la crudele e solitaria vecchiaia. Le parole non sono altro che ricche possibilità per i vivi.
Le persone sono per il regista, scomparso quest’anno all’età di 96 anni, la gioia della sua esistenza artistica.
Dopo un respiro i due personaggi decidono di abbracciarsi perché finisce qui il tempo del loro ultimo incontro e anche quello di questa pellicola. L’ultima per il suo regista.
Conann di Bertrand Mandico
“Vorrei adattare Conann il barbaro a teatro con sole donne, con diverse generazioni di donne, che si uccidono, si scopano, si tradiscono, si abbracciano e si amano a vicenda, in un mondo destinato a scomparire”.
Bertrand Mandico voleva realmente fare uno spettacolo su Conann il barbaro e forse durante il prossimo anno ne avrà la possibilità. Tutto il contenuto di questa citazione lo fa recitare ad ognuna delle numerose interpreti di Conann durante uno dei tre film presentati a Locarno quest’anno sulle barbarie ultra contemporanee di Conann il guerriero.
I teatri di posa abbaglianti nella loro stravagante e allo stesso tempo estraniante finzione erano già stati costruiti in tre diversi teatri di Parigi. Il regista si è ritrovato a causa della pandemia a ripensare questa opera complessa con nuovi numerosi spunti e schizofreniche connessioni artistiche che ha condiviso con il mondo attraverso la realizzazione di un lungometraggio, Conann (presentato a Cannes lo scorso maggio nella sezione Quinzaine des Cinéastes) e due cortometraggi, Rainer, a vicious dog in a skull valley (presentato come Corto d’autore nella sezione Pardi di domani) e Nous les barbares (fuoriconcorso, iniziava subito dopo Conann).
Seppur il film è la chiave principale dell’opera, entrambi i corti rimarcano l’eterno ritorno dell’ardore giovanile e mostrano Conann come simbolo generazionale inserito nel substrato del mondo dello spettacolo di oggi (forse abbiamo bisogno che scorra sangue nella noia del mondo della moda e degli attori tristi), consegnando all’intera visione più livelli di interpretazione.
Quello di Mandico è un ragionamento continuo sulla funzione dell’arte, che apparendo sempre più violenta riesce a intaccare nelle viscere il fruitore.
Rainer (Elina Löwensohn), il cane infernale, con tanto di maschera diabolica, documenta tutte le rinascite del barbaro per eccellenza grazie agli scatti che realizza con il suo apparecchio fotografico vintage, accompagnati da rumorosi flash bianchi, fissandone le gesta nella storia dell’arte.
A metà del lungometraggio quando Conann finalmente decide di vivere in pace l’amore che prova nei confronti della guerriera Sanja, prende il sopravvento un senso di confusione e smarrimento. Non può durare a lungo questo mondo di pace. Il “Cold World” che recita la scritta sopra la casa delle loro passioni, per Mandico, equivale allo stato di morte.
Per merito di Reiner l’oblio finisce in fretta. Conann finalmente ricorda del suo destino: essere un barbaro per sempre.
“Ti invidio Rainer” dichiara Conann al segugio sanguinario (sempre nel lungometraggio) quando si accorge finalmente di amare il suo romantico sentimentalismo. Ed è questo immortale desiderio di sangue e amore la vera missione per i barbari. Una missione che va rinnovata continuamente in nuove forme più fresche. Rainer trova tutti i degni futuri Conann: personalità più violente dell’ultima che sta per morire. E così Conann muore numerose volte per ripresentarsi in nuove vesti sempre più assurde. Dalla versione mitologica più canonica, lo spirito di Conann passa ai guerrieri del Bronx degli anni 80’ finendo poi alla versione nazista dalle barbarie ormai goffe e stanche.
È giunto il momento di una resurrezione più giovane e bella. Non rimane altro che farsi mangiare dal mondo dell’arte. Così gli attori decidono di farsi carico della carne del guerriero per ottenere fama e successo. Ma la collettività è diverbio, Conann deve esprimere a pieno il suo rancore. Così solamente un singolo, un’attrice più crudele delle altre, prende il cuore nascosto (non ancora assaporato dalle altre) e lo ingerisce.
Quello che interessa a Mandico ormai è chiaro: un’estetica esageratamente sfarzosa e glitterata in cui gli elementi in scena sono in continuo mutamento e fanno apparire il tutto altamente complesso. Forse vorrebbe che ci lasciassimo andare, come d’altronde avrebbero voluto i suoi maestri di stile (Ophuls, Anger, Borowczyk).
E così anche nel corto finale, Nous les barbares, ognuno dei personaggi dei film, (interpretati dalle numerose attrici che appaiono durante l’intera trilogia visuale su Conann) esce di scena, sintetizzando e destrutturalizzando le proprie personalità attraverso nuovi monologhi di stampo poetico che ricordano quelle frasi recitate nel culmine narrativo dagli attori dei film di Fassbinder. Fino a inscenare un ultimo atto mortale. Anzi no, non finisce ancora. Sono tutti nuovamente vivi nel teatro pronti ad accogliere la prossima rinascita del guerriero.