L’inesauribile veridicità della finzione.
Lettera da una sconosciuta (1948), di Max Ophüls
di Vittorio Giacci
Se si ritiene che il cinema non sia una mera registrazione di azioni ma il regno della finzione e che questa, lungi dall’essere un diversivo al principio di realtà, possa far meglio comprendere gli accadimenti della vita, allora Max Ophüls di questo reame ne è certo il legittimo sovrano, tanto la sua filmografia ha suscitato, con sapienza e fantasia, impeccabilità ed eleganza, incanto e disincanto, un mondo immaginato in cui copia e originale si rovesciano l’uno nell’altro, verità capovolte dove il reale appare un labile ricordo e l’immaginario un tangibile piacere.
È lo stesso Ophüls, che aveva rivelato a Rivette e Truffaut nella celebre intervista sui “Cahiers du cinéma” di essere un ammiratore di Murnau e di “essere sempre stato attirato dai film che non avevano niente a che vedere con il naturalismo”, a guidarci nel suo magico, onirico, prismatico labirinto quando afferma: “non è affatto strano: dedico molto più tempo all’esistenza fittizia, sulla scena, che non all’esperienza reale. A tal punto che certi episodi del mio destino mi appaiono come copie, mal riuscite, di questa o quella storia.
Pongono rimedio a questa situazione la memoria, il ricordo, il sogno, nella illusoria ma gradevole riproposta di una esistenza mai così tanto intensamente vissuta, spettacolo esibito di una utopia elusiva, quella di una irraggiungibile felicità.”
“Le immagini di Ophüls – sostiene Gilles Deleuze – sono cristalli perfetti la cui perfezione non lascia sussistere alcun fuori: non vi sono esterni nello specchio o nel’ambiente” (…) “I personaggi spariscono o muoiono, abbandonati dalla vita che si ricongiunge con l’ambiente” (…). Sulla pista di un circo o nella superficie prismatica di un cristallo “i personaggi imprigionati si agitano, agenti e agiti”, interpreti fedeli fino al suicidio in un amaro percorso di amori rubati, negati, ostacolati. La visione ophülsiana è curva, pessimistica come un movimento bipolare circoscritto tra la vita e il suo riflesso. Una torsione magistralmente espressa in Lettera da una sconosciuta, tratto da una novella di Stefan Zweig notevolmente modificata, anche se di per sé già ampiamente pre-cinematografica, per valorizzarne ulteriormente le potenzialità schermiche (il protagonista, ad es. non è un romanziere di successo ma un musicista).
Come sempre nell’opera di Ophüls, “frutto di una esplorazione formale incessante quanto omogenea” (Jacques Audiberti), il fulcro diegetico è la donna che soffre per disillusioni d’amoreil che permette notevoli soluzioni audiovisive.
La figura della donna, personaggio espiatorio, umiliato e offeso le cui “aspirazioni sentimentali” sono vanificate in itinerari deviati (Christian Viviani), è infatti spinta alle più estreme conseguenze, nella esibizione di una drammaturgia della contrarietà che contraddistingue pressoché tutti i personaggi femminili della sua filmografia.
L’incipit del film, il più europeo dei quattro americani da lui diretti, ambientato nel 1900 in una Vienna invernale, innevata e notturna, presenta un protagonista, Stefan Brand (il nome Stefan in omaggio allo scrittore Zweig, morto sucida; il cognome Brand in precedenza utilizzato per il protagonista de Gli scherzi del denaro, opera che già prevedeva la figura di un presentatore/imbonitore il quale definisce l’opera “una commedia che parla di denaro”), un pianista in crisi per mancanza di talento (Louis Jourdan), un dandy che vive alla giornata in avventure sentimentali superficiali e senza coinvolgimento che, tornato a casa e pronto a fuggire per evitare un duello, trova una lettera a lui indirizzata da una sconosciuta e, nel leggerla, diventa un lettore/spettatore rispetto alla vera protagonista Lisa (Joan Fontaine) e che, da morta, gli parla attraverso una missiva (la cui intestazione recita: “A te che non mi hai mai conosciuta”) che così inizia: “quando riceverai questa lettera sarò forse morta. Avevo per te la passione suprema, un amore puro e appassionato”.
Dapprima incuriosito da una situazione a dir poco inconsueta, poi sempre più interessato fino ad esserne sconvolto, Stefan apprende dell’amore sconfinato nei suoi confronti, “scompenso di sguardo d’amore non corrisposto dall’adolescenza alla morte” (Michele Mancini) di questa donna della cui presenza, nonostante fosse una sua vicina di casa, non si era mai accorto se non per scambiarla per una persona frivola (da abbordare con la frase banale “Non ci siamo già visti?” che in questo contesto suona come una bruciante ironia) con la quale trascorrere l’avventura di una notte.
La lettura continua senza interruzioni, e mentre Stefan legge lo spettatore vede, in un lungo flash-back, dispositivo narrativo retrospettivo a tal punto da far rivivere e parlare una defunta, ogni episodio di questo amore a senso unico, non capito e non ricambiato, dove il motivo romantico, espresso nello sguardo rapito di una adolescente sognante a confronto con il potere seduttivo dell’uomo, si infrange contro un muro di occasioni mancate, di destini malamente incrociati, di momenti di contrarietà anziché di condivisione.
“Permettimi, amore mio, di raccontarti tutto, tutto dal principio; ti prego, non stancarti di dovermi ascoltare per un quarto d’ora – continua la lettera – di ascoltare chi per una vita intera non si è mai stancata di amarti (…) L’amore non può essere qualcosa di leggero, un gioco senza importanza” prosegue sempre più amaramente lo scritto: “Sono io che sono andata verso di te, spinta dal mio desiderio, sono io che ti ho gettato le braccia al collo precipitando nel mio destino”.
Non vi è acredine né rancore in ciò che Lisa gli sta rivelando, solamente rimpianto, uno struggimento temperato da un sentimento mai sopito, ormai fuori dal tempo e pertanto anche dall’emotività. “Tutti mi hanno amato nella vita salvo te, o mio beneamato (…) Non mi hai mai chiesto né il nome né l’indirizzo. Non ero per te che un’avventura, una donna anonima”.
E nonostante la rivelazione di aver trascorso con lui una occasionale notte d’amore da cui è nato un figlio, poi morto di tifo (la stessa malattia che ucciderà anche lei), e malgrado la gravità del racconto, il tono continua ad essere lieve, increspato soltanto da un velo di tristezza, senza intento di colpevolizzazione. “Tu non mi hai mai riconosciuta. Mi sei passato accanto come si passa accanto a un ruscello, hai camminato su di me come si cammina su una pietra. Per te non sono esistita”.
In questo monologo esteriore, leggero come Mozart e intenso come Chopin, mentre il personaggio di Lisa, “voce di morte” fuori campo ma perennemente in scena, spicca in tutta la sua “febbrile esaltazione” e ostinazione d’amore (“omnia vincit amor” come in Gertrud di Dreyer), quello di Stefan (che nel film si riscatta solo nel finale accettando la sfida a duello che si scoprirà essere con il marito di Lisa, per una volta almeno andando incontro al proprio destino per scelta e non per indifferenza) è avvicinabile, come fa Emmanuel Decaux, a quello descritto da Musil ne L’uomo senza qualità: “Per lui niente è stabile, tutto è suscettibile di cambiamento, tutto non è che un elemento di un insieme o di innumerevoli insiemi i quali a loro volta probabilmente fanno parte di un super-insieme di cui pertanto lui non sa nulla. Di conseguenza, ognuna delle sue risposte non è che un frammento di risposta, ognuno dei suoi sentimenti non è che un punto di vista; ciò che gli importa in una cosa non è ciò che essa è, ma una maniera di essere accessoria, una qualunque addizione”.
Sotto il profilo meta-linguistico, esplicitato nella significativa sequenza del viaggio immaginario e immobile ma segnato fin dall’inizio da una sorte fatale sul trenino della giostra del Prater dal cui interno Lisa e Stefan, per un attimo romanticamente felici insieme, vedono scorrere fuori dal finestrino, come in un diorama o in un trasparente cinematografico, paesaggi da favola che altro non sono se non fondali scenografici a rullo a far da cornice ad amori fiabeschi, è la finzione schermica a rivelare, nell’inceppamento del meccanismo, l’illusorietà di quel sentimento. E la città di Vienna, anche da questo punto di vista, ne costituisce una perfetta cornice spaziale, in quanto “città nella quale – come osserva Claudio Magris – la realtà cede alla propria rappresentazione e all’apparenza”.
Il dispositivo diegetico di Lettera da una sconosciuta rende Lisa, più che un personaggio, un narratore, “figura autoriale che, all’interno del testo, fa le veci dell’enunciatore-regista – osserva Michele Fadda – così come Stefan, subendo il flusso dei ricordi, da personaggio si trasforma in spettatore e come questo è estraniato da sé e subisce nel buio e nel silenzio”. Attraverso gli occhi di Lisa, “memoria dell’oltretomba” (così la chiama Noel Herpe) come la protagonista de La signora è di tutti, Stefan riesce finalmente a vedere – anche se troppo tardi – quello che da solo non ha saputo guardare, allo stesso modo in cui lo spettatore – quando guarda un film – vede attraverso gli occhi del regista “la sua volontà di evocare una vita interiore e mostrarne i segreti”, in una “idea fissa” molto simile (l’osservazione è sempre di Noel Herpe) all’ “ossessione della purezza” della protagonista de Il sospetto o “della verità” di quella di Rebecca, la prima moglie di Alfred Hitchcock (non a caso interpretate entrambe dalla medesima attrice), nella affascinante tessitura di inter-sezione tra voce e testo, tra pagina scritta e spettacolo riprodotto, all’interno di una narrazione iper-soggettiva che non ammette contradditorio, immagini virtuali e unidirezionali senza possibilità di replica.
“Dopo aver seguito con crescente trepidazione il consumarsi di questo ‘immortale amore’ -osserva Aldo Tassone per il quale Ophüls resta uno dei più sensibili poeti dell’animo femminile prima di Mizogouchi, Antonioni, Bergman, rimaniamo anche noi alla fine folgorati e ‘siderati’ come il destinatario della lettera. Sappiamo di aver visto il più sottile e sconvolgente dei film sull’amore, ogni fremito, ogni gesto della ‘donna dell’ombra’ ci rimane impresso nella memoria come l’immagine sublime della passione assoluta. Questa soave fanciulla che non riesce a farsi ‘riconoscere’ ha un posto d’onore nell’empireo delle grandi eroine-vittime dell’amore.
Un film da vedere o ri-vedere (sorta di pre-Adele H: una storia d’amore) in quanto capolavoro sull’amore e sul cinema, sul cinema dell’amore e sull’amore del cinema e come esempio eccelso di forma filmica del passato da immettere nel cinema del futuro.