LET THEM ALL TALK di Steven Soderbergh
La vita è un romanzo
di Daniela Turco
Che cosa rende Let Them All Talk di Steven Soderbergh – oggi accessibile su diverse piattaforme – un film tanto misterioso, un enigma che in gran parte coincide con lo splendore stesso della sua forma, dove lo smalto inattuale di una narrazione classica si lascia contaminare dalla sperimentazione?
Il metodo e la follia che sostiene la ricerca di Soderbergh in ogni suo film, è già presente nel flusso di coscienza iniziale della protagonista, la scrittrice Alice Hughes (Meryl Streep), che sta ostinatamente cercando un modo migliore di descrivere le cose, un modo di usare le parole per raggiungere un luogo oltre le parole. Con la complicità della sceneggiatura di Deborah Eisenberg, aperta all’improvvisazione attoriale, Soderbergh mette al centro del film Alice, una scrittrice affermata e alle prese con un nuovo libro in corso, che vorrebbe ritirare in Inghilterra un premio prestigioso che le è stato conferito, ma non le è possibile perché non può volare. Karen (Gemma Chan), la giovane agente rampante della sua casa editrice, spinta dal bisogno di scoprire qualcosa sul nuovo libro di Alice, le propone di raggiungere l’Inghilterra per nave, a bordo della lussuosa Queen Mary 2. Alice accetta e invita alla crociera oltre all’adorato nipote Tyler (Lucas Hedges), Susan (Dianne Wiest) e Roberta (Candice Bergen), due amiche dei tempi del college che non vede da oltre trent’anni. Sulla nave, anche altri personaggi si muovono nell’orbita di Alice: Karen, l’agente della casa editrice, che la vuole tenere sotto controllo, senza farle sapere che è a bordo, Kelvin Kranz, un brillante scrittore di best sellers, letto e idolatrato dalle amiche di Alice, e un uomo misterioso che Tyler vede spesso uscire al mattino dalla camera della zia; tutti personaggi che si mescolano agli altri passeggeri e al personale della nave che è stata il set del film nel tempo reale della sua traversata dell’Atlantico, nell’agosto del 2019.
Girato con l’ultimo maneggevole prototipo della prediletta Red Camera – la Red Komodo – con Soderbergh come sempre direttamente impegnato nelle riprese, su una sedia a rotelle usata come carrello, il film scivola liberamente su questa dimensione quasi liquida dei movimenti di macchina, che come fili invisibili agganciano i mondi tra loro lontani dei personaggi, le loro ossessioni, i fallimenti, i sogni, per ricomporli in una fitta costellazione di livelli narrativi, che determinano nel loro insieme la splendida forma visuale-romanzesco-discorsiva di Let Them All Talk.
Già a partire dal titolo, con quell’invito a lasciarli parlare tutti, il film mette in evidenza lo stretto rapporto con la parola che lo fonda, sia quella difficile da pensare – come Alice dirà alle amiche -, la parola che uno scrittore può attendere anche un’intera settimana prima di trovarla, sia la parola apparentemente più facile, combinatoria e casuale, del gioco dello Scarabeo, che vede spesso Roberta e Susan, sedute ai tavolini della nave, intente a sfidarsi su termini come “tradimento” o “controllo”. Ma la presenza delle parole, dei racconti e della scrittura intesa in senso vasto, come una geometria nascosta, si dissemina ovunque nel film, nei frammenti dei racconti che i personaggi si scambiano di continuo, o attraverso i libri – realmente esistenti o inventati – che vi compaiono come On The Road di Kerouac che il nipote Tyler sta leggendo, o il romanzo di Blodwyn Pugh, oscura scrittrice gallese e fonte di ispirazione di Alice, che ha regalato alle amiche, fino all’Odissea di Omero, che l’uomo sconosciuto che esce ogni mattino dalla sua stanza, sta leggendo mentre la osserva fare il bagno in piscina. E se i best sellers di Kelvin Kranz, sono considerati da Alice poca cosa, scritti, secondo lei, in una prosa basata su cliché, simile al polistirolo, che non sa cogliere “il mistero della vita”, contro ogni previsione sarà proprio Kelvin Kranz, durante la conferenza di Alice a bordo, a sorprenderla con la domanda più profonda e inattesa – la presenza in un suo libro di pagine prese dal diario della sorella morta -, che la tocca nel vivo e fa improvvisamente apparire la zona ambigua e oscura, in cui si mescolano vita vissuta e immaginazione, il luogo pericoloso e segreto da cui muove il desiderio di scrivere.
Scrittura e morte, sono infatti le due sponde correlate che il film esplora dietro la superficie apparente di una crociera di lusso, come apparirà chiaro una volta raggiunta l’Inghilterra, mentre durante la traversata, i personaggi in campo, affiancati dalla leggerezza precisa della Red Komodo, come lettere dello Scarabeo, si incrociano, o, più spesso, si mancano, come avviene ad esempio ad Alice e Roberta, che attribuisce a un personaggio del libro dell’amica in cui si è rispecchiata, la brusca fine del suo matrimonio, cercando da allora una rivincita. Oppure, si incontrano per fraintendersi, come capita a Karen e Tyler, presi loro malgrado in una strana deriva romanzesca, come nella stupenda sequenza all’interno del Planetario della nave, immersa in una stellare luce blu, con la mano di Tyler in primo piano che esita per un po’ a sfiorare quella di Karen, prima di rinunciare.
Una stessa dimensione di incertezza e di incontro mancato, accompagna anche la passeggiata di Alice, che, sottraendosi al libro che deve scrivere, vaga da sola tra i corridoi della nave, fino a sconfinare in una zona interdetta ai passeggeri, una specie di terra di nessuno, reale e metaforica, dove il filo del racconto sembra a sua volta disperdersi in una pura ripresa documentaria, così come nella concatenazione di sequenze nelle cucine durante la preparazione dei piatti, o nella lavanderia durante il ciclo di lavaggio. Si tratta di riprese estratte direttamente dalla filiera del lavoro, che interessano sempre Soderbergh, che infatti non manca di inserirle deliberatamente nel tessuto narrativo, confermandosi uno dei cineasti americani più creativamente attenti allo sguardo filosofico e politico di Jean-Luc Godard. Tra i film con cui Let Them All Talk entra in relazione, si pensa infatti a Film Socialism, da un lato, per l’idea comune di una nave-set che funziona in filigrana come un laboratorio linguistico-antropologico, e dall’altro, a Ricche e famose, l’ultimo film di George Cukor, un affondo feroce – come questo – nella carne viva dell’amicizia, della letteratura, dell’amore tradito e dei soldi, di cui Candice Bergen, quarant’anni dopo, con splendida sfrontatezza texana, porta la propria personale memoria.
In un’intervista[1] di qualche mese fa, Soderbergh, interrogato sul tema al centro di Let Them All Talk, ha indicato essere il finire – un certo modo di vivere che è dovuto cambiare – il senso più profondo del film, dicendo anche di aver rivisto La regola del gioco di Jean Renoir, prima di iniziare le riprese, perché lo considera un film dove quella sensazione è stata espressa con assoluta precisione.
Soderbergh, forse, gira Let Them All Talk con in mente La regola del gioco, per quella serie di fraintendimenti connessi all’atto di vedere, che circola in entrambi i film. Per Renoir osservare a distanza attraverso il binocolo era ciò che creava il malinteso, mentre il circuito ripetitivo e luttuoso dei dispositivi meccanici, risucchiato nella profondità di campo, annunciava la catastrofe imminente della seconda guerra mondiale. Molti anni dopo, nel film di Soderbergh, è ancora nell’abisso che si apre tra ciò che si vede e ciò che si crede di vedere, che il confronto con le potenze del falso può avere luogo. Per esempio: è il racconto che Susan fa del cielo stellato, dove, dopo l’immissione di una costellazione di satelliti da parte di Elon Musk, non sarà più possibile distinguere il bagliore autentico delle stelle da quello artificiale, e quindi in senso più ampio il vero dal falso, a innescare in Alice la crisi che la spinge a distruggere il libro? E quanto, invece, del dialogo finale tra Alice e Roberta, nella stanza d’albergo in Inghilterra, concluso nel segno della durezza e della disillusione, spinge la sua scrittura, come mai prima, a scoprire una nuova grammatica e a trovarlo davvero quel luogo oltre le parole, che stava cercando, fino a farlo coincidere con il morire?
Nei film di Steven Soderbergh, non tutti i segreti possono essere risolti, e se si scoprirà che l’uomo che usciva furtivamente dalla stanza di Alice era il suo medico, non si saprà mai, invece, se il libro distrutto sulla nave riprendeva il filo del suo primo successo, You Always, You Never, né se la presenza di Karen sulla nave era davvero legata ad Alice e al nuovo libro, o se invece, nel vortice combinatorio-manipolatorio che è la regola del gioco nel film, mirava fin dall’inizio a diventare la nuova agente di Kelvin Kranz…
Steven Soderbergh oltre a essere un artista della luce – sono continue e inequivocabili nel suo lavoro le tracce del percorso visivo-concettuale di Bruce Nauman -, lo è anche del collage, cui si dedica lavorando con i ritagli presi dalle riviste, in una linea di trasformazione e di rielaborazione delle forme, di cui si trovano schegge sperimentali anche nei film. In Let Them All Talk, ad esempio, si possono scoprire nel magnifico vortice di immagini che precede la morte di Alice, includendovela, insieme a un convegno di api, a una mano abbandonata su un bracciolo, al dettaglio di una poltrona di velluto verde, a un cielo coperto di nuvole, frammenti sparsi di un puzzle, che sembra muoversi tra il mondo di Emily Dickinson e quello di Sylvia Plath, mentre apre la linea di fuga più poetica e intensa in un film che sa scrivere e guardare la vita, come la morte.
[1] con Matthew Kitchen su The Wall Street Journal. 10/12/2020.