Leonora Addio! di Paolo Taviani
Leonora addio! Ahi misera!
di Sergio Arecco
“Poco prima di morire Pirandello scrisse un racconto ispirato a una notizia di cronaca da Brooklyn: Bambina uccisa da un ragazzo italiano”. Con tale didascalia Paolo Taviani, rimasto orfano del fratello Vittorio al quale dedica affettuosamente il film, alquanto convenzionale, Leonora addio (aria da Il trovatore verdiano, atto IV), connette in maniera per così dire giustapposta l’episodio Il chiodo (colore e b/n, 35 mm), liberamente ispirato alla penultima delle Novelle per un anno, scritta pochi mesi prima (gennaio 1936) di Una giornata (settembre 1936), la novella terminale, scelta da Paolo e Vittorio quale spunto ideale per Colloquio con la madre, uno dei quattro episodi di Kaos (1984). In maniera per così dire giustapposta in quanto appendice a colori al racconto tutto in b/n (salvo il geniale, momentaneo inserto della vampa rossa nel forno inceneritore) dell’avventuroso trasferimento, dieci anni dopo la morte, nel 1946, a guerra conclusa, dell’urna contenente le ceneri dell’illustre drammaturgo da Roma ad Agrigento. Dove un fedele custode della memoria di Luigi ne raccoglie una ‘restanza’ sfuggita ai burocrati del municipio di quella che si chiamò nell’Ottocento Girgenti – per poter raggiungere la scogliera sul mare della Valle dei Templi e gettarvi le ceneri sottratte, come in un rito propiziatorio, un rito benedetto dal tremulo colore azzurro delle onde. “Niente, neppure la cenere vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare, sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti”.
Il chiodo, in Leonora addio, concepito da Paolo Taviani quale postilla in qualche modo riparatrice alle fin troppo autopunitive volontà espresse da Pirandello nel testamento, vale dunque quale corto in sé e per sé: da assemblare ai quattro corti di Kaos (il nome della villa che ospiterà in effetti l’urna in un cippo di pietra calcarea bianca), a titolo di nostalgica aggiunta, nel comune segno di Pirandello, ai capitoli di un film molto amato, Kaos appunto, dai due Taviani ancora operativi all’unisono. Nel segno di Pirandello e nel segno della Sicilia. Poiché Pirandello, dopo il viaggio negli Stati Uniti (1935, fino ad approdare agli studi di Hollywood, per seguire la lavorazione del Come tu mi vuoi recitato da Greta Garbo), amò ambientare alcune delle ultime novelle “nelle enormi città americane dalle prodigiose costruzioni, che stan lì come colossali provvisorie apparenze di un’immensa fiera”. E Il chiodo è una di quelle, ambientato a Harlem, dove è interpretato da una piccola comunità di neri. Sennonché il ragazzo senza nome della novella – il quale, raccogliendo per strada un chiodo caduto dalle povere masserizie accatastate su un caracollante carretto guidato da un vecchio, si appropria, come un sonnambulo, di un oggetto di morte con il quale ucciderà come un sonnambulo Betty, una ragazzina selvaggia dai capelli rossi che si azzufferà con una compagna di giochi al centro di una radura retrostante alcuni poveri caseggiati – non è nella versione di Taviani un nero dei suburbi, è un ragazzino bianco di una dozzina d’anni emigrato a Brooklyn, il quartier generale dei meridionali italiani trapiantati in America, strappato dal padre alla terra natia per farne un proprio cameriere personale, nella scalcinata gestione del ristorante “Turiddu e Bastianeddu”, essendo giusto Bastianeddu il nome del piccolo.
A Taviani, insomma, preme in primo luogo la tematica dell’emigrazione primo Novecento, preme il flashback melodrammatico in b/n della conta dei migranti della piana di Girgenti destinati alla partenza – con la madre di Bastianeddu che s’intromette tra i magliari per trattenere il figlio –, pronti a inseguire il miraggio del Nuovo Mondo. Un Nuovo Mondo nel quale Bastianeddu, pur solerte pizzaiolo a fianco del padre e solerte intrattenitore dei pochi clienti del locale, addirittura con una disinvolta performance da ballerino di foxtrot, si sente comunque estraneo e sbandato, nonché afflitto abissalmente dal pensiero della Sicilia perduta, della madre perduta. Fino a che, immalinconitosi all’improvviso dopo un’esibizione forzata sul palco del ristorante e alienatosi di proposito dai familiari per un’ora d’aria sul terrapieno invaso dalle due bambine americane – denutrite, dalle lunghe gambe magre –, esasperato dalle loro urla ferine e dalle loro linguacce unicamente dettate dal reciproco rancore della miseria, non interviene: impugnando quel lungo chiodo raccattato, lungo almeno una quindicina di centimetri, come fosse un pugnale, e non lo pianta in testa alla più sfacciata e iraconda, Betty dai capelli rossi scomposti. Uccidendola all’istante, tra il proprio e l’altrui (della più matura rivale) annichilimento. Tradendo per il sollecito della mai sopita vocazione sociopolitica il ‘suo’ Pirandello, Taviani non lo tradisce tuttavia nella sostanza tutta pirandelliana della novella Il chiodo trasposta in immagini: immagini solo vagamente allusive, con una Brooklyn tutta di cartone che occhieggia sullo sfondo, compreso l’immancabile ponte appena accennato.
“Quel chiodo era caduto apposta in strada. E ugualmente apposta le due monelle si erano azzuffate, incendiate in un nembo di fuoco del sole estivo del tramonto”. Il chiodo, salvo pochi succinti dialoghi tra i familiari, è interamente recitato in inglese. Perché on purpose? chiede il commissario a un Bastaneddu trinceratosi, per motivare il suo gesto incongruo, dietro quell’apposta. Perché on purpose?gli domandano i genitori rassegnatti di Betty. Perché on purpose? insiste nel dibattere il poliziotto che lo ha arrestato. Nessuna riposta dal ragazzino avvilito: il chiodo era caduto apposta perché lui uccidesse apposta la piccola Betty, otto anni. Come per un’inesplicabile congiura maligna del caso di cui egli è stato inconsapevole e incolpevole strumento. E qui Pirandello e Taviani concordano. L’ineluttabilità. L’irrimediabilità. L’inattingibilità di una verità che si sottrae a qualsiasi istruttoria processuale – nella novella il ragazzo viene assolto, nel film viene condannato, ma poco importa – a qualsiasi lettura che non sia una lettura soggettiva per quanto incredibile possa essere. O credibile, sottintende Taviani senza opportunamente dirlo, solo se rinviabile a una fenomenologia ancestrale, di arcaica compromissione con le più remote origini dell’essere umano, oscuramente rivendicative, compatibili solo con oscure rivalse interiori.