L’enigma del racconto. Narrazione tra cinema e Tv di Alessandro Cappabianca
Racconti dal buio
di daniela turco
Leggere l’ultimo splendido libro di Alessandro Cappabianca, L’enigma del racconto. Narrazione tra cinema e Tv (Timìa edizioni, 2022), in cui l’analisi viene, appunto, condotta nella prospettiva, enigmatica, del racconto, offre la possibilità di riprendere contatto con una linea di ricerca e di studio molto intensa e articolata, che viene da lontano e che ormai da parecchi anni impegna Cappabianca – critico e teorico del cinema oggi tra i più significativi e non solo in Italia – portandolo ancora una volta a riformulare, da punti di vista diversi, una stessa insistente domanda: che cosa è (è stato, è ancora) per noi il cinema, il dispositivo, soggetto-oggetto, potente e sfuggente al centro della sua appassionata ricerca.
Tra le “tappe” precedenti del suo percorso vanno almeno segnalati Metamorfosi dei corpi mutanti (2016) e La parata dei fantasmi. Proposte per una filosofia post-cinema (2018), a loro volta collocati in una linea di ricerca che Cappabianca ha continuato ad arricchire al ritmo di quasi un libro all’anno, facendo procedere il suo lavoro quasi come se si trattasse di un disegno prospettico in costante evoluzione – Cappabianca ha una formazione di architetto –, aperto ad aggiornamenti successivi e definito dalla trasparenza e dalla precisione inimitabile della sua scrittura-pensiero, che muovendosi tra le linee invisibili del tempo e quelle visibili dello spazio, ha introdotto un modo sorprendentemente nuovo di fare teoria.
Infatti, nell’affrontare il nodo del racconto, appare fin dall’inizio piuttosto chiaro come il discorso di Alessandro Cappabianca, pure sostenuto da letture fondamentali che attraversano l’ambito narratologico e linguistico di Greimas, Genette, Todorov, quello filosofico di Ricoeur, Agamben, Foucault, fino a quello strutturale-psicoanalitico di Jacques Lacan e di altri pensatori e scrittori, proceda con un taglio estremamente libero, molto distante dalle consuetudini di tante analisi accademiche, per arrivare invece a realizzare qualcosa di diverso che, verso la fine del libro, viene definito come una “cavalcata critica, che spero risulti anch’essa debitamente sconnessa e poco accademica”, tesa a mettere in evidenza “che non si dà racconto, non si dà narrazione efficace (seriale o no) se non si lascia spazio alle proprie ossessioni, a ciò che nel profondo inconsciamente ci segna.“
Nella premessa che apre il testo, Cappabianca definisce in poche pagine concentrate il rapporto che il racconto stabilisce sia con il corpo – il racconto originario nasce come racconto orale -, sia con l’ambito religioso-sacrale, di cui il racconto – riprendendo un tema trattato da Agamben in Il fuoco e il racconto – potrebbe essere considerato come “un efficace sostituto della preghiera”. Ritorna necessariamente anche in questo libro la peculiarità della dimensione spettrale assunta dai corpi attraverso il cinema, già trattata da Cappabianca nei libri precedenti, che, però, qui, trova una declinazione inedita, proprio in rapporto al nucleo centrale dato dal racconto, definito come l’espediente principale con cui il Cinema, mentre da un lato lavora con i corpi rendendoli spettri, dall’altro, proverebbe a dissimularne proprio la spettralità. Sul divenire fantasma dei corpi, Cappabianca aveva già scritto pagine illuminanti, ma qui nell’affrontare l’enigma del racconto, va anche oltre, disegnando una fitta, vasta mappatura che procede per metonimie e per scarti temporali, che attraversano diverse epoche del cinema, e mettono comunque in luce fin dalle prime pagine, sulla falsariga di un celebre racconto chassidico del Rav Nachman di Breslav (usato anche da Gitai, Akerman, Eli Wiesel, Agamben, ecc), come nel tempo il racconto abbia man mano inesorabilmente perduto la sua essenzialità. Dunque, perdita e malinconia dell’oggetto perduto, è questo il nodo che stringe il testo e che determina la domanda chiave di che cosa sia allora raccontabile attraverso il cinema, cui Cappabianca, offre due possibili soluzioni: la prima, praticata da Jean-Luc Godard nelle sue Histoire(s) du cinema, dove al racconto si sostituisce una costellazione esplosa, fatta di brandelli di immagini di film, mescolati ad altri frammenti presi dal campo della pittura e della letteratura, in sé, una sorta di racconto di racconti alla deriva, dove si rende testimonianza dell’incapacità del Cinema, che ha mancato di documentare la Shoah, il racconto più indicibile del Novecento. La seconda, è quella praticata dalla cineasta Chantal Akerman, figlia di una sopravvissuta ad Auschwitz, la cui opera gira ostinatamente intorno a un vuoto, a un nucleo invisibile-indicibile, a un racconto impossibile da raccontare. Non sorprende che Chantal Akerman[1] ritorni a più riprese, negli snodi cruciali di questo libro, visto che il suo cinema radicale e misterioso si è sempre confrontato sia con il racconto (e la scrittura) che con l’enigma, come non sorprende ritrovare anche Antonin Artaud, cui Cappabianca aveva dedicato un magnifico testo[2], a sua volta un revenant, che come Chantal accompagna il ritmo del libro. Mi sembra infatti che il motivo profondo delle loro presenze consista nel fatto che entrambi questi autori nella loro opera si sono fatti portatori di una violenza reale interna al racconto e radicalmente altra, e, per entrambi, sia pure diversamente, legata all’inconscio. Per Akerman, si è trattato proprio del vuoto che coincide con il racconto, dello smarrimento assoluto, della dispersione nelle sue durate infinite in tempo reale, che provengono dall’ esperienza non trasmissibile di sua madre, sopravvissuta ad Auschwitz, che non ha mai potuto affrontare con lei il discorso dei campi, un blocco di silenzio e di dolore, che inevitabilmente si è riversato nei film della figlia, rendendoli unici. Per Artaud, invece, in questo senso vicino al surrealismo, il cinema doveva liberarsi radicalmente dalla dimensione narrativa, diventando un mezzo per realizzare i “sogni di un pazzo con fondamento nell’inconscio di un’umanità pre-umana.”
In ogni caso, Cappabianca riconosce al racconto la funzione essenziale di essere una zattera, una scialuppa di salvataggio, e quindi, preso in esame in questo senso, lo spazio del racconto rappresenta uno di quei “luoghi di formazione/consolidamento del Soggetto”. Di qui la necessità dell’autore di riflettere più profondamento su questo, e di rivolgere, per farlo, lo sguardo all’indietro ripercorrendo il cinema, sempre lungo il filo del racconto, fino alla soglia sperimentale e alla rottura operata dalle avanguardie, dove il racconto si libera dagli obblighi di coerenza narrativa attraverso un uso arbitrario e imprevedibile delle associazioni, molto simile al materiale onirico. E’ paradigmatica da questo punto di vista la rilettura-incontro (in forma di racconto) di Un chien andalou, che per l’autore mantiene la sua forza iconoclasta e misteriosa, data dall’ambiguità insondabile delle sue immagini, come quella più celebre e crudele in cui un occhio aperto, viene tagliato orizzontalmente dal rasoio.
Suddiviso in 57 paragrafi che abbracciano 136 pagine, ognuna ad alta densità, l’andamento irregolare del libro corrisponde molto al disegno in b/n che occupa la copertina, dove è rappresentato un ammasso stilizzato di pezzi tagliati di pellicola cinematografica che si si addensano in un doppio groviglio lungo il bordo superiore e quello inferiore. Analogamente, a Cappabianca non sembra interessare l’idea di dare al suo discorso uno sviluppo lineare, ma, al contrario, lo fa avanzare per scarti, per brusche interruzioni, che poi, magari vengono riprese, mai definitivamente concluse, più avanti, in un altro punto del testo, facendo partecipare, come si è già osservato, le figure di Chantal Akerman, e Antonin Artaud, presenze-guida d’eccezione, necessarie a sostenere un percorso difficile, mostrando così, come anche la forma di questo testo, si rifletta in quella fantasmatica e dispersa del proprio oggetto di studio: il racconto, in una sorta di affascinante, denso rispecchiamento, che coinvolge e fa lavorare il lettore. Non è un caso che nel testo si insista molto sulle ombre della Storia, e sui blocchi traumatici provocati dalle guerre, da cui si tornava, come aveva già osservato Benjamin, non più ricchi, ma più poveri d’esperienza, ridotti al silenzio, per non parlare del silenzio dei sopravvissuti alla Shoah, di cui Cappabianca continua a vedere “l’ombra oscura che si allunga sulla narrazione per immagini, anche di tutt’altro genere, rendendola ormai poco significativa, se non impossibile.” E se non si può rendere visibile l’invisibile, se non al prezzo di una banalizzazione immediata, l’unica possibile alternativa sarebbe quella di rendere “ l’invisibile visibile, lasciandolo invisibile”, anche se “questo è l’exploit che pochissimi sono in grado di compiere”.
Il corpo, in ogni testo di Cappabianca svolge sempre un ruolo fondamentale, cosa che avviene anche in questo, come, per esempio, quando prende in esame il “cinema del reale”[3], cioè quella “passione per il reale” propria del cinema documentario, dove vengono messi in evidenza tutti quegli aspetti di sofferenza e di disagio, che trovano visibilità ed espressione, soprattutto, attraverso i volti, i gesti, le posture dei corpi. In queste pagine centrali del testo Cappabianca segue l’approccio foucaultiano alla clinica che ritrova in Soderbergh (The Knick; Unsane), ma anche nel cinema realizzato da Frederick Wiseman, per esempio, nel film Titicut Follies, dove le sequenze con i corpi denudati dei detenuti nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Bridgewater, sottoposti in certi casi all’alimentazione forzata, vengono messe in relazione, sul fronte del documentario, per uno stesso grado di insostenibilità, con le immagini di Salò di Pasolini, un altro film che lavorava su un racconto di corpi sottoposti a un processo di degradazione. E’ la forza di un reale irriducibile – dal titolo di un paragrafo –, quello che si incontra nei film di Dreyer, e che si incarna nei corpi di Maria Falconetti e Antonin Artaud, che porta Cappabianca di scrivere pagine essenziali sui loro “corpi di dolore” che riescono perfino a scardinare la logica del dispositivo, bucando lo schermo, per arrivare a toccare la vita. Anzi, Cappabianca, sottile teorico del set, per Artaud fa risalire proprio al set estremo di La passione di Giovanna d’Arco, la nascita in lui dell’idea di Teatro della Crudeltà, sviluppata in seguito da Artaud, che voleva superare l’anatomia come insieme di organi e funzioni, andando alla ricerca di un “corpo senza organi”.
Denso di detour e di anfratti, il testo di Cappabianca attraversa una fitta serie di film – e di mondi – anche molto distanti tra loro, di cui si vogliono qui segnalare, tra le molte altre, le pagine dedicate a The Other Side of the Wind di Orson Welles, Sans soleil di Chris Marker, Tre vite una sola morte di Raoul Ruiz. E’ proprio il film di Ruiz, che permette a Cappabianca di soffermarsi ancora, dopo averlo già fatto a proposito di Welles, su un altro tema portante del testo costituito dal tempo, il vero “ protagonista occulto di tutti i film, che viene allo scoperto”. Raoul Ruiz, regista apolide, dalla cultura sterminata, custode di un’infinita quantità di storie e di racconti, con Tre vite una sola morte aveva costeggiato la falsariga di uno dei racconti più intensamente perturbanti di Hawthorne, Wakefield, sublime protagonista dello spaesamento, “fuorilegge dell’universo”, che nel film si incarna nel corpo di un Marcello Mastroianni, allora già prossimo alla fine, che alla complicata sovrapposizione dei personaggi e del racconto, aggiunge un senso personale e malinconico di congedo definitivo.
Verso la fine del libro, alla riflessione, soprattutto via Artaud e Akerman, sul corpo si affianca quella sul tempo, che, sempre attraverso l’opera di Chantal Akerman permette a Cappabianca di soffermarsi sul lavoro della durata, sul peso insostenibile dei piani-sequenza, sul mistero del tempo, che costituiscono l’habitat, per esempio, di Jeanne Dielman, dove è attraverso la scansione del tempo che si sperimenta in prima persona l’enigma stesso della realtà. “Percepire il tempo è respirare l’aria della morte: è questo che il montaggio (rapido) nasconde.”
Se oggi, per Cappabianca è la serialità a essere l’ultima frontiera del racconto, e per questo, ma non solo, nel libro vengono convocati Heimat di Edgar Reitz, The Knick di Steven Soderbergh, Twin Peaks di David Lynch, del fenomeno contemporaneo di moltiplicazione e fruizione continua delle serie, contesta il limite di risolversi in una semplice restituzione di ordine di ciò che non ha senso, del caos, risolto in una dimensione di continuità ripetitiva. Per Cappabianca invece, ciò che realmente conta è la metamorfosi – quel divenire altro di cui parla Deleuze -, ovvero il potenziamento nel soggetto delle scissioni, delle ossessioni, per approdare a ciò che definisce come “ un racconto visionario dissociante”.
Nel leggere i libri di Alessandro Cappabianca si prova sempre insieme un grande senso di libertà e di vertigine, sempre accompagnato dal senso di scoperta che portano in sé; si tratta di libri a loro volta in metamorfosi, che oltrepassano sempre il numero di pagine che li definisce, aprendo al lettore altri percorsi virtuali, altre libere associazioni, altri pensieri. Anche questo non fa eccezione, e la sua particolare intensità, all’interno di un testo che compie un itinerario così teoricamente innovativo e lucido sull’eclissi del racconto, consiste per me nel saper trovare degli spazi improvvisi e rubati di “racconto”, per questo commoventi, come Uno scenario per Chantal , ipotesi impossibile, eppure immaginata, di una messa in scena della vita (e morte) della cineasta belga,o come Amleto nel Far West, dedicato al monologo e al volto di Victor Mature/Doc Holliday, in My Darling Clementine di John Ford, oppure C’è un mietitore, si chiama Morte… sull’ultima puntata dominata dal delirio onirico di Franz Biberkopf del Berliner Alexanderplatz di R. W. Fassbinder. A concludere (e riaprire) il testo, due brevi paragrafi su Cronenberg e Godard, come gli ultimi avamposti di una frontiera, che ha trasformato e ripensato il cinema: l’uno nella metamorfosi organica e inorganica di una nuova carne, l’altro che ne ha dissolto e disseminato i segni nell’universo di uno sconcatenamento di immagini ugualmente libere, in un sublime linguaggio delle sfere, universale.
[1] Alessandro Cappabianca ha collaborato con Ilaria Gatti al libro: Chantal Akerman. Uno schermo nel deserto, Fefè editore, 2019
[2] A. Cappabianca, Artaud. Un’ombra al limitare d’un grande grido, L’Epos editore, 2001
[3] Cfr. Daniele Dottorini, La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo. Mimesis, 2018