La zona d’interesse di Jonathan Glazer
L’orrore fuori (dal) campo.
Volevo fare un film che, anche senza guardarlo, si potesse vedere.
di Vittorio Giacci
Dai tempi dei primi sconvolgenti documentari sulla Shoah di Frank Capra e Alfred Hitchcock al termine della Seconda Guerra Mondiale a Notte e nebbia (Alain Resnais, 1956) e a Schlindler’s List (Steven Spielberg, 1994), l’esibizione delle immagini insostenibili dei campi di concentramento nazisti costituiva elemento di forza nella denuncia di quell’orrore fino ad allora indicibile e inimmaginabile e accompagnava le analisi storiche su quel tremendo capitolo che va sotto il nome di Olocausto.
Ne La zona di interesse, liberamente tratto dal romanzo omonimo di Martin Amis (vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes 2023; Oscar per il miglior film in lingua straniera e per il miglior suono), l’opzione visiva si colloca, all’opposto, nella scelta di “non mostrare”, in un vuoto dello sguardo ancor più impressionante, e ciò avviene fin dall’incipit, sorta di inquietante Ouverture a sipario chiuso dove sull’inquadratura a nero si sovrappone un allarmante rumore di fondo unito a un drammatico contrappunto musicale a evidenziare con la propria iper-presenza l’assenza iconica rendendola ancor più angosciosa.
E’ l’orrore del fuori (dal) campo, e se questa figura del racconto è destinata a occupare sempre – come sostiene Ejzenstejn – uno spazio decisivo nel discorso estetico, qui funziona a un doppio livello rappresentativo, quello di dispositivo sia pro-filmico che filmico, come ambito diegetico e come espediente espressivo estremo e assoluto perché irriducibilmente onnipresente lungo tutta la durata dell’opera.
Dalla prima all’ultima sequenza e prima di concludersi circolarmente come nell’inquadratura iniziale a nero, La zona d’interesse, cui andrebbe accostato ildocumentario Final Account (Luke Holland, 2020) in cui vengono intervistati alcuni anziani nazisti in casa di riposo i quali, ritenendosi semplici esecutori, si auto-assolvono da ogni colpa, sembra limitarsi a descrivere l’esistenza quotidiana di una placida famiglia borghese composta da padre, madre e cinque figli che abita in una graziosa villetta dotata di orto, giardino e piscina.
Le giornate trascorrono nella quiete domestica e in una serenità scandita e regolata dalle consuete, ordinarie mansioni di tutti i giorni: ogni mattina, il marito, dopo aver consumato la prima colazione, esce di casa per recarsi al lavoro; la moglie accudisce alle faccende casalinghe e coltiva fiori e ortaggi; i bambini giocano tra loro all’aria aperta. Insomma, una famiglia normale in un contesto normale.
Nulla fa pensare che l’uomo sia in realtà Rudolf Höß, ufficiale delle SS e uno dei più efferati criminali della Storia il quale, nel suo ruolo di comandante di Auschwitz, il famigerato campo di sterminio nelle cui camere a gas ha mandato a morire milioni di deportati per la maggior parte ebrei e che sarà per questo condannato a morte dopo la fine della guerra.
La vita che conduce con la famiglia nella villa che si trova proprio accanto al campo, per una specie di “canone inverso” è agli antipodi di quella incombenze che si può intuire egli eserciti all’interno del lager di cui dal giardino di casa si intravede l’ergersi minaccioso di una ciminiera, e l’immaginazione, scaturita dalla “non immagine” d’ interni dell’area, viene agevolata dalla colonna sonora (sound design la definisce opportunamente il regista) la quale fa udire fuori campo suoni che contraddicono l’idilliaca esistenza privata di Höß ma che contraddistinguono inequivocabilmente la dimensione di follia della sua vita pubblica: rumori di convogli ferroviari e di veicoli, sibili industriali, spari e raffiche di mitra, latrati di cani, ordini perentori, urla e gemiti di dolore e di sofferenza.
“Ho dato molta più attenzione al suono che all’immagine – afferma Jonathan Glazer – volevo fare un film che, anche senza guardarlo, si potesse vedere. Le immagini sono l’impalcatura ma il sentimento è invisibile ed è dato da ciò che si sente. Siccome conosciamo quelle immagini, non volevo mostrarle e non volevo ricostruirle. Non volevo ricreare la violenza, anche quella è una specie di feticismo. Volevo realizzare una sorta di horror del subconscio, una sensazione di nausea causata da ciò che sta accadendo dietro quel muro. E il suono può fare proprio questo. Riconosciamo quei suoni e ci creano orrore.” (1)
Tale reversibile duplicità audio-visiva, quasi due film distinti anche se co-esistenti e inter-agenti, dove l’orrore fuori campo di Auschwitz trova rispondenza speculare nell’orrore in campo di quel paradossale ménage casalingo, è perfetta per declinare la “banalità del male” descritta da Hannah Arendt (2), quella mancanza completa di probità che ha portato milioni di persone “comuni” ad accettare il nazismo e a “normalizzarne” la violenza, le intimidazioni, le atrocità; a creare figure così mostruosamente prive di coscienza da trasformarle in altrettanti apparati amministrativi a tal punto impassibili di fronte all’abisso da eseguire senza esitazione ordini spietati come se fossero “soluzioni” o “questioni”; a concepire genocidi ed eccidi di massa come atti non umanamente esecrabili ma tecnicamente eseguibili con asettico zelo, anzi efficientabili alla luce di una più elevata produttività, nella raggelante logica burocratico-contabile di funzionari civilmente inappuntabili come Höß (Christian Friedel) il quale, al giudice che gli chiedeva conto della soppressione fisica di tre milioni di individui aveva ribattuto che erano stati soltanto due milioni e mezzo, atteggiamento che gli rende plausibile e sostenibile entrare e uscire senza alcuna conseguenza emotiva dal paradiso fittizio della zona di conforto domiciliare in cui vive alla zona di interesse lavorativo dell’inferno reale del lager in cui opera.
“Mi sono chiesto – continua Glazer – come facciano delle persone comuni a mettere completamente da parte il loro senso di responsabilità morale per poter mettere in atto un tale crimine. L’apatia è un’atrocità. Pensiamo che sia qualcosa di passivo ma non lo è. Si sceglie di non farsi coinvolgere.” (3)
E’un atteggiamento mentale terribile, rimarcato anche da Primo Levi nella prefazione al libro di memorie scritto da Höß poco prima della sua esecuzione, Comandante ad Auschwitz: “Höß è stato uno dei massimi criminali mai esistiti, ma non era fatto di una sostanza diversa da qualsiasi altro borghese di qualsiasi altro Paese; la sua colpa, non scritta nel suo patrimonio genetico né nel suo essere nato tedesco, sta tutta nel non aver saputo resistere alla pressione che un ambiente violento aveva esercitato su di lui già prima della salita di Hitler al potere.” (4)
Una connotazione che si può comprendere fino in fondo grazie anche alle puntuali analisi di Cristopher R. Browing in Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione finale (5) e di Stanley Milgram in Obbedienza all’autorità.(6)
A Glazer, comunque, non interessa tanto scandagliare la psicologia di Höß quanto mostrarne i comportamenti che volutamente non rappresenta nella sua veste di direttore del campo. E anche quando lo fa è per raffigurarlo infatti privo di quelle retoriche esternazioni di nazisti di maniera in divisa, tutto scatti e ordini sprezzanti, ma occupato in rilassate riunioni tecniche tra colleghi come quella emblematica con gli ideatori e i costruttori dei forni crematori.
Con loro si comporta non da militare quanto piuttosto da dirigente d’impresa, attento a pianificare l’esercizio della propria azienda per accrescerne la redditività anche se nel suo caso ciò significa incrementare il ritmo quotidiano di persone eliminate, e dialoga come se si trattasse di abituali incontri di lavoro tra professionisti che valutano progetti dove l’anomalia risiede nella “neutralizzazione” lessicale dei termini utilizzati per cui, anziché parlare di cadaveri da incenerire si discute di carichi da smaltire.
Altrettanto elusivamente si comporta la moglie Edwig (Sandra Huller) che sorridendo spartisce con le amiche capi di vestiario sottratti agli internati come se provenissero da un qualsiasi mercatino dell’usato; che ritiene sufficiente coprire con i pampini di una vite il muro che separa l’abitazione dal campo perché non lo si veda, quindi che non esista; che si ribella all’idea di trasferirsi in altra sede a cui è destinato il coniuge in seguito a promozione per meriti organizzativi, per non lasciare quello che considera il suo piccolo paradiso in terra.
Segregati nel loro isolamento dorato, vivono entrambi reclusi in quella solitudine che Michel Foucault considerava “la prima condizione della sottomissione totale” (7), dilatando al massimo grado proprio quel “non voler vedere” che sta alla base del consenso e dell’empatia verso il totalitarismo da parte di larghi strati di popolazione.
Il cineasta chiarisce questo processo di sottrazione emotiva (sottolineato da una tecnica di ripresa il più possibile oggettiva ottenuta con illuminazione naturale e cineprese “da remoto”, installate a debita distanza per rendere ancora più spontanee le movenze degli attori), nell’interpretazione autentica che dà dell’ultima sequenza, quando il protagonista si sente male sulla scalinata del palazzo all’uscita da un ricevimento.
“Non è una presa di coscienza di Höß – dichiara – non ne ha. Prova pietà per se stesso dopo la guerra ma la sua coscienza non è scossa. In quella scena vediamo la verità del corpo che rivela le bugie della mente. L’uomo che dà di stomaco non è un personaggio, è l’orrore reale. La cenere delle persone che ha ucciso è dentro di lui.” (8)
Uno sguardo così tematicamente rigoroso e così stilisticamente coerente si apre soltanto in un interstizio di speranza, nella sequenza ricorrente di una bambina che seppellisce del cibo sotto terra.
Questa scena, la più simbolica e onirica del film, girata con cinepresa termica per sottolineare un’atmosfera da “teatro delle ombre” ed esaltare la dicotomia Luce/Oscurità, Bene/Male, Speranza/Sconforto, rievoca invece un episodio reale di una persona reale, Alexandria, una appartenente alla Resistenza polacca che, all’età di dodici anni, si recava furtivamente di notte con la propria bicicletta tra gli spazi del campo per nascondere delle mele che i prigionieri affamati avrebbero trovato la mattina seguente andando a lavorare, e che Glazer incontra all’età di 90 anni, poco tempo prima della sua morte.
“Quel piccolo atto di resistenza, l’atto semplice, quasi sacro, di lasciare il cibo -spiega – è cruciale perché è l’unico punto di luce. Pensavo davvero di non poter fare il film. Continuavo a chiamare il mio produttore e a dirgli: “Me ne vado. Non posso farlo, è semplicemente troppo buio. Sembrava impossibile mostrare l’oscurità totale, quindi stavo cercando la luce da qualche parte e l’ho trovata in lei. Lei è la forza del Bene.” (9)
Ma è una sola sequenza, una soltanto, prima che riprendano il sopravvento, con l’unico indizio grafico di una dissolvenza in rosso che invade lo schermo come un gigantesco sbocco di sangue, le sorgenti del male di cui parla Zygmunt Bauman (10) e quelle tenebre della ragione esposte da Franz Stangl, un altro comandante di lager. (11)
Con esse riemerge il buio della visione, e il film torna a ricomporsi nella “non immagine” di un Olocausto otticamente assente ma mai così tragicamente tangibile che interpella direttamente la consapevolezza di chi guarda.
Si sa già tutto, si è già visto tutto. Forse sono immagini addirittura metabolizzate nella memoria, illudendo che siano la conseguenza della tragedia di un’epoca storica ben definita e per questo irripetibile quando invece potrebbero tornare a riproporsi tramutando ineludibilmente l’indifferenza in complicità.
Ha scritto Antoine De Baecque che dopo aver visto i campi di sterminio nessuno poteva più rimanere innocente, né i cineasti, né gli spettatori, né gli attori né i personaggi. (12)
Con La zona d’interesse Jonathan Glaser, celando l’orrore dentro il campo per mostrare l’orrore riflesso fuori (dal) campo, lo ha prepotentemente ricordato nella agghiacciante percezione di una avverabile replicabilità.
Note:
- Jonathan Glazer, Intervista (a cura di Antonella Catena) “ Style Magazine”, 21 febbraio 2024.
- Hannah Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano, 1964.
- Jonathan Glazer, cit.
- Primo Levi, Prefazione a: Comandante ad Auschwitz. Memorie di Rudolf Höß, Einaudi, Torino, 2014.
- Cristopher R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Polonia, Einaudi, Torino, 2022.
- Stanley Milgram, Obbedienza all’autorità, Einaudi, Torino, 2003.
- Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 2014.
- Jonathan Glazer, Intervista, “Cinefilos, 28 febbraio 2024.
- Jonathan Glazer, cit.
- Zygmunt Bauman, Le sorgenti del male, Erikson, Trento, 2013.
- Gitta Sereny, In quelle tenebre, Adelphi, Milano, 1994.
- Antoine De Baecque, Histoire-Caméra, Gallimard, Paris, 2008.