La ri-scrittura cinefila. La scrittura militante
di Vittorio Giacci
Trovo meraviglioso il cinema perché anche se da un certo punto di vista tutto è sullo schermo e questo dovrebbe evitare ogni discussione, le discussioni tra noi della Nouvelle Vague, tra me, Rivette e Truffaut erano continue, amichevoli o violente, del tipo di violenza che c’è negli ambienti politici, militanti.
L’uomo che non c’è. Il cinema che c’è
Parafrasando i fratelli Cohen, l’uomo (Godard) non c’é. Si nega, si sottrae, si cela. Non si contano infatti gli incontri, le presentazioni di film, i convegni e le tavole rotonde a cui, pur annunciato, non si è poi presentato, lasciando il pubblico privato della sua persona, solo con il suo cinema, .
Il cinema (di Godard), invece, c’è, ed all’ennesima potenza, grandezza entropica che genera e consuma energia continua.
Esso si esibisce, si offre, si espone, annientandosi e rigenerandosi all’infinito, denso come un pensiero filosofico, etereo come una nuvola, magma inespresso, o inesprimibile, eccesso di senso, nesso deflagrato, concetto libero che oltrepassa la Storia per Essere, per Rappresentare, per farsi Linguaggio, Stile, Ideologia, Rivoluzione, Immagine una e duplice, macro e microcosmo, finito/infinito, luce/ombra, nascita/morte, off/on, il prima e il dopo.
Con Godard il Cinema si distingue in un prima (Godard) e in un dopo (Godard).
Il Cinema, fino ad allora inteso come un Visibile dentro l’Immagine, diventa Visibile tra le immagini, dunque In-visibile, se non si accetta quel “tra” e non si riconosce che il Senso non è più nel centro ma nelle periferie del Significato, se non ci si sforza di trovarlo nelle pieghe, nelle intercapedini, negli slittamenti, nelle tracce e nelle impronte di una materia filmica non finita da completare con l’interpretazione, Cinema non fatto una volta per sempre ma che si fa ogni volta che si proietta.
In questo Godard porta alle estreme conseguenze il diritto dello spettatore a essere non solo interprete ma co-autore del suo cinema, in una predisposizione così sfrenatamente libera da lasciare a volte incantati ma più spesso sorpresi e indisponibili.
Il pre-finito di Godard, è, come un movimento di macchina, una questione morale.
Non conosco persona più negata, nascosta, assente, di Godard.
Non conosco un Cinema in cui la presenza del suo autore sia più fortemente avvertita e percepita, Cinema in Prima Persona Assoluta dove l’Autore si mostra, qualche volta come Corpo, spesso come Voce narrante, sempre come Pensiero che muove, ragionando di Cinema mentre fa un Film, parlando di sé e del suo mondo, citando il cinema che ama e ciò che fa parte della sua vita intellettuale.
Nessuno potrebbe mai sostituire Godard in un suo film. Il risultato sarebbe un insopportabile godardismo, così come a nessun altro riuscirebbe di combinare i diversi materiali che compongono il suo cinema (inquadrature, sequenze, suoni, dialoghi, rumori fuori scena, didascalie, numeri, sigle, insegne, scomposizioni di volti e di corpi, dissolvimenti di plot e di identificazione) in quell’universo filmico e testuale che con lui diventa immediatamente e ineluttabilmente Cinema, Cine-Occhio, Cine-Verità, Cine-Rivoluzione, anche quando graffia, annerisce, oscura, taglia, solarizza, sovrappone, sovraespone.
Corpo del Film, in Godard, non è tanto ciò che vi avviene come Racconto, quanto la corporeità fisica della pellicola medesima, disvelata, mostrata, rivelata come supporto, filtro, interposta-persona, fra Autore e Pubblico.
Ed è proprio cancellando l’Illusione del Cinema come Corpo Autonomo e sostituendosi a esso che Godard si espone come Autore.
Non possiamo dire, dunque, di aver visto un film di Godard, ma, piuttosto, di aver incontrato, sentito, visto, toccato Godard per mezzo di un suo film.
Ho visto/conosciuto Godard nei suoi film fin dai primi, in sale pubbliche, su grande schermo, quand’essi dovevano, per le leggi di mercato vigenti, competere con ogni tipologia di film. Il primo ostacolo da superare era di intuire, dietro ad un titolo tradotto (fortunatamente quasi sempre in maniera letterale), a un flano ricostruito, a una pubblicità reimpostata, l’Autore e l’oggetto della sua rivoluzionaria comunicazione. Il secondo, di non cadere nel suggerimento della cassiera, che spesso, pensando di fare cosa gradita, invitava a non entrare in sala. Il terzo, il pubblico, o quel che restava di esso, tradito nelle sue aspettative e nelle sue abitudini, così intensamente e bruscamente messe in discussione da un’idea e da una pratica filmica così esplicitamente alternative.
Ho seguito con attenzione i rapporti, prima strettissimi, quando giravano film insieme (Une histoire d’eau), si scambiavano i copioni (Fino all’ultimo respiro) o i ruoli di regista e produttore (La donna è donna e Due o tre cose che so di lei), usavano il medesimo operatore (Raoul Coutard), la medesima aiuto-regista (Suzanne Schiffman), gli stessi attori (Jean-Pierre Leaud, Jean-Paul Belmondo), lo stesso musicista (George Delerue), e poi con rammarico i destini divaricati fino alla drammatica lite, fra lui e Truffaut, i due poli così estremi, ma proprio per questo così necessari, della Nouvelle Vague, stando personalmente dalla parte di Truffaut, e mi ha commosso la ri-appacificazione di Godard in morte dell’ex-amico: “François, forse, è morto. Io sono, forse, vivo. Non c’è molta differenza. Non è vero?”
“La creazione artistica -dice l’autore- non sta nel dipingere la propria anima nelle cose, essa sta nel dipingere l’anima delle cose”.
Da questo punto di vista Jean-Luc Godard ha dipinto un’intera pinacoteca: guardiamola con rinnovato stupore, come sempre lascia stupefatti ogni opera d’arte che parla per il suo autore e in suo nome comunica non le cose ma la loro anima.
L’ INCONTRO
Non ho mai avuto occasione di incontrare Jean-Luc Godard di persona, se non alla Biennale di Venezia nel 1982, quando vene a ritirare il Leone d’oro alla carriera. Una opportunità unica: per non meno di venti minuti ci siamo trovati seduti, uno di fronte all’altro, nella quiete riservata di un giardino d’Hotel, fuori dal clamore del festival, senza l’ombra di un giornalista né di un fotografo. Siamo rimasti, muti, a guardarci. Un suo leggero sorriso poteva motivare anche l’impressione di una qualche disponibilità al dialogo eppure -chissà perché, o forse timoroso di una sua reazione- non mi sono mosso e non ho articolato parola.
Ho onvece ripercorso mentalmente i suoi film e ho pensato a un dialogo de Il bandito delle undici: “Tu mi parli con delle parole ed io ti guardo con dei sentimenti”. Mi sono sembrate sufficienti per capire che il dialogo era già tutto avvenuto dentro il suo cinema e che null’altro di più e di meglio si sarebbe potuto aggiungere.
Godard è il suo cinema, parla con il suo cinema e al nostro bisogno di parola risponde -e continuerà a farlo anche ora che fisicamente non c’è più nell’immortalità dell’arte e del suo cinema- guardandoci, appunto, con dei sentimenti.