La regola del gioco
di Daniela Turco
Tra gli aspetti ricorrenti nell’opera di Jean-Luc Godard, un posto speciale è occupato dalla presenza del gioco.
Regista-pittore, archivista-poeta, lettore-inventore, scienziato-filosofo, idiota-principe, infine, artista-creatore, libero e concentrato nella propria solitudine, Jean-Luc Godard si è preoccupato fino all’ultimo respiro di prelevare i segni scomposti e dispersi della vita, per tradurli e riordinarli nel cinema – l’altro della vita – , in questo seguendo e nello stesso tempo sistematicamente infrangendo e reinventando, come mai nessun altro ha neppure sognato di fare, le regole del gioco.
Nella Lettera ai miei amici[1] “per imparare a fare il cinema insieme” Jean-Luc Godard scriveva così:
Io gioco
Tu giochi
Noi giochiamo
Al cinema
Tu credi che ci sia
Una regola del gioco
Perché sei un bambino
Che ancora non sa
Che si tratta di un gioco e che è
Riservato ai grandi
Dei quali tu fai già parte
Perché hai dimenticato
Che si tratta di un gioco per bambini
In che cosa consiste
Ci sono diverse definizioni
Eccone due o tre
Guardarsi
Nello specchio degli altri
Dimenticare e sapere
Presto e lentamente
Il mondo
In se stessi
Pensare e parlare
Che strano gioco
E’ la vita
Questa strana lettera in forma di poesia si trova in uno dei suoi bellissimi testi, Il cinema è il cinema, un titolo che apre già un abisso del senso, in quella che sembra essere solo una ripetizione, una parola – il cinema – che si specchia in se stessa, mentre non è che l’aprirsi di una prolungata, appassionante riflessione filosofica sul mistero del cinema e sul linguaggio che accompagnerà sempre il suo lavoro e che con il vertice delle Histoire(s) du cinéma, lo vedrà riuscire nell’impresa smisurata, impossibile, eppure reale, di far passare l’intera storia del cinema frantumandola attraverso la lanterna magica delle histoire(s) per ricostruire un universo magmatico di segni-parole- immagini-suoni, che nel gioco di frammenti in collage ripreso dalle avanguardie, dalla fine degli anni 90 in poi, fino al suo ultimo film, Le Livre d’Image, diventerà il paradigma di tutta la sua ricerca.
La sua stessa idea del cinema come infanzia dell’arte, stabilisce un rapporto con l’elemento del gioco, che variamente declinato ritorna così spesso nei suoi film, un aspetto che avvicina Jean-Luc Godard a Walter Benjamin, un altro filosofo-poeta- collezionista e teorico delle immagini, ancorato all’infanzia, al gioco, e al processo politicamente rivoluzionario di una liberazione che si compie attraverso il cinema.
Cinema, infanzia, gioco, linguaggio, si collocano in un sistema di relazione aperto, su cui hanno riflettuto in parecchi, per Serge Daney, ad esempio il cinema stesso è l’infanzia. “Il bambino non pensa mai in relazione a un limite, è una linea di fuga, esigente, seria.”[2] E Giorgio Agamben, nel suo bellissimo testo Infanzia e storia, indica come sia proprio “ il fatto che l’uomo abbia un’infanzia (che cioè, per parlare egli abbia bisogno di espropriarsi dell’infanzia per costituirsi come soggetto del linguaggio) che spezza il “mondo chiuso” del segno e trasforma la pura lingua in discorso umano, il semiotico in semantico”[3]
Jean-Luc Godard così spesso indicato come enfant terrible del cinema mondiale, di fatto ha portato nei suoi film il soffio potente dell’anarchia e della voglia di sperimentare che accompagna l’infanzia; basterebbe ricordare lo splendido e scabroso Numero deux, o la didattica anomala e dolce di FranceTour/Detour Deux Enfants, in cui Godard in collaborazione con Anne Marie Mieville pone delle domande ai bambini, sollevando con loro una serie di problemi metafisici e reali, mosso da una curiosità reale, perché, come aveva scritto Marguerite Duras, dei bambini non si sa assolutamente niente. Quella parte di noi che è stata bambino, a un certo punto ha cessato di esistere, e noi ricominciamo in qualche modo da zero.[4] – sosteneva Godard, incredibilmente sorpreso di come ci siano pochissimi film sui bambini, nonostante i tanti bambini che continuano a popolare il mondo.
Non in un film di Jean-Luc Godard, ma in un film con Jean-Luc Godard, si ritrova questa linea serpeggiante e fatalmente “insoddisfacente” del gioco. Si tratta del film di Mitra Farahani, A Vendredi Robinson, presentato lo scorso febbraio alla Berlinale[5], che ruota su uno scambio di e-mail tra il 2014 e il 2015, che andrà avanti per ventinove settimane, tra le due figure leggendarie di Jean-Luc Godard ed Ebrahim Golestan, cineasta e scrittore allora novantaseienne, già esponente della Nouvelle Vague iraniana, che per un gioco dell’intelligenza e del caso vengono messi in contatto tra loro. Grazie a Mitra Farahani il loro incontro a distanza si rende possibile, e una volta stabilito un accordo fra i due, lo scambio può avere inizio, da un venerdì in cui Golestan manderà la prima mail, a quello successivo, quando – forse – potrà leggere a sua volta la risposta di Godard.
La profonda bellezza di questo scambio che viaggia attraverso la posta elettronica, ma anche attraverso la pagina scritta (in una sequenza si vede Golestan scrivere a mano in farsi, con i segni arrotondati di una lingua che somiglia a un ricamo), si scopre in una corrispondenza bizzarra fra i due, dovuta all’età avanzata e alle precarie condizioni di salute di entrambi – verso la fine, si scambieranno anche le loro foto da un letto d’ospedale -, come anche nell’intermittenza, nell’incertezza e nell’attesa della comunicazione, che si potrebbe interrompere in qualsiasi momento, per ragioni dovute al caso o ad altro. Filmati nel loro ambiente abituale: Godard arroccato nel suo avamposto a due piani di Rolle – set essenziale dei suoi ultimi film -, come sempre con il pensiero affollato dai libri e dalle immagini, che sciamano tra lo schermo e il display del cellulare, e Golestan, circondato dai familiari, dagli amici e dalle carte, nel suo maniero nel Sussex, dominato da una scala imponente che sembra prelevata dall’Orgoglio degli Amberson – i due straordinari cineasti-scrittori, su e giù per le scale delle loro case, si trovano a giocare insieme una strana partita – sopra e sotto la comunicazione – che mette al centro il linguaggio. Il linguaggio e la morte, bisognerebbe forse aggiungere, seguendo il titolo di un testo in forma di seminario, ancora, di Giorgio Agamben, che attraverso Heidegger, Hegel, ecc. prendeva in considerazione quella relazione essenziale tra morte e linguaggio, che “appare come in un lampo, ma è ancora impensata”[6] Tra Golestan e Godard questo rapporto presente ma ancora impensato passa come un fantasma; a Rolle, mentre lava i piatti JLG ritrova un pensiero di Elias Canetti, Non siamo abbastanza tristi, perché il mondo diventi migliore, mentre nel Sussex Golestan cerca di ricordare un passaggio di Cechov – forse nel Gabbiano, forse in Tre sorelle o nel Giardino dei ciliegi, non sa con precisione -, dove qualcuno cui si domanda perché veste sempre di nero, risponde di portare il lutto per la propria giovinezza. Tra loro passano questi dialoghi silenziosi, di cui alcuni in forma di rebus, come la stupenda sequenza inviata da Godard a Golestan che mette in serie una gouache découpé del 1952 di Matisse + una pagina di Finnegan’s Wake+ una pagina in lingua farsi+ il filmato di alcuni operai al lavoro, intenti a suturare le crepe dell’asfalto, pura action-painting.
Golestan, spiazzato dall’invio-rebus, resiste dapprima all’interpretazione, dove nel gioco sottile di rimandi innescato nel film, resistere, viene detto, è una qualità del poeta nei momenti difficili, per cedere poi a lasciarsi coinvolgere dalla bellezza e dall’imprevedibilità del gioco.
Mitra Farahani, regista-messaggero, che -quasi sempre- li osserva giocare dal fuori-campo, parlando di Jean–Luc Godard, in quel momento ricoverato in ospedale, osserva che con lui scomparirà la fonte di una certa bellezza.
Ma oggi, che quel momento è arrivato e che la sua scomparsa è reale, non si può fare a meno di sentire la sua opera più di sempre al lavoro e, miracolosamente al presente, cioè in dialogo permanente con la contemporaneità, nella forma necessariamente in divenire di uno archivio sterminato dell’immaginario, che protegge la bellezza e il linguaggio con le armi sovversive e sempre improprie di un bambino che gioca.
JLG dice questo nel film: “ Oh lo so, cos’hanno di vano tutti questi morti…ma so anche che al momento opportuno il bambino che sono stato riprenderà il suo posto alla guida della mia vita.
[1] In J-L. Godard, Il cinema è il cinema, Garzanti, Milano 1981, pp. 288-289.
[2] cfr. S. Daney, Il cinema e oltre. Diari 1988-1991, Il Castoro, Milano 1997.
[3] Cfr. G. Agamben, Infanzia e storia, Einaudi, Torino 2001, p. 54.
[4] in JL. Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 43-44.
[5] Ne ha già scritto Edoardo Mariani sul sito nell’aprile 2022 nel suo testo Immagine-Mondo, o il pulsante che accende e spegne tutte le luci.
[6] G. Agamben, Il linguaggio e la morte, Einaudi, Torino 2008, p. 3.