LA JALOUSIE di PHILIPPE GARREL
Prima di spegnere la luce
di Luigi Abiusi
Nonostante le molte costanti del cinema di Garrel, che porterebbero a considerarlo, nella sua interezza (così come in effetti mi pare che sia) compatto, monodico, per certi versi ossessivo, se ne può ricavare adesso un nucleo ancora più coerente, consecutivo, un distico più attuale, costituito da Un été brûlant (passato a Venezia nel 2011, quasi del tutto incompreso, e di cui scrivemmo su «Filmcritica» 618) e da La gelosia (una delle cose migliori viste a Venezia l’anno scorso), che dialogano tra loro, svariano, permutano i loro chiaroscurali fantasmi innamorati. Perché alla fine di un personaggio in amore, in quello straordinario congegno emotivo che è Un été brûlant, forse addirittura superiore alla Gelosia per la sua straripante impulsività da danza (bramata, goduta dallo spettatore, tragicamente subita da Louis), da pianto (di una Bellucci inadeguata, finta, e per questo tanto più vero), da schianto, ad occhi chiusi, contro un albero; alla fine (cor)risponde il ricominciamento a partire da niente, di quello stesso personaggio, quando è ancora nell’aria l’eco fumosa di uno sparo, perso con occhi sbarrati nella luce della sua stanza disadorna, prima di dormire. Ed è un niente che si nutre degli spazi, fatto ancora di stasi autunnale per le strade, di parchi dei tramonti, come adombrati dal bianco e nero, quando invece sanguinavano nei colori di Un été brûlant; panchine dove parlare sul da farsi nel mezzo del continuo incrinarsi del mondo, che pure si tiene nello strato di nuvole sopra, del vento in attesa sull’uscio delle porte a scompigliare i capelli, il manto immobile di neve fuori, ed è già l’inverno; mentre sono cambiati solo gli interpreti di questo niente, di questo vuoto che per Claudia era insopportabile, perché ad un tratto dice a Louis «come ci si può amare nel vuoto?».
Succede a certi fantasmi di tradire questo nulla per cui si è nati (che non può che perpetuare ogni volta la propria sibilante assenza), le stamberghe, le soffitte scarnite, trascolorate in alcove (basta un poster del lido di Venezia ad acconciarle); una vita d’arte, di teatro, cinema, di letteratura, musica in quanto vivo senso (sensualità) che s’inscrive nelle cose; l’amore crepitante che sorregge ogni farsi artistico, ogni scrittura come propria (im)personale traccia dentro l’esperienza, cioè ogni pratico da farsi nel quotidiano; succede che lo tradiscano in nome della logistica, dell’opportunità, di cose (case) che, fuori dall’ecosistema di poetizzazione del mondo, presumibilmente perdono di senso (perciò sembra difficile immaginarsi Claudia ancora in preda al fuoco majakovskiano dopo il passaggio al “pieno” mondo dell’architetto, se non magari come freddo e sciorinato accumulo, nomenclatura di libri e letture). Così Garrel registra la fuoriuscita di uno di questi personaggi, Claudia appunto, da questo niente significativo (significato solo dall’inscrizione, amore delle cose e delle corrispondenze, prima che svaniscano), universo sensuale, per quanto delicato, passibile di falle, squarci, o di smottamenti definitivi, crolli da scomparizione, da abbandono, com’era in Un été brûlant dove in seguito allo sgretolarsi del mondo di Frédéric e Angèle (che sembra però questione endemica, normale decorso della malattia di coppia), cioè sgretolarsi del film, del declinarsi estemporaneo di forme e di vite dentro la scrittura, resta una realtà silenziosamente brulicante e insignificante prima dei titoli di coda. E a pensarci è il prima, con la sua morfologia e la sua musica fragile e presaga, a raccogliere su di sé, semanticamente, lo scandalo del dolore: la passeggiata di Louis e Claudia abbracciati, un momento prima che lei gli mostri l’appartamento donatole dall’architetto; e la cena con gli amici, così distesa e ciarliera, dopo la quale lei fa le valige e va via, straziando il «ti amo… ed è definitivo» di Louis.
La precarietà di questa dimensione sentimentale, centro della poetica di Garrel (con le naturali connessioni, anzi identificazioni, con le possibilità di creazione di individui contraddittori eppure angelici, in balia del conculcante mondo monetario, da sempre rese icastiche dal regista richiamando set cinematografici, prosceni, vasta e tormentata esperienza creativa dei personaggi ecc.), già acuita all’inizio della Gelosia dalla separazione di Louis e della sua compagna disperata, poi rassegnata, rischia di trascorrere in definitivo dissesto nel momento della fuga di Claudia (che dice, semplicemente, «non sopporto di essere povera»). Ma questo mondo da niente, ri-colmo (del racconto, dei ricordi, dell’amore) di figli, padri, sorelle (comunità senziente, di fedeli, a cui aggrapparsi), questa volta resiste e si ricompone con quel poco che resta, e si declina ancora in uno scenario incerto e scricchiolante, adiacenza di piattaforme, placche di sostanze, circostanze (e densità, pulsioni) che si allontanano o si scontrano sanguinando: nell’estenuante estate romana, barocca (di giardini pensili che rimuginano il mistero delle foglie, delle rampicanti su muri e muri in erosione), deserto in cui si vaga come fantasmi in cerca dell’amore perduto, raccattato qua e là sui marciapiedi, nei bar indifferenti, bisbiglianti nei bicchieri di vino; il concavo strato di nuvole grigie innervato dal piano, lento; le volute di vento sotto il cielo bianco; e la pelle così candida, la superficie di pelle così luminosa dentro la stanza spogliata dai muri bianchi; la stanza illuminata da una luce da niente (mentre tutti gli altri sono lontani e addormentati); gli occhi, il viso, nel vuoto dei muri, prima di spegnere la luce.