Kinds of Kindness di Yorgos Lanthimos
“Noi che ci adoperammo a edificare la gentilezza / noi non potemmo essere gentili”
Bertolt Brecht
di Sergio Arecco
Tutti a dire che il trittico, tre apologhi, di Yorgos Lanthimos, Kinds of Kindness non è figlio di La favorita (2022) e di Povere creature! (2023), più aperti – anche in virtù della loro accattivante ricostruzione storica in costume – alla dialettica con il vasto pubblico, e nemmeno degli stravaganti ma pur sempre accessibili The Lobster (2015) e Il sacrificio del cervo sacro (2017). E a insinuare che l’opera è se mai figlia del primo Lanthimos, autore meno accreditato di film scritti in coppia con lo sceneggiatore greco Efthymis Filippou, inventore di storie sinistre e scostanti: Dogtooh (2009, torbida narrazione di fratelli segregati e incestuosi), Alps (2011, grottesca elaborazione del lutto per il tramite di una banda di curanti schizzati). Quel Filippou che è alfiere da tempo, e non soltanto al servizio di Lanthimos, della cosiddetta greek weird wave, nata dopo la crisi sociopolitica del 2008 e “bizzarra”, eccentrica, suscitatrice di storie anomale, intriganti ben al di là del provocatorio – siamo nell’ortodossa terra greca –, concepite come un che di calcolatamente rivoltoso, respingente.
Invece no. L’intreccio di Kinds of Kindness, tra cinismo, crudeltà, improntitudine e umor nero, a tre ante come un trittico di Bosch, The Death of R.M.F., R.M.F. is flying, R.M.F. eats sandwich – ripropone, in termini solo più paranoici, e nondimeno ugualmente cupi e sarcastici (dita mozzate, ripetuti scambi di coppia, obitori, torture psicologiche, paradossali cimeli da collezionisti) il tracciato lanthimosiano della caleidoscopia umana, del male oscuro delle identità, tracciato in Povere creature! Di più. Kinds of Kindness, “Sfumature di gentilezza” alla rovescia, è stato realizzato, si badi, durante la postproduzione dello stesso Povere creature!, con i suoi stessi attori principali, Emma Stone e Willem Dafoe in particolare. E ciò non può non costituire un elemento di continuità, per quanto nella fabula del trittico i due protagonisti facciano in qualche misura da supporto a Jesse Plemonts. Il quale ne raccoglie visibilmente il testimone per introdurre a sua volta un elemento di continuità di secondo grado, facendo da filo conduttore diegetico delle tre nuove storie, imparentate tra loro al di là dell’apparentamento di Kinds of Kindness con Povere creature! Raccoglitore? Sì. Il raccoglitore del testimone della velleitaria ribellione di Bella (Emma Stone), il titolare di una ritorsione ai dogmi comportamentali imposti da un’Autorità sadica e demiurgica, incurante del libero arbitrio altrui, e tutta intesa, come il Dio malvagio degli gnostici, a manipolare, plagiare, introdurre un ordine costituzionalmente depravato di controllo.
Il Robert di La morte di R.M.F., il butterato inelegante Jesse Plemonts, è anch’egli una povera creatura, un poor, a prescindere dai sontuosi ambienti – esplorati in carrello da movimenti sinuosi alla Fassbinder – che abita o, meglio, dai quali è abitato. È legato mani e piedi al carisma corrotto e pervertito di Raymond (Willem Dafoe, assistito dalla subalterna Margaret Qualley nel ruolo di Vivian), ai suoi imperativi gratuiti e dissoluti – qui l’uccidere R.M.F. centrandone in piena notte l’abitacolo con la sua auto in agguato –, che della manomissione della personalità fanno precetto di vita. Robert deve per esempio astenersi dal bere Johnnie Walker, leggere Anna Karenina prima di addormentarsi, copulare con la moglie Sarah a orari prestabiliti, e soprattutto non deve fare figli con lei. Quando Sarah – Robert si anticipa l’atroce rivelazione in uno dei tanti incubi in b/n del film – se ne va di casa per l’orrore patito, innescando nel consorte un principio di ravvedimento se non di contestazione dell’Autorità, iniziano i guai. Per tutti, per Raymond stesso, al quale Robert incomincia a dire No. Ebbene, per la serie Bussate e non vi sarà aperto gli resteranno chiuse in faccia le porte sia di Raymond sia di Rita, la ragazza che gli dà un appuntamento che non potrà onorare in quanto centrata a sua volta nel proprio abitacolo dal furore vendicativo di R.M.F. (ambedue in ospedale, lei salvabile, lui in fin di vita).
Ma attenzione: di quanto di balordo stiamo parlando qui? Di quale mondo “fuori centro” stiamo ragionando? Di quale realtà stralunata? Ecco il punto. A Lanthimos, nella sua febbre di sovversione, preme figurare un universo parallelo, notturno, onirico, ove può trovar posto ogni paradigma di illecito, di abnorme, di sgomentevole, anche di ripugnante – in R.M.F. is flying e in R.M.F. eats sandwich, una tale campionatura demente e necrofila si fa ancora più accentuata, al limite del tollerabile, come in Salò di Pier Paolo Pasolini, sul cui frame del corpo martoriato sulla spiaggia di Ostia, la notte tra l’1 e 2 novembre 1975, schiacciato ripetutamente dalla pressione delle ruote di un’auto, Lanthimos modellerà la clausola di R.M.F. muore. Il cineasta greco, ormai hollywoodiano di adozione, ha nominato Caligola di Albert Camus (richiamo dotto, un classico dell’assurdo, 1941) quale fonte d’ispirazione delle dinamiche biopolitiche dell’asservimento dei corpi e delle anime. È un appello che ci sta. In Caligola, il solo Cherea, guardia del pretorio dell’imperatore folle, si elegge ad antagonista dell’“imbecille imperiale”, del suo “esercizio della libertà attraverso il delitto”, forte della convinzione che “non è possibile essere liberi se non contro gli altri uomini”.
Nell’ultimo atto, il quarto, Cherea trafigge il suo infame tiranno con tre pugnalate in pieno viso, e il despota gli risponde, da zombi insopprimibile: “Sono ancora vivo!”. Nell’ultimo atto di La morte di R.M.F., la morte si consuma davvero, grazie a un abile diversivo ordito da Robert, travestitosi da infermiere dell’ospedale in cui sono ricoverati sia R.M.F. sia Rita. Tuttavia, l’esecuzione avviene in collusione con il rispetto nei confronti di Rita, o con il rispetto – tuttora in bilico malgrado la ribellione – nei confronti della sovranità finora indiscussa di Raymond? Robert corteggia la libertà oppure ne corteggia il fantasma? È impossibile non evocare, infatti, Il fantasma della libertà di Luis Buñuel (1974), quel Buñuel apertamente richiamato da Lanthimos – il formicolio degli scorpioni di L’Âge d’or (1930), il formicolio dei coleotteri in La morte di R.M.F. –, grazie a una dei tanti test surrealisti in b/n da lui disseminati a titolo di incubi o premonizioni – in un frame inaugurale, riferito alla convivenza incestuosa di Raymond e Vivian. Robert asseconda l’ambizione della vera libertà o ne asseconda ancora e sempre il fantasma?
