Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese
L’occhio, probabilmente…
di Daniela Turco
Scorsese ha collocato spesso al centro dei suoi film la famiglia, con il suo opaco, contraddittorio, sistema di scambio fra sentimenti, manipolazione e potere, e Killers of the Flower Moon non fa eccezione, anzi, questa volta il nodo ambiguo e potenzialmente mortale di tradimento e di sangue si stringe progressivamente tra una coppia di coniugi “mista”, formata da Ernest (Leonardo DiCaprio) e Mollie (Lily Gladstone), lui, bianco, reduce segnato dalla prima guerra mondiale e lei, nativa americana della ricca – per il possesso di terre e petrolio – comunità indiana degli Osage. I mondi distanti, di Mollie e di Ernest sono destinati a incontrarsi all’interno di un gioco indefinitamente amoroso e ambiguo collegato alle loro famiglie, al possesso della terra, e di quel che ci sta sotto, il petrolio, dove, prima di tutto è la diversità delle loro lingue e del loro ambiente di provenienza a definire un rapporto del tutto differente con lo spazio, l’aria e gli elementi, che per Mollie sono qualcosa di naturalmente profondo e ancestrale, come appare durante la loro prima cena insieme. Ernest invitato da Mollie a casa sua, continua inconsapevolmente a parlare mentre fuori infuria una tempesta, finché lei gli chiede di restare ad ascoltare la furia della pioggia in “religioso” silenzio; non è un caso che nel raccordo successivo, li si veda seduti insieme, sui banchi della chiesa durante la funzione di un’altra religione, di nuovo uniti nel silenzio. Tutto Killers of the Flower Moon, del resto, è percorso da questa presenza del sonoro pervasiva, talvolta spaesante, in un dialogo conflittuale con il visuale che produce senso, come avviene, soprattutto, con il ritmo sommesso e potente di tamburi lontani che, come una presenza fantasma, diventano il battito stesso del film e nello stesso tempo il suo “rovescio”, il lato nascosto delle immagini, che appare solo alla fine, quando improvvisamente il film si ribalta, con uno scarto temporale in avanti, su un’”altra” scena: il palco del programma radiofonico “True Crimes”, cornice del racconto degli omicidi della comunità Osage, rappresentato per un pubblico degli anni cinquanta. Di colpo, l’origine del battito sommesso e inquietante dei tamburi, prende un altro senso, rivelando il suo essere sempre stato lì a incalzare – si direbbe – dal lato oscuro dell’inconscio, ogni immagine. In questa chiave Killers of the Flower Moon è un film il cui stesso fluire tende continuamente a biforcarsi, preso nella ricerca oscura di una verità non solo processuale, sospeso lungo lo scarto sempre ambiguo tra ciò che appare e ciò che realmente è in gioco, scisso tra visivo e sonoro, che solo alla fine, possono – insieme alla verità – arrivare a coincidere, attraverso la voce e la stessa mediazione flagrante del regista, Martin Scorsese, che poco prima della fine del film si presenta sul palco della messa in scena per “True Crimes”, per leggere con partecipazione personale e commossa lo scarno necrologio di Mollie, morta a cinquanta anni di diabete nel 1937.
Lavorato lungo le linee profonde del cinema classico americano più legato alla solitudine degli spazi aperti, sulle tracce di Shane e di The Giant di George Stevens, l’anomalia di Killers of the Flower Moon è data dalla stessa presenza della comunità degli Osage che significativamente apre e chiude il film, in chiave simbolica ed esoterica, con due cerimonie rituali che coinvolgono direttamente i loro corpi e obliquamente il cinema, sentito come ultimo spazio (e tempo) infinitamente umano potenziale garante e custode di ogni memoria, compresa questa sulle vicende degli Osage, insieme a loro a rischio di sparizione e di oblio. Scorsese affida agli Osage il compito di portare fin dall’inizio nel film un altro passo, e soprattutto il peso di un altro sguardo, differente, che entra trasversalmente nella cornice abituale della struttura familiare che da sempre interessa al regista, già messa a fuoco in molti film, da Mean Streat, a Goodfellas, a The Age of Innocence, ecc., fino, più di recente, a The Irishman, tutti film che insistono sul nodo stretto tra sottomissione, obbligo e sentimento, presente nei legami di parentela come anche nell’azione criminale. In questo senso la relazione tra Ernest e lo zio Bill Hale (Robert De Niro), che si fa chiamare dal ragazzo “King” e ostenta con gli indiani un falso sentimento di amicizia, non si discosta molto dal registro di gerarchia e dominio, che sosteneva, ad esempio, Goodfellas;l’obbedienza agli ordini impartiti dallo zio, la mancanza di consapevolezza delle proprie azioni e uno stesso stupore incredulo di fronte ai propri stessi crimini, avvicinano molto l’Ernest di DiCaprio al personaggio interpretato in Goodfellas da Ray Liotta, che, a sua volta, come qui Ernest, in altro contesto, per liberarsi, scendeva a patti con i federali. E come già in Goodfellas anche in Killers of the Flower Moon, ci si trova di fronte a un apprendistato, che per Ernest ha inizio tra le pagine di un libro per bambini, che lo zio Bill gli consegna perché si familiarizzi con la comunità Osage, dove nella didascalia di un’illustrazione si legge: “Riesci a vedere i lupi, in questa immagine?”. I “lupi” nel film sono i predatori bianchi, difficili da individuare, nonostante lascino dietro di sé le tracce insanguinate di una sistematica appropriazione della terra, che passa attraverso lo sfruttamento e l’inganno internamente agli stessi legami familiari: le donne degli Osage sono quasi tutte sposate con dei bianchi, che con il matrimonio possono controllare le loro terre, mossi da una rapacità spinta fino all’omicidio. Forse è soltanto fatale che il destino degli Osage sia quello di soccombere, di diventare delle prede, una volta perduti i legami con la propria cultura e il proprio mondo ancestrale, come mostra l’inizio del film, quando la pipa viene seppellita dagli anziani della tribù, che, mentre compiono il rito, lamentano la perdita dei legami più profondi della loro gente, costretta a parlare la lingua dei bianchi e a lasciare le proprie usanze per prenderne altre. Anche l’ultimo film di Lisandro Alonso, Eureka, parla precisamente di questo; nel segmento centrale dei tre che lo compongono, l’unico contemporaneo, girato nella riserva di Pine Ridge del South Dakota, la protagonista è Alaina, una nativa, discendente dei Sioux, ufficiale di polizia, di cui viene documentata la faticosa giornata di lavoro sulle strade innevate e solitarie della riserva, quasi sempre alle prese con emergenze legate all’abuso di droga o di alcol, finché, durante un controllo di routine, Alaina, smette a un certo punto di rispondere al walkie talkie, semplicemente sparisce, e, nonostante le ripetute ricerche, non la si trova più. Anche la sua giovane nipote Sadie, dopo averla aspettata invano tutta la notte, sta a sua volta meditando di scomparire – o forse, invece, di divenire altro, altrove – e per questo cerca l’aiuto del nonno, dopo aver parlato con lui della fine del loro mondo, della tristezza per le tradizioni perdute dalla loro gente, oggi, assimilata e sconfitta. Il senso di malinconia che prevale dolorosamente nel segmento contemporaneo girato nel South Dakota di Eureka è esattamente lo stesso per un mondo irrimediabilmente perduto, che in Killers of the Flower Moon si esprime nel silenzio altero della madre di Mollie, o nella spinta a cercare conforto nell’alcol dell’indifeso Henry, tradito dalla moglie e dai falsi amici, o, ancora, nello stesso velo di tristezza e disincanto sul volto luminoso e composto di Mollie. Anche il film di Scorsese, come quello di Alonso, è misteriosamente attraversato dal volo degli uccelli: un marabù in Eureka, simbolo arcano di un rituale di trasformazione, dei gufi, in Killers of the Flower Moon, come epifanie viventi di una morte prossima, e, insieme, ultimi emblemi di una dimensione ancestrale scomparsa.
Eppure, in Killers of the Flower Moon, ci sono sequenze in cui il circuito degli sguardi funziona nei due sensi – campo e controcampo – tanto che gli ingenui nativi, continuamente osservati, controllati, destinati alla fine ad essere uccisi dai bianchi, per espropriarli delle terre e del denaro, si trovano, comunque, a loro volta a restituire lo sguardo, come fa Mollie durante la festa campestre, quando insieme alle sue sorelle, osservando i bianchi, li chiama ridendo coyote, a dimostrare di avere compreso benissimo chi sono e di non farsi illusioni su quanto cercano davvero da loro. Più avanti nel film, quando si stringe il cerchio delle indagini condotte dai federali e si arriva al processo, l’incalzare del campo e controcampo ritorna, per incarnarsi nella figura di Mollie. Spettatrice silenziosa, ultimo anello di una catena familiare di uccisioni violente e a sua volta vittima inconsapevole di un avvelenamento progressivo perché troppo dentro, troppo vicina a una storia nera che la riguarda per riuscirla davvero a vedere, Mollie rimane l’unica ad avere la forza di poter andare fino in fondo ed è infatti il suo sguardo e la sua coscienza morale a illuminare l’ultima parte del film.
Il tamburo, le mele rosse posate sui feretri, i dischi del sole e della luna, tutti i segni circolari di un tempo ciclico, sacro e nello stesso tempo domestico, che accompagnano la vita e le abitudini degli Osage, incontrano ed entrano in conflitto con le secche linee ortogonali, i segni di potere e gerarchia, che definiscono gli spazi prospettici dove abitano e operano lo zio Bill e gli altri bianchi. Nella sequenza, in cui Ernst viene punito con violenza dallo zio, la stessa somministrazione dei colpi si rispecchia nella dura geometria di un soffitto, a sua volta, soverchiante e basso come nei film di D. W. Griffith, espressione di un codice mafioso e punitivo, già osservato in altri suoi film. Anche nella sequenza della prigione, verso la fine del film, dove si consuma la separazione definitiva tra zio e nipote, dopo la morte prematura e insostenibile della piccola Anna, rinchiusi come lupi, ciascuno nella sua gabbia, a dominare la scena è un incastro di sbarre e di ombre scure, che si sovrappongono le une sulle altre, a comporre un falso spazio prospettico, richiuso in sé stesso, completamente privo di un punto di fuga. Ma ciò che resta nel film di più insondabile, e su cui, quindi, si continua a ritornare, con inquietudine, è il nodo della relazione tra Ernest e Mollie, cui sia DiCaprio, sia, soprattutto Lily Gladstone, portano un proprio contributo di singolare intensità. Già in Certain Women di Kelly Reichardt, Lily Gladstone, una nativa americana, discendente sul versante paterno dal leggendario Corvo Rosso, in quel film in cui interpretava il ruolo di una giovane lavorante in un ranch con una vita di solitudine e di lavoro, colpiva per la concentrazione serena del suo volto e per la particolare densità fisica dei suoi gesti e dei silenzi. Anche In Killers of the Flower Moon, Lily Gladstone/Mollie porta quella stessa forza tranquilla, che forse le proviene dalla sua linea genealogica, facendola entrare all’interno di una coppia legata dall’amore, dai figli, dai soldi, dalla menzogna, senza soluzione di continuità. Sono ancora una volta le potenze del falso, ad attivarsi, nell’opera di Scorsese e all’interno della relazione amorosa tra Ernest e Mollie, ed è precisamente la tangibilità del sentimento d’amore tra loro a sconvolgere di più, nella sua impossibile, eppure reale, coesistenza con l’inganno e con il tentativo prolungato di uccidere Mollie da parte di Ernest. Sono queste le sequenze più visivamente alterate del film, immerse in una luce torbida, rossastra, la luce infernale che proviene dall’incendio del ranch dello zio, che si riverbera nella loro camera da letto, dove Mollie giace senza più forze, per il veleno mescolato all’insulina somministrato da Ernest. E’ come se dentro la loro stanza fossero stati convocati tutti i cieli più infuocati e barocchi del cinema, dai rossi selvaggi di Duello al sole ai tramonti di Via col vento, a circondare con allucinato bagliore il nodo malato di amore e di morte che salda Mollie a Ernest, destinato per questo a perderla. Su questo stesso crinale ambiguo tra verità e allucinazione, Mollie in una sequenza vede, come prima di lei sua madre, il gufo che annuncia la sua prossima fine, e in seguito lo stesso zio Bill, artefice dell’intero disegno criminale, che seduto sul suo letto, le parla in lingua Osage, corpo reale o puro miraggio, non è dato saperlo, ma è puro cinema…
Nell’incertezza tra realtà o allucinazione, ci si trova comunque posti di fronte a una violenta sollecitazione dello sguardo, un tema che nel cinema di Scorsese è da sempre centrale, sottile e ambivalente; già Bruno Roberti in un testo su The Irishman[1] parlava in rapporto a quel film di un vedere senza vedere, dove lo stesso atto del guardare è intriso di colpa. Tuttavia, mentre ogni implicazione relativa allo sguardo in The Irishman era risolta sperimentalmente, traducendolo nella stessa geometria dei movimenti di macchina, enigmatici e luttuosi, che cercavano di agganciare continuamente nella morbidezza dei loro traveling il punto di vista dei morti, se non proprio della morte, con un uso insistito della soggettiva/nobody’s shot, che indugia all’inizio e alla fine del film tra i corridoi della casa di riposo, in Killers of the Flower Moon sono gli occhi incerti dei bambini che all’inizio del film spiano tra le fessure della capanna il rituale della pipa, a diventare il soggetto centrale dell’ultima magnifica sequenza del film, che in questo senso rappresenta una reale restituzione simbolica: una danza tribale contemporanea degli Osage filmata con una ripresa aerea, dove i corpi dei nativi muovendosi in cerchi concentrici intorno al ritmo del tamburo, si fanno sempre più piccoli, fino a formare nel loro insieme, visti dall’alto, il disegno di un’iride balenante, che riempie lo schermo: un occhio, probabilmente[2]… lo sguardo dell’Altro posato su di noi.
[1] Bruno Roberti, “Sotto gli occhi”, in Filmcritica n 699, novembre-dicembre 2019
[2] Prendo in prestito il titolo di un libro di Edoardo Bruno, a me caro, L’occhio, probabilmente…, Manifestolibri, 2017.