Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese
Occhi che videro.
di Bruno Roberti
1. L’occhio sepolto
Oro nero e cuore nero. Sprizza il petrolio dal territorio della tribù degli Osage nell’Oklahoma degli anni 20. I nativi si arricchiscono ma lo sterco del diavolo ne corrode spirito e corpo. Killers of the flowers moon di Scorsese è il lato oscuro della ‘nascita di una nazione’ evocato come dal fondo polveroso delle immagini in bianco e nero che riemergono dalla grana di una visione griffithiana e si colorano di tinte oscure. E’ un melodramma fosco e una epopea intima, una storia d’amore e di odio intrecciati indissolubilmente come le spire di un serpente. E’ un dramma shakespeariano in cui il ‘villain’ ha il volto bifido di un “King” maker, apparente benefattore che parla l’idioma dei nativi con lingua di rettile e che manovra come un burattinaio la marionetta del giovane nipote reduce di guerra. Lo induce a sposare e a ferire a morte lentamente Mollie, l’ultima della famiglia più ricca degli Osage, la vittima sacrificale, il ‘giglio infranto’ che appassisce nell’agonia della luna dei fiori, dopo che l’intera famiglia è stata sterminata per succhiarne la ricchezza. Scorsese, con una crudeltà alla Stroheim osserva la rapacità, ma in un afflato di pietà ci racconta ancora il senso di colpa implicito nel processo di fondazione degli Stati Uniti d’America. E’ un film poetico-politico, un dilemma morale con un epilogo autoriflessivo dal sapore brechtiano. Un ‘tour de force’ virtuosistico e icastico, secco come un colpo di pistola e deflagrante come un incendio visivo.
Scorsese parte dal foro aperto in cima alla capanna sciamanica, come un occhio sul cielo. E’ un rito di commiato dallo sguardo innocente e sacro degli Osage. Un rito di sepoltura, epitome delle sepolture che verranno lungo il lento, implacabile sterminio dei nativi. L’officiante solleva in alto verso il cielo la ‘pipa umana’, “domani la seppelliremo”. Una donna stringe al petto come il corpo di un bambino quella pipa. “I bambini fuori ci ascoltano, vogliono imparare un’altra lingua. Impareranno nuove usanze…”. Dall’esterno gli occhi dei bambini spiano il rito. E’ un occhio, uno sguardo, quello che viene sepolto. E quegli ‘occhi che videro’ vengono come risucchiati dalla terra. Su quella terra si apre un altro foro, un foro oscuro, di nuovo con la forma di un occhio, un occhio che ribolle, tra le crepe del terreno. L’oro nero, la ‘maledizione’ degli Osage erompe sotto la forma ingannevole della benedizione. Sprizza il petrolio e gli Osage saltano come in una danza a ralenti, ma quella danza di giubilo preannuncia la rovina connessa a una apparente fortuna, ed è anche l’espressione di una colpa oscura per aver derogato ai riti sacri, alle radici di una identità. Un altro occhio risucchia gli Osage: quello del cinema. Un cinegiornale racconta la loro improvvisa ricchezza. I nativi fissano l’obiettivo della camera, si mettono in posa: è il cinema ad annunciare al mondo che gli Osage sono “il popolo più ricco del pianeta”. Senza soluzione di continuità dal bianconero del cinegiornale si passa all’interno di un treno, quello che riconduce Ernest Burkhart, il giovane veterano di guerra a Fairfax, Oklahoma. Qui Scorsese comincia a tracciare tanto il ‘crepuscolo’ di una Nazione (quella degli Osage) quanto la ‘nascita’ di un’altra Nazione (gli Stati Uniti d’America) sul sangue di quei nativi.
Ancora una volta Scorsese scava nel senso di colpa che alligna dentro un ‘peccato originale’ dell’America: depredare le terre ‘rosse’ dei nativi, insinuare la corruzione del ‘colore dei soldi’, introdurre il meccanismo spietato del capitalismo. Nelle ‘vene dell’America’ scorre il veleno che corrode come un implacabile male. Un veleno che Scorsese connette anche all’incipiente società dello spettacolo, al dominio dei media che corrode la sacralità dell’immagine, sostituisce rituali reificati alle cadenze cerimoniali delle radici profonde del territorio da secoli abitato dai popoli nativi. La ricorrenza nel film del dispositivo fotografico cui gli Osage si offrono inermi è indicativa. Scorsese imprime nelle immagini un’atmosfera polifonica, intrecciando gli sguardi, accendendo di visionarietà le agonie delle vittime Osage che, una per volta, cadono nella rete omicida tesa dall’avidità, dalla smania di dominio, dalla sete di denaro di William “King” Hale, cui De Niro conferisce sia una freddezza perfida, sia una melliflua ambiguità, una bifida lingua di serpente, manovrando e tramando una sorta di maleficio che si addensa sul destino degli Osage. Così come quasi uno stato di cieca ipnosi traligna negli ‘occhi ciechi’, nel ghigno del volto ottuso di Leonardo di Caprio che incarna la sottomessa e cupa indole del reduce Ernest Burkhart. Le ‘catene della colpa’ si ripercuotono nelle cadenze di una dostoevskijana dissipazione che si allunga via via come un’ombra malefica sullo snodarsi implacabile del progetto di sterminio, di sradicamento di un intero popolo. Scorsese ‘gioca’ gli spazi divaricandoli e imbricandoli in un montaggio che si distende da un lato in piani-sequenza avvolgenti e si rinserra dall’altro negli interni filmati come bui anfratti che avviluppano e trafiggono, e si accendono di riverberi infuocati. Una strepitosa Lily Gladstone si offre al personaggio di Mollie Kyle, vittima predestinata, pedina sempre più consapevole della sporca partita che si disputa sul suo corpo malato e stringe come in una morsa la sua anima. La sua resistenza si rivela e disegna nel volto racchiuso in un mistero potente e dolce, in una pertinace potenza oppositiva. Il progressivo rovesciamento, la revulsione della trama omicida assumono nell’epilogo dell’indagine da parte della nascente FBI e nel serrato racconto processuale, un allucinatorio ripercuotersi visivo-sonoro che prolunga l’ossessivo tambureggiare sciamanico o il serpeggiante, indiavolato blues di Robbie Robertson. Così il ‘teatro sonoro’ del prefinale ci appare come una cifra ambivalente in cui lo stesso Scorsese, con il suo ‘occhio sonoro’, si mette in gioco, salvo a lasciare il campo alla reviviscenza della ritualità, del ‘fondo sacrale’ che pertiene agli Osage e che assume, in una lancinante visione dall’alto, la circolare, orbitale, ‘forma dell’occhio’ che pervade il film.