JOURNEY TO THE WEST
64 Berlinale :
JOURNEY TO THE WEST di Tsai Ming Liang
Lontana lentezza
MASSIMO CAUSO
Seminare passi, raccogliere tempo. Le distanze si annullano nel succedersi degli scenari in cui si porta la lontana lentezza del monaco buddhista impersonato da Lee Kang Sheng per il progetto “Walker” di Tsai Ming Liang. Lo “spettro” avvolto nel drappo arancio, che incede a passo quasi statico, smargina dal leggendario attraversamento asiatico di un monaco del VII secolo, mentre il corpo di Lee Kang Sheng resta immanente nella sua fisicità, forma piena di una persistenza del pensiero nella collusione di figure e spazi offerta dai luoghi urbani che attraversa.
Journey to the West (presentato nella sezione Panorama della Berlinale 64) è lo step numero sei del progetto, preceduto dai quattro corti No Form, Walker, Diamond Sutra e Sleepwalk e considerata anche l’apparizione del monaco nella pièce di Tsai Ming Liang “Only You” del 2011. Questo viaggio occidentale è un approdo a Marsiglia, l’escursione forse più materica del monaco, l’intrusione più flagrante nello spazio contaminato di una città umorale e trasversale come poche al mondo. In Journey to the West viene meno l’illusione di uno spazio mentale che promana dal corpo del monaco, quella definizione astratta della prospettiva che incrociava la pulsione vitale della strada. Qui l’imprinting è fornito dall’illusione ottica del profilo roccioso di una scogliera che ricorda il volto di un monaco, sulla quale Tsai Ming Liang fa camminare Lee Kang Sheng, opponendogli poi il profilo della sua ideale controfigura occidentale, Denis Lavant.
Trompe l’oeil materico di una visione che si fa di volta in volta più assoluta: Tsai Ming Liang nutre una percezione esistenziale del tempo, lo traduce in una forma che dilata lo spazio sino a trasformarlo in materia di pensiero. La contaminazione tra la figura astratta del monaco e il pulsare della vita reale, in cui si muove come icona statica della velocità circostante, diviene qui ancor più fondativa, perché intreccia la performance tutt’altro che astratta, ma eminentemente fisica di Lavant, che di certo non è un corpo/pensiero come Lee Kang Sheng.
Marsiglia aderisce al vissuto visivo del progetto in maniera differente dagli scenari metropolitani precedenti, interagendo a distanza con la tensione temporale del corpo del monaco: gli anziani sulle seggiole del bar assistono al suo passaggio infinito indifferenti, ma anche afferenti, in una sorta di coreutica illusione temporale scenografica, sulla quale inciampa il transito, chiaramente spaziale, di Denis Lavant.
Journey To the West insiste sull’orizzontalità del percorso del monaco, sulla quale si è orientato l’intero progetto (anche quando in Diamond Sutra si è spinto nella diafana profondità di uno spazio astratto). Campi fissi, concentrati sull’osservazione della figura e degli spazi, senza mai incedere nella contemplazione, semmai concedendosi il tempo di una verticalizzazione ideale nella lunga e straordinaria sequenza della scalinata. Qui il monaco discende i gradini incedendo dalla luce all’ombra: un susseguirsi di tempi contrapposti, tra la lentezza del monaco e il transito incessante dei passanti, che interagiscono con la scena fermandosi a osservare, evitando di intralciare il campo visivo della macchina da presa, commentando, mentre il tempo traccia la sua traiettoria solare, smarginando i riflessi sulla lente, avvolgendo l’arancio del monaco. Solo qui Tsai Ming Liang si concede la pulsione di un impercettibile movimento di macchina, una lieve panoramica in basso, a seguire i passi del monaco: attrazione di movimenti che si disperdono nella durata del tempo. Lasciando infine la chiusura all’inversione dell’immagine riflessa tra il selciato e il soffitto a specchio di una pensilina: un campo lungo in cui le figure sono come granelli di un caleidoscopio e il monaco un frammento in dispersione.
Il chiasma ottico di una camera oscura/chiara, in cui il buio si inverte fatalmente nella luce…