JLG: di certi corti e di altre tristezze
di Sergio Arecco
Godard: Pourquoi le réalizateur de ton film c’est
l’unique dans la troupe qui ne baise jamais?
Truffaut: Selon moi tu te conduis comme une merde.
(a proposito di Effetto notte, 1973)
Présentation ou Charlotte et son steak (Eric Rohmer, 1950-1951, 12’)
È il primo marivaudage di Eric Rohmer, e come tale va segnalato. Ma Charlotte et son steak (b/n, 16 mm) è anche la prima prova di apprendistato di un Rohmer trentenne in veste di regista e di un Godard ventenne in veste di attore. Al che, la segnalazione diventa, come suona il titolo, allusivo all’abbinamento del corto rohmeriano al corto godardiano Charlotte et Véronique ou “Tous les garçons s’appellent Patrick” (1957), una presentazione. Presentazione di un modo di fare e concepire il cinema – diretto, non letterario, improvvisato – che solo tra alcuni anni si chiamerà Nouvelle Vague e solo tra due o tre anni troverà la sua prima codificazione sulle pagine dei “Cahiers du Cinéma”. Présentation ou Charlotte et son steak è circondato da un’aura talmente remota che la distribuzione si preoccupa di informare, con un cartello iniziale, che della pellicola non si conoscono i nomi del regista e degli interpreti, né la data esatta di lavorazione, e che se ne deve l’attuale disponibilità alla doppia gentilezza dei signori Rohmer e Godard. Dopodiché compare, in basso a sinistra, una piccolissima didascalia narrativa: “Charlotte non aveva ancora fatto a tempo a lasciare la Svizzera natia. Per cui Walter poté presentarle l’amica Clara, allo scopo di farla ingelosire”. Siamo già, prima ancora che cominci il film, in pieno rohmerismo. Nella realtà non è Charlotte (Anne Couderet) a non essere ancora riuscita a lasciare la Svizzera natia, bensì Jean-Luc, che gli amici chiamano, citando un titolo di uno dei maggiori autori svizzeri del primo Novecento, Carl-Ferdinand Ramuz, “Jean-Luc il perseguitato”, perché lui dice di sentirsi tale, con quel narcisismo vittimistico che non lo abbandonerà più. Ma è così facile, per uno specialista di giochi di società come Rohmer, cambiare le carte in tavola e attribuire a Charlotte la sindrome di Jean-Luc… Ed è solo il primo dei rohmerismi. Il secondo arriva poco dopo, quando vediamo scarpinare in mezzo alla neve – siamo a Nyon, durante le vacanze invernali, nella zona degli chalet e delle baite – la comune amica Clara (Andrée Bertrand). La quale, malgrado le avance esplicite di Walter, provvede subito a defilarsi, annunciando a lui e a Charlotte di dover andare di fretta. Un veto che mette in imbarazzo Walter, e lo fa tentennare irresoluto in mezzo al sentiero innevato: chi seguire? Clara o Charlotte? Sembra Barbet Schroeder disorientato in mezzo a rue Lebouteux, a Parigi, incerto se incontrare la fornaia o corteggiare Sylvie, in La fornaia di Monceau (1963, primo dei Racconti morali). O Patrick Bauchau, in auto lungo la strada per Saint-Tropez, incerto se aspettare Haydée o non aspettarla, in La collezionista (1967, quarto dei Racconti morali). Il terzo rohmerismo? Si rivela a partire dal momento in cui Walter sceglie Charlotte e la segue contro la sua volontà fino alla baita dove lei alloggia: a costo di dover riconoscere, rimanendo sulla soglia con il cappotto addosso e la malinconia del perseguitato, che anche Charlotte va di fretta, essendo rientrata solo per farsi un caffè – tanto che rimane anche lei con il cappotto addosso. Sennonché, già per il fatto che il fenomeno acquista sostanza occupando tutto il resto del corto, diventa difficile parlare di rohmerismo generico. Si tratta di qualcosa di più: di una pratica autoriale che inizia pian piano a definirsi a livello di gestione degli attori e degli spazi in cui essi agiscono, di struttura dialogica e di taglio del montaggio: insomma, è già quel work in progress che sfocerà nell’assunzione critica del marivaudage riveduto e corretto in salsa modernista. Per ora è appena una sottolineatura della contraddizione in termini e non ancora della contraddizione in sé come formula dell’esistere (in società), ma è pur sempre qualcosa, e non è cosa di poco conto nell’economia, pur ridotta, del cortometraggio. Due esempi (anche se sono di più). 1. Charlotte ha appena comunicato di volersi fare un caffè e Walter le ha appena fatto sapere di non volerlo bere, e pochi secondi dopo ecco Charlotte cuocersi una bistecca e offrirne un pezzetto a Walter che l’accetta, pur continuando a restare in piedi sullo zerbino. 2. Charlotte intende disilludere Walter circa le avance verbali che ora lui tenta nei confronti di lei, dopo che, in mezzo alla neve, le ha tentate nei confronti di Clara (le assicura di amarla più di Clara, anche se è meno bella); tuttavia – dopo che Charlotte e Walter (contraddizione dentro la contraddizione), hanno convenuto di non avere molta fame e hanno nondimeno consumato la bistecca in un lampo, eccoli inopinatamente uno tra le braccia dell’altro. Charlotte si è impietosita vedendo Walter infreddolito e triste. Walter ne ha subito approfittato affermando che vorrebbe morire al solo scopo di vederla in lacrime per lui. Fino a che, passato l’attimo di vicendevole cedimento, non lasciano speditamente la baita e si avventurano di nuovo in mezzo alla neve. Lei prende il trenino in partenza da Nyon, lui prosegue verso lo chalet di Clara. Fine? Non proprio, almeno per i sottintesi che serpeggiano nel brevissimo, pungente saggio di regia. Walter, prima di baciarla, sostiene che il nome Charlotte è troppo all’antica (mentre il nome Clara è troppo pretenzioso). Ebbene, il nome Walter ricorda troppo – semiseriamente, sempre in chiave di gioco di società – il nome Werther per non mancare di richiamare il dettaglio che l’amata di Werther si chiamava Lotte. Che Lotte viveva isolata, in una fredda campagna, e che il giovane Werther si uccise proprio perché Lotte, promessa a un altro, si accorgesse di lui.
Charlotte et Véronique ou Tous les garçons s’appellent Patrick (Jean-Luc Godard, 1957, 21’)
“Il cinema francese sta morendo sotto il peso delle false leggende”. Sulla finta prima pagina di “Arts”, dietro le cui ragguardevoli dimensioni si nasconde l’avventore di un bar del Quartiere Latino, leggiamo la prima citazione oracolare di tutto il cinema di Jean-Luc Godard. Il quale, appena al suo terzo corto, Charlotte et Véronique ou Tous les garçons s’appellent Patrick (b/n, 35 mm), cede già alla smania citazionista (copertine di giornali, libri, titoli ad hoc, riproduzioni di quadri, passi letterari, passi cinematografici, sedimenti della cultura e insieme del cinema, il tutto in un accumulo più o meno disparato ed eteroclito) che l’accompagnerà, proliferando di film in film, lungo l’intera sua filmografia. Meno male che l’avventore di un altro bar, nella sequenza successiva, più anziano e facente funzione di pendant, si esibirà esponendo “Mickey”, con un Donald Duck a rotta di collo in copertina. Sennonché la smania godardiana ha già provveduto a evidenziare tra le mani di Charlotte (di cui abbiamo già fatto la conoscenza in Charlotte et son steak di Rohmer, con Godard attore protagonista), bionda con capelli corti e frangetta, compagna di stanza di Véronique, castana con capelli lunghi ondulati – senza quasi darle il tempo di presentarsi e presentare, dialogando con Véronique, lo zeitgeist dell’ambiente studentesco parigino della fine anni Cinquanta del secolo scorso –, addirittura l’Estetica di Hegel (in un libricino tanto smilzo da suggerire allo spettatore attento che si tratta di mera copertina allusiva e non di libro vero, come sovente accadrà in Godard). Charlotte, in realtà, non studia nemmeno filosofia, studia matematica, così come Véronique studia legge, per cui l’Estetica di Hegel è solo un ballon d’essai, uno dei tanti disseminati da Godard per sperimentare la tenuta dei suoi primi personaggi e delle sue prime situazioni narrative. Al punto che il ballon d’essai più corposo del film non sarà un titolo quanto un personaggio tout court, il Patrick del sottotitolo, quel Jean-Claude Brialy che, bello e brillante (nonché nella realtà gay, anche se è un segreto), sta suggellando con la propria presenza non pochi film della prima Nouvelle Vague imprimendovi se stesso come un marchio di fabbrica, di indiscutibile autenticità. Perché tutti i ragazzi si chiamano Patrick. Perché, nella sequenza con sfondo “Arts”, Patrick siede al bar con Charlotte – l’ha appena rimorchiata al Luxembourg dove si erano date appuntamento, tra le quattordici e la quindici, lei e Véronique (Charlotte, però, per riscattarsi, sta leggendo un thriller in inglese) – e la sta seducendo con un repertorio di galanterie e bon mot che la incantano fino a strapparle un bacio e un appuntamento (al cinema) per l’indomani sera. E perché, nella sequenza con sfondo “Mickey”, Patrick siede a un bar affine con Véronique – l’ha appena rimorchiata all’uscita dal Luxembourg dopo che lei ha atteso inutilmente Charlotte, essendo giunta troppo tardi all’appuntamento – e la sta seducendo con un repertorio di galanterie e bon mot che la incantano fino a strapparle un bacio e un appuntamento (al cinema) per il dopodomani sera… Per la verità non tutti gli stereotipi verbali di Patrick coincidono: a Charlotte dice di studiare legge e a Véronique di studiare ingegneria, a Charlotte racconta la storia dell’adozione del nome Mercedes per la fabbrica automobilistica tedesca e a Véronique quella della ‘forestazione’ di Parigi grazie a Enrico IV. Tuttavia commette l’imprudenza di dire a entrambe il proprio nome, Patrick, per cui, quando le due amiche, una volta in camera, si scambieranno, tra pari dinieghi tattici e pari reticenze cautelative, le impressioni dell’esperienza sentimentale del pomeriggio, si meraviglieranno sì dell’omonimia (“Tutti i ragazzi si chiamano Patrick”) ma non al punto da identificare nell’amato la stessa persona, tanto è stato bravo Patrick a snocciolare a ciascuna, tra i tanti luoghi comuni della sua conversazione, bugie differenti. Il fatto è che Patrick è un rimorchiatore di professione. E il giorno dopo, nascoste dietro il chiosco dei giornali con le cartoline di Matisse, Charlotte e Véronique lo rivedranno non viste alle prese con una terza conquista; per cui si allontaneranno senza darsi troppa pena e decideranno di andare al cinema solo loro due, insieme. È la prima e unica volta, per Godard, che si può veramente parlare di personaggi e situazioni narrative; non a caso, è la prima e unica volta che Godard si affida a un soggetto e a una sceneggiatura altrui, nello specifico di Eric Rohmer, con il quale ha già girato, nel 1950-1951, l’antefatto di Charlotte et Véronique, ossia Charlotte et son steak. Un Rohmer che già intesse, per Charlotte et Véronique, uno di quei proverbiali marivaudage sui giochi dell’amore e del caso o sulle false coincidenze che saranno la linfa del suo cinema a venire. I corti successivi di Godard, Charlotte et son Jules e Une histoire d’eau, saranno il primo solo una barzelletta e il secondo solo un compendio di gag. Dopodiché, con Fino all’ultimo respiro, Godard inizierà quell’opera di smantellamento sistematico della forma cinematografica tradizionale che farà di lui il grande agit-prop del cinema moderno. Dimostrando di aver saputo (eventualmente) raccontare (o recitare) solo con un copione altrui come canovaccio. In caso contrario – e si tratterà sempre di casi contrari – il suo raccontare non potrà più dirsi tale, e non sarà altro che il racconto della decostruzione e dissoluzione di ogni possibile racconto.
Un’histoire d’eau (Jean-Luc Godard e François Truffaut, 1958, 18’)
“Quando si vede un documentario e si è, come me, un cinéphile un po’ drogato o, meglio, più un cinémane che un cinéphile, ci si dice: queste montagne, questi deserti, questi oleodotti, andrebbero bene con due personaggi che s’inseguono. […] È per questo, credo, che i cinéphile non amano i documentari”. E bisogna proprio essere un cinémane che odia i documentari e che ama le storie d’amore anche minime per approfittare, come fa François Truffaut, dell’inondazione che colpisce la banlieue parigina nella primavera del 1958 per proporre a Pierre Braunberger, gran patron della Nouvelle Vague e non solo (per esempio del secondo Jean Renoir ‘francese’ e del Jean Rouch ‘africano’, tra gli altri), quanto segue: farsi prestare da Claude Chabrol (ricco della ricchezza della moglie) un’auto come si deve e dallo stesso Braunberger un 600 metri di pellicola, onde effettuare un sopralluogo a margine delle zone allagate, con al seguito una troupe esigua e una coppia di amici attori, i giovanissimi Jean-Claude Brialy e Caroline Dim (solo Brialy, già fin d’ora primo amoroso del nuovo cinema francese, si affermerà), disposti a recitare sul posto, improvvisando le battute o quantomeno la mimica delle battute, una sorta di flirt liquido. Vorrà dire che la scenografia delle montagne o dei deserti o degli oleodotti farà posto alla scenografia di case di campagna semisommerse dallo straripamento della Senna in località Villeneuve-St-Georges: imbarcazioni in transito tra un casale e l’altro, biciclette sguazzanti nella melma a mo’ di mezzo di trasporto alternativo, alluvionati sui tetti reclamanti aiuto, campi ridotti a risaie, argini fangosi tra un acquitrino e l’altro, filari di alberi spogli a far da filo conduttore alla geometria invariabile dei greti travolti dalla piena. Con, al centro dell’alquanto fortunosa Un’histoire d’eau (b/n, 16 mm), una Caroline che, per onorare malgrado tutto – controfigura autobiografica del Truffaut malgrado tutto – l’appuntamento sentimentale con Jean-Claude, s’ingegna di uscir di casa con ogni mezzo, dai ponteggi sospesi sull’acqua alle barchette di fortuna che manovra in prima persona, anche a costo di sostituire le graziose scarpine con il tacco a punta con grossolani stivali da pescatore. Il suo obiettivo irrinunciabile è l’auto di un Jean-Claude che la sta aspettando come se niente fosse, con un completo elegante e un’impermeabile Barbour (Caroline non gli è da meno, con il suo cappotto nero sicuramente firmato) sul primo banco asciutto raggiungibile – controfigura autobiografica del Truffaut sciacallo a spese dell’emergenza pur di fare cinema, magari omaggiando tra le righe L’inondation di Louis Delluc (1924, nella fattispecie del Rodano). Dopodiché Caroline si sfila gli stivali, troppo ingombranti per un idillio amoroso, reindossa le scarpine con il tacco a punta e prende posto al fianco di Jean-Claude, ignorando del tutto le circostanze della calamità in corso e attaccando a discorrere come se niente fosse sull’argomento che, sul momento, più le sta a cuore: la poesia del Petrarca. Le conseguenze? Quando l’auto s’impantana, lei lascia a lui il compito di sbrigarsela, impossibilitata com’è a calarsi nella pozzanghera. E quando l’auto raggiunge finalmente un sito più o meno all’asciutto, sotto un albero scampato al naufragio, lei si fa prendere in braccio da lui, per poter poi sgambettare fino al giaciglio sul quale i due si abbandoneranno a effusioni e magari a battibecchi. Jean-Claude, infatti, sposta il perno del discorso dalla cultura letteraria alla cultura storica, e introduce un argomento che a Caroline è estraneo, per non dire alieno: la congiura ordita dal principe russo Jusupov per assassinare Rasputin, il dissoluto consigliere dello zar (1916). Con tanto d’occhi per Caroline e tanto di gigioneria per Jean-Claude! Il quale, a fine lezione, si rialza per primo, scorta Caroline fino all’auto, dopo averla ripresa in braccio per farle scavalcare un rigagnolo, e lascia allibito l’uomo seminudo in cerca di soccorso sul tetto di un casolare semisommerso, mandandolo praticamente a quel paese. Non c’è tempo per la coppia troppo occupata, dalla propria histoire d’eau e dall’obiettivo autentico della corsa in macchina fuori luogo (in tutti i sensi): Parigi, percepita sì da lontano, da un parapetto sulla Senna in piena, ma con vista Tour Eiffel – poca prima hanno accennato qualche passo di danza alla La La Land ante litteram. Al che, lo spettatore si chiederà: ma Jean-Claude e Caroline s’intrattengono veramente su Petrarca, su Jusupov-Rasputin e quant’altro (non mancano né Hölderlin né Balzac né Baudelaire né Chandler né Matisse)? Ma no! Non appena Truffaut ha in mano i 600 metri di girato, torna – giustappunto – a Parigi, da Braunberger, per confessargli di aver velleitariamente sprecato la pellicola ottenuta in prestito: la troupe ‘drogata’ a fare irrispettosamente cinema sugli argini, mentre la popolazione colpita si adoperava a fronteggiare il disastro! Sennonché l’ineffabile Jean-Luc Godard vede ilgirato e, amando, lui sì, il documentario, trova il soggetto interessante. Tanto che si fa portare sul posto per girare dall’alto di un elicottero alcune inquadrature dell’esondazione (giusto in tempo, poiché le acque si vanno ritirando) e rimonta l’intero materiale applicandovi un commento fuori campo che, già godardiamente, sonorizza il dialogo muto di Jean-Claude e Caroline interpolandovi una quantità di echi dotti, da Baudelaire a Balzac… e da Petrarca a Jusupov-Rasputin… È colpa sua se il villico issato sul tetto viene mandato a quel paese da Jean-Claude, avendo montato e giustapposto proprio lui i richiami d’allarme del vecchio con il diniego beffardo del giovane – una delle tante gag, in omaggio, come stiamo per scoprire, a Mack Sennett. Ed è sempre sua la voce che soppianta i titoli di coda e legge, come su uno spartito, parodiando il Welles di L’orgoglio degli Amberson: “Sappiate che è un film di François Truffaut e di Jean-Luc Godard. Michel Latouche ha curato la fotografia. Roger Fleytoux ha diretto la produzione a nome di Pierre Braunberger, in omaggio a Mack Sennett, per Les Films de la Pléiade”. Del resto Godard, che tra un paio d’anni si servirà del librettista Truffaut per lo spartito di Fino all’ultimo respiro (1960), non si dimenticherà tanto presto delle marcite di Une histoire d’eau, e farà della banlieue tutta fanghiglia della Parigi di Bande à part (1964) il palcoscenico da contrapporre idealmente alle mille luci di una “Capitale de la douleur” più suburbana che urbana, malgrado le affollate strade del centro e il Louvre.
Les fiancés du pont Mac Donald (Agnès Varda, 1961, 5’)
Un burlesque, considerata la forte risonanza (secondo il lessico di Northrop Frye) impressavi dal muto americano, più alla Harold Lloyd, per via del completo chiaro con paglietta indossato dal protagonista, o alla Buster Keaton, per via dei grandi occhi offuscati dagli stranianti occhiali scuri, che alla Mack Sennett: ovvero una slapstick comedy senza un vero e proprio slapstick. E chi può essere, nei primi anni Sessanta, il protagonista? Il collega disposto a prestarsi al gioco cinefilo, o al gioco-clownerie, di una carissima amica (lo ha già fatto esattamente dieci anni prima per un carissimo amico, l’Eric Rohmer principiante di Présentation ou Charlkotte et son steak), vale a dire l’Agnès Varda di Cléo dalle 5 alle 7, intenzionata ad alleggerire il clima a tratti troppo teso del suo capolavoro con la proiezione extradiegetica di una comica a passo uno? Jean-Luc Godard, naturalmente, Jean-Luc in persona. E chi può essere la sua fidanzata dello schermo se non la sua vera fidanzata del momento, Anna Karina? E come non travestire – pensa Agnès – Anna Karina da fidanzata-tipo del teatro boulevardier primo Novecento, con ricciolini biondi e crinoline? Detto fatto. Nasce da tali premesse un corto del tutto autonomo, Les fiancés du pont Mac Donald (b/n, 16 mm gonfiato a 35), il quarto della cineasta-fotografa, che solo a per esigenze strategiche s’insedia nel contesto di Cléo – e che tuttavia circolerà in seguito con le proprie gambe, extracontestualmente, come la più esilarante testimonianza di una Nouvelle Vague che sa essere, quando si dà il caso, anche ilare e ludica di suo. Occhiali scuri, certo. Perché Les fiancés du pont Mac Donald (un ponte parigino del XIX arrondissement, sul Canal Saint-Denis, in pieno centro) vanta un sottotitolo che parla chiaro: (ou Méfiez-vous des lunettes noires). Con un altrettanto chiaro riferimento al vezzo snob di Jean-Luc di calzare in perpetuum occhiali scuri dietro i quali nascondere l’usuale corruccio da intellettuale scostante, per non dire l’usuale misantropia. Dopodiché Agnès, che comunque gli vuole un gran bene e che è la persona più adatta a sconfiggerne l’ostica impenetrabilità, riesce a fargli recitare la pochade del fidanzato-tipo, il quale, dopo aver baciato Anna sul ponte Mac Donald con il sorriso regolamentare e averla salutata con amoroso slancio mentre lei scende le scale per avviarsi lungo il quai, inforca serioso gli occhiali scuri non meno regolamentari e, metafilmicamente – ecco il divertissement Varda –, non può che vedere, alla lettera, ‘tutto nero’: Anna che inciampa, lungo il quai, nell’irrigatore impugnato da Eddie Constantine e rimane tramortita dal getto al punto da sembrare morta; e Anna che, prelevata un attimo dopo dal costernato necroforo Sammy [sic!] Frey, viene caricata su un carro funebre guidato da Georges de Beauregard con una velocità tale da rendere vano ogni inseguimento. Per cui, non resta, a Jean-Luc, che acquistare una corona mortuaria (“À ma poupée d’amour”) dalla fiorista Danielle Delorme, parimenti costernata, e un fazzoletto asciugalacrime dal contiguo venditore ambulante di tovaglioli e fazzoletti Yves Robert. Sennonché, come asciugare le lacrime senza togliersi gli occhiali scuri? Ed ecco manifestarsi la sospirata epifania – «Ora capisco perché vedevo tutto nero. Per forza! Portavo lenti così scure!» –, e Anna riapparirgli biancovestita come l’ha lasciata, ridiscendere le scale come nuova, reinciampare nell’irrigatore ora maneggiato da Alan Scott (un marinaio alla Jacques Demy, il Jacquot tanto amato da Agnès) ma senza subire gravi conseguenze. Non è infatti un carro funebre a presentarsi all’istante sul posto, bensì un’ambulanza con il sollecito infermiere Jean-Claude Brialy, pronto a farsi un quattro per rianimare Anne. Ahilui! Il sopraggiungente Jean-Luc è troppo euforizzato dal lieto fine per non spintonare brutalmente Alan fino a farlo precipitare addosso a Jean-Claude – il quale ne fa, all’istante, tragicamente le spese: nel senso che la corona mortuaria con la dicitura “À ma poupée d’amour” finisce per seppellire sadicamente e ironicamente (Jean-Claude Brialy è, a detta di tutti, un impenitente gay) proprio lui. Mentre Jean-Luc e Anna possono invece felicemente ricongiungersi e ribaciarsi sul pont Mac Donald, anche se non prima dell’atto riparatore compiuto dal ravveduto Jean-Luc: il lancio liberatorio degli occhiali scuri gettati tra le acque della Senna. Per quale ragione tornare a raccontare un episodio legato alla prima Varda? Per una ragione molto semplice. L’ultima Varda, quella con il caschetto di capelli che da nero – come lo vediamo al naturale, per esempio, in Uncle Yanco, nel formidabile corto a colori, 18’, del 1967, sulla cui scia Agnès rintraccia uno “zio d’America” anarchico e pittore sui generis, padrone di uno di quei barconi che costellano Sausalito, laguna di San Francisco, e che fanno da abitazione e insieme da atelier a chi, come lui, è un esule in fuga dalla Grecia dei Colonnelli, approdato lì in nome della libertà dell’artista, tanto libero da improvvisare su un quadrato magico l’albero genealogico di famiglia, in origine famiglia Vardas, stante la matrice greca – è diventato artisticamente bicolore, bianco al centro e rossiccio ai margini, riesuma Les fiancés du pont Mac Donald giusto alla fine del bizzarro viaggio attraverso la Francia profonda raccontato nel lungo Visages Villages (2017). Quando, sistemata su un treno diretto a Rolles, il rifugio svizzero di Jean-Luc Godard, mostra sullo schermo del computer al suo non meno occhialuto (lenti scure mai dismesse per tutto il film) compagno di viaggio JR – il noto street artist che l’accompagna per l’intera pellicola in qualità di fotografo ed espositore di gigantografie, da Bonnieux alla Normandia, da Pirou a Le Havre, fino all’escursione a Rolle – alcuni spezzoni di Les fiancés du pont Mac Donald, a titolo di anticipazione del Godard con il quale ha fissato un appuntamento. E, ahimè, del Godard che, con suo grande rammarico (Agnès piange per la delusione), le si riconferma lo scostante e il misantropo che è sempre stato: colui che, alla fin fine, non si fa trovare nella casa di Rolle (o non apre la porta) e le lascia scritto, affisso all’ingresso, un messaggio in codice, da iniziati della Nouvelle Vague quali sono entrambi: “In ricordo di Douarnenez, du coté de la côte”. Dove, con Douarnenez, si allude al nome del locale di Montparnasse in cui i due erano soliti ritrovarsi ai bei tempi, fine anni Cinquanta-primi anni Sessanta, con gli altri affiliati del gruppo. E dove con Du coté de la côte si evoca il titolo del primo documentario di Agnès (colore, 24’, 1958), girato lungo la riviera francese, a Eden Roc. Ma dove, per chi c’è stato come Godard e Varda e tanti altri, compreso lo scrivente, Douarnenez è anche il porto bretone sul cui canale principale è sito l’alberghetto in cui Édith Piaf conduceva con sé i propri amanti, in cerca di segretezza e tranquillità. Le stesse che, forse, il Jean-Luc quasi novantenne rivendica presso l’Agnès novantenne a tutti gli effetti. Sapendola aggregata a un JR perennemente protetto da occhiali scuri nella cui resilienza riconosce la propria di un tempo: un alter ego giovane che preferisce non incontrare per non incontrare un se stesso che non è più. Ebbene. Onde giustificare a suo modo l’assenza di JL, JR accetta, benevolo, l’invito di Agnes: togliteli quegli occhiali, fammi vedere finalmente i tuoi occhi. In altre parole JR, seduto con lei su una panchina con vista sul lago Lemano, esegue. Senza immaginare che Agnès, in sede di montaggio, gli tirerà l’ultimo tiro – dopo i tanti tirati a lei dall’eccentrico partner nel corso della loro ricognizione-reinvenzione cinematografica. Così come, in conformità con il suo carattere anarchico, lei lo tirerà a noi: sfumando cioè lo sguardo di JR e impedendoci di vederne distintamente i grandi occhi ‘alla Godard’.
Camera eye (episodio di Lontano dal Vietnam, 1967, 11’)
L’episodio ‘firmato’ da Jean-Luc Godard, Camera eye (colore, 35 mm) come contributo personale alla mobilitazione collettiva – difficile chiamare film il film, se mai manifesto militante, atto d’intervento politico in atto, esperienza agit-prop di matrice francese (esente dalla connotazione negativa che il francese assegnerebbe al termine russo, tanto che il Godard sessantottino produrrà in quegli anni molte altre esperienze agit-prop) denominata Lontano dal Vietnam, è l’unico davvero ‘firmato’. Firmato non tanto in sé (anche se non è poco), quanto dalla presenza soverchiante del regista-interprete di se stesso, il quale, al riparo o a latere di un’enorme Mitchell 35 mm, dichiara schizofrenicamente la propria sostanziale inettitudine a girare il film sul Vietnam che gli è stato commissionato, proprio quel ‘film’ che autori ideologicamente coinvolti come Chris Marker, Alain Resnais, William Klein, Agnès Varda, Joris Ivens, Claude Lelouch, assistiti da ben centocinquanta tecnici dei collettivi militanti nati a Parigi con gli Stati Generali del Cinema, hanno deciso di allestire a sostegno della lotta dei vietnamiti contro l’imperialismo americano. Dietro quella Mitchell-totem, tanto massicciamente ingombrante, camera eye occlusiva dell’intero campo visivo, Godard preferisce in qualche modo nascondersi, dichiararsi (in un monologo lungo quanto l’episodio) alla sua maniera, compiaciuta e autoindulgente. “Se fossi un cameraman della televisione francese, o della Abc o della televisione sovietica, avrei tutte le ragioni e le competenze per andare in Vietnam e realizzare un reportage, ma io sono un cineasta francese, vivo a Parigi, e posso solo realizzare quello che sto realizzando, un lontano dal Vietnam. Diciotto mesi fa ho persino fatto domanda al governo di Hanoi per visitare il Vietnam, ma le autorità vietnamite non hanno evidentemente ritenuto idonea la mia richiesta. Forse non davo abbastanza affidamento…”. Da qui il primo inserto di repertorio, a colori, riguardante proprio una scolaresca vietnamita seduta sui banchi e ubbidiente agli insegnamenti della maestra in cattedra. Dopodiché Godard riprende l’autoconfessione in camera eye. “Così, dal momento che non mi è stato permesso di recarmi in Vietnam, mi sono permesso di portare io il Vietnam qui da me, mettendo il Vietnam in ogni mio film” – esempio: un breve inserto di La cinese (1967) con Jean-Pierre Léaud e Anne Wiazemsky in pieno dibattito politico. A seguito del quale riprende l’autoconfessione di Godard o, meglio, l’autocritica. “La mia condizione di intellettuale fa sì che io viva separato dalla realtà bruciante delle lotte in corso, tanto in Vietnam” – esempio: il secondo inserto a colori di repertorio, con le trincee-labirinto del fronte vietnamita, invase da decine e decine di contadine in fuga verso il rifugio che le proteggerà dall’imminente incursione aerea americana – “quanto in Francia” – esempio: inserto, in b/n, sugli scioperi degli operai della Rhodiaceta, con gruppi di dimostranti ripresi mentre presidiano la fabbrica occupata o mentre sfilano durante una manifestazione (primavera 1967). “La mia unica possibilità è creare, come diceva Che Guevara, due, tre, mille Vietnam con la mia mdp, facendo entrare il Vietnam non solo in ogni mio film ma anche in ogni singolo gesto, non necessariamente cinematografico, della mia vita quotidiana” – esempio: il terzo inserto a colori di matrice vietnamita: il volto in primo piano di un soldato, inquadrato da ogni possibile angolazione prospettica, come se fosse un materiale d’uso comune, o un interlocutore abituale a cui rivolgersi per instaurare un dialogo. “Il mio contributo, stante la mia impotenza, può essere solo un contributo estetico, o estetizzante, un paradossale ‘concorso prerivoluzionario’, come diceva André Breton, o un grido di protesta, come dice oggi Régis Debray” – esempio: l’ultimo inserto, in un b/n solarizzato, di corpi umani o animali o vegetazione devastati dal napalm e dai defolianti. Con Godard che insiste sull’estetizzante e reintroduce un secondo flash, brevissimo, da La cinese, per poi tornare a nascondersi dietro la possente Mitchell, a ruotare manovelle, a ingrandire obiettivi, ad autoinquadrarsi (autoannullarsi) protetto dai riflettori (di un blu accecante), a sottolineare contraddizioni storiche (pensiero/azione) irrisolvibili, e infine a dichiararsi vinto, con un cut conclusivo che è tutto un programma. Un programma, squisitamente godardiano, di problematizzazione a oltranza, tra il sincero e il narcisistico, di un problema che in fondo non esiste. Oppure, di un problema che, esistendo gramscianamente da sempre (intellettuali/popolo) in tutta la sua inconclusa portata, è come se non esistesse più.