JERSEY BOYS di CLINT EASTWOOD
La redenzione del tempo
di Alessandro Cappabianca
Per gli interni, per le scene teatrali, è relativamente semplice; ma in certi esterni/giorno per le strade di New York, abbiamo davvero l’impressione di essere trasportati, per miracolo, negli anni ’50. Le automobili. L’abbigliamento. Le acconciature. Le insegne. Tutto.
Compaiono nelle case degli italo-americani accanto ai ritratti di Pio XII e Frank Sinatra, anche le prime immagini in bianco e nero trasmesse da un tozzo apparecchio cubico chiamato televisore, e Clint Eastwood fa intravvedere se stesso giovanissimo in una serie western di quegli anni (molto prima di Sergio Leone) – oltre che una sequenza di Ace in the Hole , in cui Kirk Douglas prende a schiaffi una bionda platinata (Jan Sterling).
Nostalgia? In parte si, ma la parola è inadeguata. Viene in mente ciò che scriveva Benjamin sulla rimemorazione come forma di preghiera naturale degli uomini, tacito presupposto d’un processo di redenzione del tempo, forse possibile solo nella fantasia.
Frankie Valli e gli amici del Four Seasons, diventando musicisti famosi, popolari e milionari, riescono a uscire (solo in parte) dalle trappole, non escluse proprio quelle della nostalgia, che il vecchio quartiere ha in serbo per loro, ma non possono sfuggire all’altra trappola, molto più generalizzata e ineludibile: quella del tempo. A questa trappola sfugge (o dà l’illusione di sfuggire) solo l’immaginazione, la ricreazione fantastica del passato.
E’ un prodigio che soprattutto le immagini hanno il potere di compiere, specie se supportate dalle canzoni che, sempre nel passato, si sono ascoltate o addirittura cantate o suonate: ma c’è molto di privato, in questo, un grosso pericolo che non funzioni, o funzioni per caso (magari se si sono sentite/cantate le stesse canzoni) o solo sul piano del ricatto sentimentale- Non c’è modo di lasciar irrompere il passato, se non si possiede forza visionaria sufficiente a re-inventarlo. Per questo, la sola nostalgia non serve a niente. Non è la preghiera – al massimo, il suo presupposto.
Del musical da cui il film è tratto, so ben poco, a parte che è stato uno spettacolo di grande successo a Broadway – ma il film, senza dubbio, è segnato dall’irruzione del tempo, dal passato degli anni ’50 che si incrocia con quello degli anni ’90 e con il presente.
Frankie Valli (John Loyd Young) canta in falsetto, canta “contro le regole”. Ogni nota che emette sembra sul punto di spezzarsi, di degenerare in cacofonia, e si riprende per miracolo, come l’esercizio di un acrobata che afferri il trapezio all’ultimo momento. Poi c’è tutta una coreografia di fondo, nei numeri dei Four Seasons. Almeno come ce li presenta Eastwood, che si ricollega (lo ha notato R. Silvestri) alla gestualità (braccia, gambe, posture) del lavoro in fabbrica, ne è la trasfigurazione, la sublimazione ritmica, che alla fine tutto contagia, nel grande numero conclusivo di ballo.
I quattro amici invecchiano pian piano, poi più decisamente (nella scena alla Hall of Fame), poi, d’improvviso, tornano giovani, inquadrati con le loro giacche d’epoca alla luce d’un lampione del ’50 – alla fine, escono dal tempo, entrano, assieme a tutti gli altri personaggi, assieme a tutti gli altri attori, nell’eternità di un numero da musical, dove i corpi gloriosi, sottratti all’invecchiamento e alla morte, ballano e cantano per sempre, a ritmo di musica.