Jean-Marie Straub, sempre contro i robot
di Alessandro Cappabianca
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A Rolle, paesino sul lago di Ginevra, in Svizzera, qualche mese dopo Godard, è morto Jean-Marie Straub, a 89 anni. Verrebbe subito da dire: ha raggiunto Danièle, ma poi ci si rende conto che è una sciocchezza, dettata dal nostro sentimentalismo e che lo stesso Straub, se fosse ancora vivo, non mancherebbe di biasimare, lui che ha sempre rifiutato ogni apparizione magica, ogni tentazione di evocare fantasmi.
Niente fantasmi, per Straub. In questo senso, il suo cinema era intrinsecamente anti-derridiano, e magari avrebbe potuto non piacermi, o piacermi poco (Fernaldo di Giammatteo, critico di rara intelligenza, dichiarava di non sopportarlo). Autore insopportabile? O non piuttosto inesorabile? Autore senza emozioni? Eppure, come mai lo si vedeva con gli occhi lucidi di pianto dopo una proiezione al Filmstudio dell’Intendente Sansho?
Come regista, aveva esordito con due riduzioni da romanzi di Heinrich Böll, girati assieme a Huillet: Machorka-Muff e Non riconciliati. Quella di non riconciliati e’ rimasta poi la loro cifra permanente, quella d’un cinema rigoroso, indipendente, alieno da concessioni spettacolari, capace di utilizzare anche attori professionisti, piegandoli a un lavoro duro di astrazione, di origine brechtiana.
Ecco, Brecht, il teatro. Il cinema di Straub e Huillet non può prescindere dal teatro. Il teatro è stato il loro vero amore. Teatro filmato? No, niente del genere. Nel 1968, collaborano con Fassbinder alla messa in scena di un dramma di Bruckner, che diverrà in seguito il cortometraggio Il fidanzato, l’attrice e il ruffiano. E’ anche, il ’68, l’anno di Cronaca di Anna Magdalena Bach. Opera capitale, certo, ma che non può far passare come secondaria l’esperienza con l’Action Theater di Fassbinder.
Col trasferimento a Roma, si inaugura per la coppia una stagione di grande produttività, di cui non staremo qui a ripercorrere tutte le tappe. Sempre o quasi sempre, però, nel segno del teatro. E’ il teatro che si riverbera sul loro cinma.
Prendiamo per esempio Moses und Aron, l’opera di Schönberg, diventa un film di Jean-Manie Straub e Huillet: ricordiamo l’interesse che la filmografia della coppia dimostra verso la musica, da Cronik der Anna Magdalena Bach, al pre-film schönberghiano del 1972, “Introduzione alla “Musica d’accompagnamento per una scena di film” di Arnold Schönberg, ma notiamo che, in quanto opera, Moses und Aron è anche teatro.
Il rapporto è da una parte di una fedeltà estrema, perché di quel che viene riportato del testo originale non viene cambiata una sola parola, ma al tempo stesso è molto libero, perché sul testo viene operata un’accurata ma personalissima selezione di segmenti testuali che potranno essere ricombinati per l’appunto in piena – benché coscienziosa – libertà. Chiarisce al riguardo Adriano Aprà: “Il testo di origine è rispettato alla lettera; quando è sottoposto a tagli e rimontaggi, mai a riscritture però, il lavoro di eliminazione, spostamento, scansione e condensazione […] tende ad esaltare l’essenza di quel testo: la sua nervatura materiale”. I testi sono considerati come materiali che nel film entrano in rapporto attivo con altri materiali: innanzitutto le voci che li (re)citano, ma anche i corpi degli attori, e ancora: i luoghi, la luce, le condizioni naturali e atmosferiche. È molto indicativa questa indicazione dello stesso Straub: “[…] il testo è uno strato come un altro […] quel che ci interessa sono gli strati. Aggiungere uno strato all’altro: più ci sono strati e più l’oggetto che fabbrichi è denso. Dichten vuol dire fare una cosa la più densa possibile”. Di certo questo lavoro sulla voce non è mai rigido e meccanico, come dimostrano due episodi significativi: durante la preparazione di Der Tod des Empedokles Huillet e Straub hanno rifiutato la proposta di Andreas Von Rauch (che aveva la parte di Empedocle) di avvalersi di un metronomo, evitando così di seguire un modello troppo schematico; durante la lavorazione del film successivo, Schwarze Sünde (Peccato Nero, 1988, tratto dalla III versione della stessa tragedia di Hölderlin) l’interprete di Pausania (che nell’Empedokles rivestiva lo stesso ruolo) è stato costretto a re-imparare e rielaborare il testo daccapo, dopo che lo aveva memorizzato con una metrica perfetta ma fin troppo meccanica. Non sempre peraltro questo lavoro che io definirei di musicalizzazione della parola è messo in primo piano: alcuni loro film possono essere raggruppati in una linea che definirei documentaristico/didattica, in cui l’impegno civile si fa più scoperto, e in cui il lavoro sul testo e sulla voce che lo (re)cita, benché sempre scrupoloso e predisposto nei minimi dettagli, pone in secondo piano la componente metrico/ritmica; penso a film come Geschichtsunterricht (Lezioni di storia, 1972, tratto da Gli affari del signor Giulio Cesare di B. Brecht), in cui però il lavoro con gli attori prima delle riprese è durato ben nove mesi, o a Enleitung zu Arnold Schönbergs Begleitmusik zu einer Lichtspielscene (Introduzione alla musica d’accompagnamento ad una scena di film, 1972, che oltre alla musica del grande compositore si avvale di un suo testo e di un testo di Brecht); oppure Trop tôt/Trop tard (Troppo presto/Troppo tardi, 1980-81, tratto da un testo di Friederich Engels e da uno di Mahmud Hussein), o il cortometraggio Lothringen! (1994, da un testo dello scrittore reazionario Maurice Barrès), o i due film su Cézanne. Particolarissimo è il caso di Fortini/Cani (che rientra nella stessa linea). Dallo scritto alla voce. Con un lavoro preciso e duro, in certi casi lungo perfino alcuni anni prima dell’inizio delle riprese, Huillet e Straub ricercano insieme all’attore il modo più preciso di rendere (ricreandolo) il senso di un testo attraverso la sua voce. La voce è considerata come un materiale vitale, degno di essere rispettato e valorizzato di per sé, proprio com’è rispettato il corpo nella sua estensione visibile; di qui il rifiuto radicale del doppiaggio (considerato, con Renoir, un “assassinio”), l’utilizzo rigoroso della presa diretta e l’idea di considerare il suono della lingua originale un po’ l’anima del film (non a caso gli attori nei loro film parlano sempre nella lingua in cui è scritto il testo di partenza, che potrà essere tedesco, francese o italiano). Ecco perché ciò che impressiona spesso gli spettatori attenti dei loro film è la sensazione di sentire per la prima volta parlare le persone al cinema, nel senso che tutti noi siamo così assuefatti alle voci dei film in circolazione, che sono voci levigate, professionali, manierate, livellate secondo la logica del doppiaggio o delle convenzioni del mestiere, al punto che suona davvero strano, invece, percepire finalmente una voce incarnata, «esposta», imperfetta e fragile come nei film di Huillet e Straub, e come spettatori italiani possiamo rendercene conto bene proprio nei loro film italiani, specie in Dalla nube alla Resistenza (1978, tratto da due libri di Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò e La luna e i falò), o nei film più tardi tratti da Pavese e da Vittorini, dove l’inflessione dialettale degli attori è evidente. Questa vocalità incarnata, autentica e assieme precaria, è tanto più sorprendente se si considera che il parlato dei loro film è articolato in modo tutt’altro che naturalistico/mimetico, e i testi stessi sono spesso densi e ricchi, ossia caratterizzati da una esplicita letterarietà. Il lavoro sulla voce è impostato meticolosamente in modo da predisporre intonazioni, altezze, pause: il testo diventa una vera e propria partitura.
Esemplare in questo senso l’esperienza teatrale di Buti. Senza gli attori non professionisti attivi in quel teatro, non ci sarebbe stato Sicilia! O sarebbe stato altra cosa. Ce ne rendiamo conto anche vedendo i materiali sul film raccolti da Pedro Costa per il documentario Sicilia! Dove giace il vostro sorriso sepolto e quelli messi insieme da Fitoussi per Sicilia! Si gira. Il figlio, la madre, i poliziotti, l’arrotino, vengono da Buti, lì hanno provato a lungo con i due cineasti, prima di partire per l’avventura siciliana. Lì l’arrotino ha provato i suoi gesti, e forse anche il Gran Lombardo lo struggimento per doveri diversi, più alti.
Sempre contro i robot.