INDIA SONG Un film di Marguerite Duras del 1975
Immagini loquaci-Parole mutaci
di Francesco Salina
Raccontano che, più di mille anni fa, nelle foreste che circondavano l’Atlantico, vi fossero delle donne i cui mariti e i fratelli erano sempre lontani, a combattere. Restavano nelle loro capanne, ad attenderli. Iniziarono a parlare agli alberi, al mare, alla luna, alle stelle, agli animali della foresta. Le chiamarono streghe. E le misero al rogo.
‘’Ah oui! Je me souviens. Elle se tient au bord des fleuves. Elle vient de Birmanie. Elle n’est pas Indienne. Elle vient de Savannakhet, née là-bas. Savannakhet, Laos, oui. Elle part. Dix-sept ans. Un jour devant elle le Gange. Oui! Elle reste. C’est ҫa. Oui! C’était pendant les memes années. A Calcutta, étaient ensamble…’’.
Si ode un canto, melodico, melancolico, del Laos, è una donna che canta fuoricampo. Sfilano i titoli di testa. Una voce intemporale, intrecciata col canto, racconta la storia di questa donna: Anne-Marie Stretter. Delphine Seyrig, con classe innata, la interpreta. Donna amata e contesa. Sono cinque i contendenti. In un interno, una villa residenza di Francia a Calcutta, si incontrano, interagiscono, si aggirano silenziosi. Passi lenti, lentissimi, passi felpati dei cinque protagonisti silenti. Familiari tra loro, estranei a sé stessi. Tutto è al passato, tutto sembra al presente. La cinepresa, come una carezza, sfiora volti, oggetti, figure mutaci. Ѐ il mistero del cinema muto che Marguerite Duras rianima. India Song, una rimembranza, un canto, un non-luogo presente-distante, un rimpianto. Nel suo decorso, lungo il narrato, il film è punteggiato da sorprendenti, inquietanti simmetrie-asimmetrie, da ossimori filmici, da antitesi. Ѐ il mistero del cinema ‘magico’. Figure distese, caste, si abbracciano silenziose. Negli interni un grande specchio è presente, sullo sfondo sempre in campo. Esalta il fittivo, scongiura il fittizio. Un fittivo ad arte creato, che tuttavia appare né finzionale, né fantasticato. Ѐ la magìa del cinematografo. La Duras predilige lo specchio, che sdoppia, raddoppia, sprofonda en abÎme oggetti e soggetti, di fronte e unitamente di spalle. Sa bene che il grande schermo riflette ombre celate nell’intimo dello spettatore. Figure silenti, semoventi o immobili, nel centro del quadro o ai suoi margini, si muovono a passi misurati, o si statizzano, statuarie. La cadenza dei passi segna il tempo, o lo immobilizza. I protagonisti entrano in campo, insieme o separati, non parlano, dal campo escono. L’inquadratura, lungamente tenuta, non resta vuota. Anche le cose divengono familiari. Un lume, un tavolo, un pianoforte, speculati raddoppiano le locations inquadrate. La musica di Carlos d’Alessio, armoniale, danzabile, risuona costante, come una coreografia musicale. Ѐ un parergon sonoro che incornicia l’ergon. Una cornice che racchiude l’opera, che protegge il suo ‘mondo’ all’interno, la isola dal mondo esterno. Che consuona con la visione. Che segna il tempo a un ritmo vivente, come il battito di un cuore nostalgico. E l’India appare, si dispiega in esterni a luce naturale. Panoramiche discrete scivolano leggere come una piuma, alberi di mango, il cielo sopra la foce, l’orizzonte lontano, un’ansa del Gange. Si odono voci autoctone, nessuna persona si vede, mentre l’inquadrato visiona palazzi sontuosi, saloni in rovina, viali deserti, antiche vestigia indiane. Il montaggio, sintonico al ritmo di fondo, interrompe i lunghi pianisequenza. Coppie di attanti danzano, interpretano il battito ininterrotto, il basso continuo, in silenzio. Il dialogo che li coinvolge, li contrappone o li unisce, è decentrato, spostato in off, in fuorisincrono, scollato dai parlanti-mutaci. L’India riappare e sparisce, un’ombra, un canto, un rimpianto. Delphine Seyrig, Michael Lonsdale, Michael Carrière, Claude Mann, Didier Flamand, celebranti sacerdotali, attivano un rituale liturgico, a scongiurare la finitudine. Una quiete sospesa avvolge una segreta inquietudine, nascostamente presente nel profondo di ognuno. Eros aleggia lungo tutto il filmato, armato di arco e di frecce. Come quelle di Apollo, dagli opposti poteri, che donano amore e vita, o infliggono odio e morte. Eros, il piccolo semidio, è onnipresente. Solo più tardi prenderà corpo in un abbraccio, un solo bacio appassionato tra amanti. Improvviso, risuona un grido lacerante. Come se, fuoricampo, provenisse dal profondo dei protagonisti silenti. Un grido straziante d’amore, disperato, geloso, un grido implorante, che irrompe, che rompe l’incanto. Struggente come un pianto. Eros è volatile come Morte. Entrambi incombono unitamente, desiderati-temuti. E il film conclude. La sola vestaglia di Anne-Marie Stretter, la donna contesa, fu ritrovata sulla sponda del mare. Si era inabissata in un vortice, in silenzio. La Duras non dimentica L’année dernière à Marienbad di Alain Resnais del 1961. Visiona in figure la propria poetica, l’avvolge nello spazio e nel tempo, in modo deittico. Come in Nathalie Granger del ‘72, in La femme di Gange del ’73, in Son nom de Venise dans Calcutta désert del ‘76, in Baxter,Véra Baxter del ‘77. Quattro storie di donne. India Song è un film sul tempo, sull’eterna nostalgia, sul tempo volato via. Un film memorabile, memoriale, incantato, incantevole, audace.
Che narra un passato che non vuole passare.