Incontro con Pietro Ingrao
a cura di Daniela Turco
Dallo scorso 24 febbraio 2022, data d’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, l’Europa – dopo l’episodio drammatico della guerra del Kosovo nel 1999 – si è trovata di nuovo coinvolta in un inquietante scenario di guerra, fino a pochi anni fa impensabile, dopo la fine del secondo conflitto mondiale.
Stupisce e allarma, soprattutto, la spinta collettiva verso uno scriteriato riarmo da parte di molti stati europei, tra cui in particolare la Germania, per la cifra inaudita che si prepara ad investire in spese militari, mentre anche il nostro paese, l’Italia, si lascia irretire nel solito schema della Nato dal preoccupante incremento di programmi di sicurezza e di difesa in nome di una pace che non potrà mai essere garantita dalle armi.
In questo angosciante teatro di guerra, rimane papa Francesco, come soggetto autorevole pressoché unico, a non stancarsi di esercitare con lucida convinzione una critica radicale della guerra e delle armi e a parlare apertamente di follia di fronte a questo conflitto e al pericolo concreto di un’escalation senza ritorno, considerata l’area geografica in cui si sta combattendo e ciò che potrebbe comportare.
In questa situazione insieme tragica e incerta, nella generale inadeguatezza dei media e della politica, si sente in modo particolare la mancanza di certe voci, insostituibili, per la loro complessità di pensiero e di analisi storica, penso ad esempio a quella di Rossana Rossanda e di Pietro Ingrao, che la guerra l’avevano vista e conosciuta in prima persona, ed era, appunto, dall’elaborazione di quel trauma che proveniva la forza delle loro idee e della loro passione politica.
Si sceglie quindi di pubblicare qui di seguito una lunga e partecipata conversazione tenuta con Pietro Ingrao nel giugno 2002, nella redazione di Filmcritica in piazza del Grillo, soprattutto importante, si crede, per la sua parte conclusiva, per il respiro politico e per l’incisività delle sue parole che, nonostante uno scarto di vent’anni, continuano a esserci drammaticamente contemporanee. (d.t.)
INCONTRO CON PIETRO INGRAO
Sul montaggio e altro.
Si è rispettato volutamente il carattere improvvisato della conversazione, lasciando intatto il sapore al testo parlato, che diversamente dal testo scritto conserva nelle pieghe del ragionamento, il carattere reticente della parola, il senso a volte solo allusivo, la ripetitività delle espressioni. Così si giustificano i rinvii, i periodi apparentemente inconclusi, i puntini di sospensione, le interruzioni. Ci è sembrato importante ritrovare il più possibile il senso e il tono dell’incontro – anche il lei confuso con il tu -, rintracciare il disegno di una dialettica aperta, in un confronto su questioni, ancora oggi intriganti, che investono problemi di metodo, di teoria e di politica. Con uno sguardo franco, attento, sorprendente di un grande testimone politico che è anche un grande poeta. (Edoardo Bruno)
Pietro Ingrao: “….. quella carrozzella che precipitava per la scalinata del Potemkin, eravamo molto imbottiti da questa identificazione di cinema. Io poi sono rimasto convinto che l’effetto filmico è molto determinato e dipende molto dalla maniera con cui avviene la successione delle sequenze. Allora, penso – adesso non sto a dire come andavamo sempre a guardare nei film in che modo giocasse questa ritmicità -, che noi allora eravamo molto puristi, e faticammo parecchio ad accettare, non tanto il sonoro, quanto il parlato. Tra l’altro ci sembrava che il parlato riducesse il cinema a una specie di verismo, cioè alla riproduzione del vero normale e così via, mentre noi, io almeno, avevo in testa l’idea del film come ‘falso’, in un certo senso il contrario della fotografia e anche di quello che si vede, della selezione che fa l’occhio scorrendo normalmente nella vita di tutti i giorni. Essendo il montaggio, per noi – per me almeno – nella mia storia, la convinzione che è forse il fondamentale punto di invenzione creativa e di fatto estetico-poetico; vedere invece il film che mi avete mandato voi, Operai, contadini, di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, in cui questo elemento che io individuavo come specifico filmico, veniva invece assolutamente soppresso, o almeno, salvo per qualcosa che un pochino si muoveva sullo sfondo…. C’è un’ostentazione in questa fissità dell’ immagine che tra l ‘altro rivalutava, ridava u n peso alla parola, che nella mia storia personale…..
Quando arrivò il parlato nel cinema, mi ricordo che noi tememmo molto. Non ci piaceva questa cosa qui, perché il parlato era quello che rimandava il film al teatro, diciamo così. Sempre come finzione, ma al teatro. E noi invece, da ragazzotti quali eravamo allora, avevamo fatto sempre la battaglia alla Barbaro, e alla Pudovkin, sulla questione del montaggio. Allora, lì, mi sono trovato di fronte a un’innovazione, diciamo così, che non ho capito, che non ho saputo “sfogare”, oppure sono rimasto un po’ anche basito che voi mi abbiate mandato quel tipo di film… Ero convinto che lo specifico filmico, come lo chiamavamo noi, che la dignità estetica era affidata, non diciamo per tre quarti, perché questo sarebbe troppo, ma quasi, a questa invenzione teorica dell’incastro tra le immagini. E tutta la nostra battaglia di quegli anni, nonostante poi noi avessimo molto in testa il neorealismo, il verismo, sapete, un po’ tutto quel gruppo lì, era molto legato a un’altra lettura del mezzo filmico. E allora lì, cari miei, voi dovete riscrivermi l’estetica del film perché altrimenti io ho una difficoltà rispetto ai miei fondamenti teorici riguardo al cinema; aggiungo che poi dopo, anche scavalcando il fondo teorico e mettendomi solo lì dinnanzi a quelle immagini, non avvertivo una varianza, che creasse lo scatto e la successione delle cose, quindi, proprio non capisco in base a che tipo di teoria e anche di pratica estetica voi dite che quel film è bello. Mi sembra perfino che ci sia una civetteria dello star fermo; perfino che insomma… Tu mi vuoi colpire perché appunto rovesci questo che è il fondamento della teoria filmica e mi metti lì…. E poi non lo trovavo bello neppure nell’esperienza reale. Dopo un po’ mi annoiava, non ho capito dove per voi stava il “cibo”. L’ho presa per una civetteria di cinefili, oppure state reinventando la teoria del film …ma, allora ….a me, poveretto, non me lo potete mandare così…
Bruno Roberti: Lei ha ricordato i suoi tempi, quando si occupava di cinema; quando Bazin ha letto in un certo senso la rivoluzione del neorealismo, che non era in quel momento ancora tutta esperita, e quindi forse nemmeno ancora teorizzata in quanto tale, ha parlato di una rivoluzione che passava anche attraverso un segno linguistico che era poi il piano sequenza, cioè la continuità temporale e l’uso della durata, appunto in Rossellini e in Visconti. Rispetto all’innovazione del montaggio c’era uno scarto in avanti, e il montaggio veniva inserito quasi senza bisogno di tagli, e quindi il piano sequenza e l a sua continuità e la durata che restituiva anche il tempo reale, la durata fenomenica, epifanica del reale, dava una sorta di montaggio, quello che viene chiamato montaggio interno, una serie di scarti interni alla sequenza. Questo era qualcosa che voi sentivate rispetto al modo di raccontare la realtà: non interrompere, cioè, la realtà in quanto tale, e restituirla nella sua durata?
Pietro lngrao: Io per lo meno sono stato assolutamente e completamente contro questo. Queste parole non le avrei mai adoperate: “riprodurre la realtà”. No! Perché per me non c’è una realtà che bisogna riprodurre…
Bruno Roberti: Ma su questo siamo d’accordo….
Pietro lngrao: La realtà non esiste. Anche il neorealismo è in un senso molto metaforico qualcosa che mi racconta a suo modo una sua storia, che io chiamo neorealista, ma se me la mette nel senso della mimèsi….Del resto, io una cosa di questo genere qui, la penso addirittura per il teatro. Penso a Eduardo…
Bruno Roberti: Non a caso, poi, perché Eduardo ha questa concezione del tempo, della pausa…
Pietro lngrao: Ma anche nel teatro c’è sempre un elemento di finzione, non è mai la riproduzione dell’esperienza corrente.
Edoardo Bruno: Siamo d’accordo su questo, anzi, Bazin diceva proprio a proposito di Rossellini non la “restituzione del reale”, ma la “reinvenzione del reale”.
Pietro lngrao: Prendiamo ad esempio un film di Rossellini, uno di quelli famosi, Paisà….C’ erano dei pezzi di quel film che non erano male…. per me la vetta cominciava negli ultimi due episodi. E anche quando Rossellini entra nel convento…. Eppure, anche lì, avevo quel dubbio, che fosse un cinema troppo teatrale, recitato bene perché ci sapeva fare….poi, questa invenzione dei frati, ma in fondo, abbastanza convenzionale, stilisticamente …. Per me la cosa che invece ritengo una vetta del cinema è l’ultimo episodio, quello dei partigiani nel delta del Po, senza l’audacia dei sovietici, diciamo così, Ejzenstejn e così via …. C’era il montaggio, che contava molto, si sentiva molto la maniera con cui erano congiunti questi pezzi di realtà, questi pezzi di film, che se no…. che cosa sono? Quindi, lì, in Operai, contadini, una difficoltà rispetto a questa teoria filmica, che era quella su cui, poi, mi sono formato, e una conferma l’abbiamo avuta con la commedia sofisticata americana, dove mi ricordo che noi….A me l’ha fatta accettare parecchio l’amico Gianni Puccini che era proprio patito di quella cosa lì, John Barrymore, ecc… Però non era la scoperta, l’invenzione, che ti dava il cinema al livello più alto; era un modo molto intelligente di usare questo mezzo… Adesso non è giusto usare la parola “giornalistico”, ma, insomma, la dico lo stesso per farmi un po’ capire…. C’entrava molto anche la grande finezza degli attori, John Barrymore, mi ricordo Ventesimo Secolo e così via.
Edoardo Bruno: Non te l’ho mai detto, forse, ma io ho scritto proprio un libro, Pranzo alle otto, sulla commedia americana che ti voglio regalare ….
Pietro lngrao: Comunque era un’eresia rispetto alle mie convinzioni. Cioè, poi, va bene, il cinema è anche un prodotto che ha tante facce, tante storie, e indubbiamente quelli avevano inventato un modo di raccontare le cose con questi attori che io amavo molto, da John Barrymore a Miriam Hopkins e così via, insomma, io li includevo nel mio “sacrario”, per così dire, però non era lì la “scintilla”, la grande invenzione che stava nell’accostamento …. Poi, una cosa va chiarita; noi stavamo molto col neorealismo, che era però sempre invenzione fantastica…
Bruno Roberti: Però, per esempio, un regista come Orson Welles, che è qualcuno che in questo senso inventa nell’ambito del cinema americano riprendendo la lezione di von Stroheim, quindi l’invenzione formale, che non c’era perché nella convenzione della commedia americana, nel cinema da studios, il regista gioca su spazi complessi, Welles proprio sul piano anche del montaggio reinventa il cinema dopo la grande stagione del cinema americano …
Pietro lngrao: Sì, lo seguo, diciamolo, ma non mi pare che sia lì la grande scoperta, poi ci sono diversi prodotti spurii che raggiungono una grande finezza, ma non è quella l’invenzione del cinema; anche così è la riproduzione filmica di un teatro fotografato, ma non è lì la grande scoperta.
Alessandro Cappabianca: A me interessava parlare del neoralismo; il neorealismo cui voi avete lavorato nel rapporto col cinema sovietico. Nell’ultimo episodio di Paisà ci sono queste barche che sfilano lungo le acque ferme, che appaiono, si nascondono, ecc., e lì ho sempre trovato che se c’era montaggio – perché indubbiamente c’è montaggio – è però un montaggio interno all’inquadratura, un montaggio che non impedisce di sentire la durata, la continuità, il fatto che una certa azione ha un tempo e che dura, e che questa è la sua realtà in fondo, cioè che la realtà di un’azione, lì si sentiva che veniva dal tempo che ci si metteva a farla, dal tempo reale, no?
Pietro lngrao: Io questo non lo direi mai. Il tempo reale che ci si mette a farla….non esiste più; esiste quel tempo.
Alessandro Cappabianca Ecco, invece, prendiamo Ejzenstejn, lì davvero non c’è nessun interesse verso il tempo, né reale né … C’è solo interesse verso un tempo cinematografico per cui lui mette insieme due immagini, magari diversissime, in modo che scocchi la scintilla del senso, del significato, e quindi detto questo, già il lavoro del neorealismo mipareva diverso rispetto alle teoriche dei grandi sovietici e anche ai loro film, mi sembrava che già ci fosse una diversità e che poi questo in fondo sia un discorso non semplicemente storico, ma che possiamo riallacciare anche al fìlm degli Straub proprio perché c’è questo montaggio che diventa interno al film, interno all’inquadratura. Forse anche le sue domande, prima, intendevano questo, cioè questo neorealismo come un qualcosa di diverso rispetto al cinema sovietico, per esempio.
Pietro Ingrao: Io ho cercato di parlare di quegli elementi di estetica del fìlm, di teoria del fìlm che sono stati quelli che hanno segnato per noi lo scarto, e ho cercato di analizzare anche il modo con cui noi ci difendevamo un po’ anche dal teatro e dalla teatralizzazione, e in fondo poi anche dai “telefoni bianchi”, anche se non solo, nello sforzo disperato e anche un po’ settario, per come eravamo fatti noi allora, con cui tendevamo a un certo discorso… Qui poi Umberto Barbaro…. mi ricordo di quando Barbaro ci fece l’elogio di Totò, per dire…
Bruno Roberti: …già allora?
Pietro lngrao: Sl, certo, mi ricordo una volta che noi parlavamo, perché eravamo fanatici di Chaplin, (le prime cose che ho scritto di cinema le ho scritte su Chaplin) che era il nostro dio, e mi ricordo che Barbaro una volta nei corridoi del Centro Sperimentale di Cinematografia mentre stavamo discutendo di Chaplin dicendone tutto il bene possibile, ci disse che però lui ne conosceva uno che faceva le “stesse cose” (e qui disegnò una specie di ghirigoro nell’aria) e che però ci metteva pure i “fuochi d’artifìzio”. Così disse. Ed era il 1935. Allora Totò era ancora quasi totalmente sconosciuto.
Bruno Roberti: Quasi ancora futurista.
Pietro lngrao: Barbaro era un cervello così acuto che aveva scoperto uno che ancora non esisteva.
Bruno Roberti: Lui coglieva di Totò un lato che era quasi un lato futurista, nel senso che il primo Totò era un Totò surreale …
Pietro Ingrao: Lui indicava il suo ghirigoro surreale che, indubbiamente, anche secondo me, è la cosa più forte di Totò, quando lui si scatena e si inventa l’impossibile, la stranezza. In quella discussione si inserivano poi anche i gusti diversi, c’era ad esempio Gianni Puccini che faceva il suo canto su John Barrymore, di Ventesimo Secolo, poi andava a pescare certe cose di immediatezza sociale un po’ bassa, come Frank Capra…., non ci piaceva molto Gary Cooper…, bisogna tener conto che tutta questa esplosione di cinema che poi si compiva negli anni Trenta, poi ….
Bruno Roberti: E qual era il cinema che piaceva a Giuseppe De Santis? Glielo chiedo perché capitava che lui attaccasse Castellani, scrivendo che era un cineasta borghese e calligrafico, lo accusava di attardarsi a cincischiare la forma ecc., e io trovo che, in un certo senso, il cinema di De Santis unisce l’icasticità dei sovietici con il grande cinema americano nella sua forma più alta e spettacolare: le sue famose gru, i piani-sequenza …
Pietro lngrao: Lui era uno molto… Ora, io gli voglio troppo bene, però voglio dire, lui era molto nazional-popolare. Forse la cosa migliore sua è quella lì, il fatto di aver inventato la Mangano. Tutto sommato, io ho cercato un po’ di difendere Roma ore 11, dove c’era un po’ di Zavattini, però … De Santis ha inventato la Mangano, ecco la sua forza.
Edoardo Bruno: Io volevo ritornare sul tempo e sullo spazio, perché prima avete fatto un esempio parlando del Potemkin, però non ti dimenticare che lì si sente l’attesa: a un certo punto ci sono i marinai sull’amaca in una specie di lunga pausa in cui si sente veramente l’identificazione tra tempo reale e tempo di attesa, in cui il montaggio cede a una specie di piano sequenza, per tornare al discorso di partenza, per dire che nel cinema c’è anche questa continua tensione…
Pietro lngrao: Ma questo di sicuro, perché sennò sarebbe troppo assurdo…però, come dire, quello vale per me, adesso io non sono in grado di elaborare una teoria, perché, anche il tempo di svolgimento di una scena fissa senza dubbio conta, però sempre nel montaggio, nella struttura linguistica del montaggio. Quando vedo il film che mi hai mandato tu, Operai, contadini, mi sono domandato se non c’erano dentro quel fotogramma apparentemente fisso, alcune cose che lo tagliavano, mi sembrava qualche volta che si vedesse un po‘ di vento….
Tutti (insieme): Sì, infatti, c’è!
Pietro Ingrao: Eh, ho capito, però sono momenti… l’autore ci ha provato, però non c’è riuscito …
Daniela Turco: Però questo esperire la natura che entra prepotentemente… Già in Ejzenstejn, era fortissimo questo peso e, anzi, veniva rivendicato proprio in un rapporto con il tempo. Fare entrare il paesaggio nel tempo e dargli quasi una struttura musicale; in questo io sento gli Straub precisamente in quella continuità, in quel solco. La piccola serpe che fruscia e si muove, la foglia che si sposta, il ruscello che scorre, in fondo partecipano di una linea che già era evidente nel cinema di Ejzenstejn…
Giona Nazzaro: Sì, il montaggio tradizionale prima del neorealismo, veniva un po’ identificato come qualcosa che occultava il lavoro di realizzazione del film, quindi il lavoro del film occultava l’immagine del mondo, che secondo me è altro da una mimèsi del reale, quindi il “montaggio proibito” di Bazin stava a indicare il ritornare prepotente dei rapporti necessari a fare un determinato tipo di lavoro cinematografico in una durata, in un tempo, che è un’acquisizione politica fondamentale della modernità. E’ ciò che sta alla base di Rossellini e che Bazin aveva intuito osservando i primi film di Wyler, Orson Welles, ecc., per cui. quando gli Straub portano alle estreme conseguenze l’intuizione baziniana, paradossalmente reinventano il cinema classico. Operai, contadini è paradossalmente un grande film fordiano, non è più avanguardia, sperimentazione, è il mondo, è il lavoro del cinema, il lavoro del mondo che si dà come nuova immagine possibile del mondo stesso. Parla di un mondo possibile verso cui tendere ed è lì la natura intimamente politica, non declamatoria del cinema degli Straub, che è un cinema sottratto alla logica del profitto, restituito a noi come mondo e non come fotografia del mondo, ma come “altra” esperienza del mondo.
Pietro Ingrao: Ma, questo lo posso capire, a parte il fatto che, va bè, allora si sono posti un compito gigantesco, perché in quelle immagini fisse valorizzare gli elementi interni in modo da scoprire quelle cose è un qualcosa che… la raggiunge Dante, in poesia… Però la mia impressione, vedendolo….è che non… Capisco bene il ragionamento; io stesso ho riflettuto che c’era una valutazione, evidentemente, di alcuni leggerissimi tocchi interni che poi facevano, come dire, la musica o la sequenza… però ….mi pare che non ci siano riusciti.
Giona Nazzaro: Poi, addirittura, c’è l’utilizzo dello zoom nella radura… Gli Straub non usano lo zoom quasi mai, lì invece è stato usato, perché per fare un certo tipo di movimento di macchina l’operatore ha detto che avrebbe dovuto fare una specie di ponte per attraversare il ruscello, e Jean-Marie è rimasto al di qua dell’intervento sulla natura, cioè a dire che il cinema diventava meno importante del rispetto per la natura… Quindi in quel luogo, in quel dato momento si poteva filmare solo in un dato modo, e a quel punto anche l’utilizzo dello zoom, di solito estraneo alla loro cultura di cineasti, era giustificato dall’idea di non violare l’integrità di quel luogo. A me questa sembra un’indicazione politica radicale ….
Pietro Ingrao: Sì, però poi dopo….non ce l’hanno fatta.
Lorenzo Esposito: Però secondo me nel film c’è anche un altro movimento, di cui lei si è accorto, tanto che ce l’ha detto prima. Parlo del sonoro, della parola. C’è proprio qualcosa di cui mi sono reso conto rileggendo le parti del testo di Vittorini da cui è stato preso, in cui si vede chiaramente un lavoro di interpretazione del tempo che Vittorini stesso assegnava a quelle parole, e che poi trasportato nel film diventa questo parlare cadenzato, che aumenta in maniera fortissima anche rispetto a tutti i movimenti interni di cui è stato detto e con cui mi trovo d’accordo, dando al senso del film quasi una forma ulteriore….
Daniela Turco: C’è nel film infatti una sorta di riappropriazione della parola …..
Pietro lngrao: Sì, ma non ci arriva…. Adesso il paragone con Vittorini è molto utile, prendiamo Conversazione in Sicilia, perché chiaramente in questo testo c’è un po’ come l’invenzione di una certa cadenza: “e lei mi disse…” parla la madre “, e “io le dissi”, parlano così …. però si vedono anche in Conversazione in Sicilia con molta chiarezza i punti in cui la cosa a Vittorini riesce, e i punti in cui non gli riesce. Poi dopo la mia critica è… ecco, io capisco l’ideologia filmica di Operai, contadini…eanche il fatto che nel film si inseguono dei pezzi di esperienza, diciamo così, dei pezzi che sono in tutt’altro modo….ma a parte il fatto che dovrei rivederlo e ragionarci sopra….ho capito !’estetica che ci sta dentro, l’intenzione che lo muove, però …..francamente….
Alessandro Cappabianca: Io vorrei provare a fare un’ipotesi: non può darsi che questa impressione di stranezza di fronte al film derivi dal fatto che in fondo nei film degli Straub e in questo in particolare – ma in tutti i loro film -, c’è da una parte il dialogato, un dialogato fortemente ideologico, e tuttavia il modo con cui viene proposto questo dialogato io lo trovo sempre più fortemente mitologico, quasi sacrale, sembra quasi che si stia facendo un rito.
Pietro lngrao: Sì, ma secondo me non ci riesce. Non è che io mi posso fondare solo sulla sua intenzione, che io capisco, ma lì siamo a un punto in cui o sei Dante o se no….
Edoardo Bruno: Infatti, appena hai visto il film, a caldo, mi hai parlato di una sua forza, del mito, mi hai parlato anche di Mantegna, per quanto riguardava la postura dei personaggi, avevi quindi colto nel segno…. E’ chiaro che vedere un solo film degli Straub e non entrare nella poetica…lo stesso Straub che ho incontrato l’altro giorno a Buti, andando a vedere una sua rappresentazione, mi ha detto: “Hai fatto male, dovevi far vedere a Ingrao Dalla nube alla resistenza “, perché gli Straub hanno lavorato in Italia sempre, si può dire, tranne i primi due film che non erano italiani, e ci tengono particolarmente che tu veda Dalla nube alla resistenza. Straub ha una forte personalità politica, e ha una forte personalità che tende a tracciare un disegno filmico che rinnovi anche un discorso, e lui persegue questo risultato con una certa voglia rivoluzionaria, che non si limiti solo a una rivoluzione formale, ma comporti anche una rivoluzione ideologica. Per questa insegue Vittorini, come ieri inseguiva Fortini, come l’altro ieri inseguiva Pavese… Ecco lui ha “lavorato” questi autori….
Pietro lngrao: Però Pavese, Fortini, Vittorini sono tre cose parecchio diverse fra di loro….Pavese e Vittorini non hanno nulla in comune. Poi dopo francamente io esprimo una riserva su una linguistica che lui adopera che mi sembra non gli sia riuscita …. Se poi tu vuoi le pezze d’appoggio, le motivazioni, allora ti dico subito che lo devo vedere ancora una prima e una seconda volta e poi ti dico….Ora ti posso dire solo che a me sembra che non ce l’abbia fatta. Lì, caro mio…”il naufragar m’ è dolce in questo mare”, lì una ” r ” in più rovina tutto, se dice che: “questo naufragar m’è dolce in questo mare” è già un ‘altra cosa. Si mette molto a rischio. La cosa che faccio a braccio è cercare di ricostruire la linguistica che lui adopera, la tecnica espressiva però, poi dopo… Può darsi p u re che ci siano dei momenti molto belli che a me sono sfuggiti, per verificare però dovrei rivederlo più volte…
Bruno Roberti: Io vorrei ricordare un altro film degli Straub che è Cronaca di Anna Magdalena Bach, a proposito del montaggio e a proposito della precisione musicale, un fìlm in cui a partire dalla cronaca appunto di Anna Magdalena Bach, si filma la musica di Bach.
Pietro Ingrao: Questo mi interessa molto, perché credo che Bach sia il massimo.
Bruno Roberti: Usando tra l’altro una nozione matematica, sonora e visiva che ha a che fare con il montaggio. Per esempio, all’interno di un cinema come quello degli Straub che girano per grandi blocchi di montaggio, in un film come questo, i tagli sono fondamentali. La loro rivoluzione, se c’è ormai una rivoluzione da venti, trent’anni a questa parte, da quando cioè sono al lavoro, è una rivoluzione che certamente interviene sul tempo del film, sulla durata, sulla sonorità, sulla volontà del cinema di fare un corpo a corpo col mondo e con la parola del mondo; per cui si confrontano sempre non solo con la parola e con la natura, ma anche con il rapporto tra il mondo e la possibilità di raccontarlo, di “parlarlo” … C’è lì un uso del taglio di montaggio più deciso di quanto non ci sia in questi ultimi film. Poi c’è un film come Rapporti di classe, da America di Kafka, che è un film con una struttura narrativa quasi “americana”, quindi gli Straub hanno molta libertà nel linguaggio, nella linguistica, come dice lei, però si riassumono in una poetica, che è sempre quella. Questo film forse gliel’abbiamo fatto vedere anche perché ci interessava che lei potesse metterlo in rapporto con gli altri che le abbiamo fatto avere: Rosetta, Kippur, Soldi sporchi, insomma, per parlare degli Straub in maniera più appropriata e analitica le avremmo forse dovuto far avere altri loro fìlm….
Pietro Ingrao: Forse anch’io l i ho visti un po’ distrattamente….
Bruno Roberti: Però ha comunque colto certe cose che fanno parte della poetica degli Straub… Quando lei dice “bisogna essere Dante…” è un’osservazione abbastanza indicativa, rispetto agli Straub, perché la scommessa che si pongono Straub e Huillet è proprio quella di lavorare sulla capacità di reinventare la musica del mondo che è poi, in fondo, la stessa scommessa di Dante.
Giona Nazzaro: A mio avviso il film più indicativo sul metodo degli Straub sarebbe il medio metraggio su Cezanne….
Bruno Roberti: Infatti. Quello che Ingrao chiama specifico filmico in loro viene sempre messo in rapporto con altri specifici, con altri linguaggi: pittura, musica, eccetera, all’interno però, per esaltare una dialettica cinematografica….
Giona Nazzaro: Insomma, il concetto di cinema impuro di Bazin è risolto come conflitto costante tra materiali, sguardi e lavori diversi…. soprattutto lavori; il film sempre mai come sintesi, ma come processo di un conflitto, nel farsi di un conflitto che recupera l’idea centrale di Bazin del film come entità sostanzialmente impura. Non a caso Bazin parlava del neorealismo non come pedinamento del reale ma come di un processo di diverse esperienze e di diversi linguaggi, non c’è mai una sintesi, uno sguardo che pacifìca, chiude, concilia… C’è sempre apertura di altri fronti, di altri conflitti, possibilità di riprendere a guardare, di riprendere a lavorare.
Daniele Dottorini: A questo punto io tornerei indietro proprio a Ejzenstejn, perché pensavo prima che il concetto di “natura non indifferente” tipicamente eisensteiniano, sembra in realtà un concetto che produce una diramazione da cui gli Straub derivano in maniera perfetta, nel senso che è un altro legame. Quando Ejzenstejn parla all’inizio del Potemkin della “sinfonia delle nebbie”, o parla della musica del paesaggio, non fa altro che cercare di indagare sempre più a fondo, e in questo senso la lettura di Deleuze è molto fuorviante quando mette Ejzenstejn solo all’interno di una classicità di una rappresentazione, mentre per Ejzenstejn questa natura non indifferente era proprio l’impossibilità di pensare alla natura, al mondo nel cinema, semplicemente come rappresentazione, come riproduzione, ma anzi era anche qualcosa di cui il cinema stesso faceva parte. Il cinema non è quindi riproduzione ma è esso stesso natura. E’ come se fosse una seconda natura che prende corpo.
Pietro Ingrao: A me non piace molto la rassomiglianza, e anche l’aggettivo, quel “seconda natura”; quel seconda non aggiunge; e certo che è una cosa diversa la natura dalle patate o da una quercia, è un prodotto estetico, questo è tutto. Se lui dice e vuole spiegare che non è riproduzione della natura questo per me è chiaro, è una cosa fuori discussione…
Daniele Dottorini: lo volevo dire una cosa diversa e cioè che anche l’operazione sul testo che fanno gli Straub lavorando su Pavese, Vittorini, Kafka, Schönberg, (Mosè e Aronne, è un altro loro film fondamentale), è un lavoro su una musicalità, su un modo di mettere in forma di testo il mondo stesso, questa è un’idea che mi viene in mente adesso e quindi forse è confusa, ma penso che ci sia un’affinità molto forte con il punto di partenza iniziale, nel senso che il montaggio in Ejzenstejn sembra creare un mondo… come quando nel film, le barche che all’inizio vanno verso la Potemkin e creano nel montaggio una sorta di sinfonia, una musicalità che per Ejzenstejn non è artificiale ma è la musica stessa della realtà, come se la realtà stessa non fosse appunto indifferente, una cosa morta, ma…
Pietro Ingrao: Ma di questo a me non interessa molto, questa è ideologia… No, no….che Ejzenstejn pensi che la musica stia nella natura stessa, insomma, non è una grande invenzione di Ejzenstejn, e in ogni modo questo fa parte della sua intenzionalità, della sua ideologia, della sua estetica se si vuole, della sua lettura del mondo, io poi lo giudico, ragiono, al di là delle sue parole, mi serve per capire meglio quello che sta dinnanzi… Grande valore l’ideologia di Dante, e quanta ce n’è, però la cosa importante è…
Edoardo Bruno: …la poesia
Pietro lngrao: …quel verso: “era già l’ora che volge al disio…” E come questo diventa poi forma poetica. E’ molto importante per ricostruire la storia di quell’espressione poetica, e quindi anche il pensiero, la cultura, l’estetica che hanno in mente, perché questo ti fa capire chi era lui come persona e poi ti aiuta a comprendere meglio lo sforzo espressivo che c’è stato, però poi dopo noi ragioniamo su quello che rappresenta come valore estetico, sono quelle sequenze con quell’ordine. Le sue intenzioni mi servono per capire meglio quel prodotto, però, poi, dopo….
Edoardo Bruno: Ma difatti quello che dici è talmente vero che per esempio, parlando sempre degli Straub, sono gli unici che non hanno mai fatto una teorizzazione di quello che fanno. Se c’è un autore che dice “io sono ciò che faccio” e che non dice: “è questo che voglio fare” è proprio Straub. Straub è proprio contrario a una teorizzazione sul suo pensiero. Una delle cose più curiose che accadono con Straub è che quando si parla del suofilm, lui ti insulta. Ti insulta perché è contrario a una cosa del genere ed è l’unico, credo, perché ad esempio Ejzenstejn scrive un monumento di parole. Tu dici: “è utile conoscere il monumento di parole e la sua storia, però quello che a me interessa è il fìlm”. Ecco, gli Straub hanno stracciato il monumento di parole. Loro fanno, e sono tutti lì!
Pietro Ingrao: Però si riferiscono anche ad una ideologia, ad una estetica.
Bruno Roberti: Ma io lo spiego in questo senso, che è talmente amalgamata, assimilata e assorbita la teoria, questo lato teorico, di riflessione sul lavoro, è in loro talmente interno, che anzi, certe volte è lo stesso film a essere contro il cinema. E’ calzante l’esempio fatto da Giona a proposito dello zoom, usato da loro “contro” il cinema, volendo rispettare l’ideologia, la teoria del loro approccio rispetto alla natura. In questo senso in loro è talmente incorporata la teoria che non ne hanno bisogno….
Pietro lngrao: Mi interesserebbe vedere il loro film di cui parlavate prima: Cronaca di Anna Magdalena Bach. Di Bach ci sono almeno dieci letture diverse. Quella che io preferisco è quella di Gould….
Daniela Turco: Io vorrei però dire qualcosa in rapporto ai corpi che gli Straub riescono a mettere in scena, sia in Operai, contadini, ma soprattutto, almeno per me, ancora di più in Sicilia! che è stato un vero e proprio miracolo. Era da anni che non si riusciva a vedere al cinema una tale densità in corpi che non sono corpi d’attore in senso stretto, ed è forse proprio per questo che riescono a rivestirsene, una densità che è fatta del loro corpo reale, delle parole che dicono, di come le dicono e di come le pronunciano. C’è stato un lavoro di grandissima intensità e di scambio e proprio di processo, nel senso direi proprio di una dialettica marxista, e della tensione verso la verità, che hanno compiuto insieme Jean-Marie Straub, Danièle Huillet e i loro attori che sono tutti contadine e contadini siciliani emigrati in Toscana …
Edoardo Bruno: ….a cui lui ha restituito un certo lessico, facendo delle prove che li tengono appassionatamente uniti, anche se lui è un tipo nevrotico e molto aggressivo, e questi sono pazientemente torturati da lui e tuttavia lo amano. Sono stato l’altro giorno a Buti, e la cosa più straordinaria è proprio l’amore che portano a questo autore che gli fa ripetere sette, otto, cento volte le battute. Ad esempio in Sicilia! c’è il personaggio di un arrotino che a un certo punto dice una frase scritta da Vittorini, e dice che gli danno poco da arrotare, pochi coltelli, poche forbici, ma soprattutto non gli danno lame, falci e martelli, urla, però io ho visto questo passaggio in un documentario su di loro realizzato mentre stavano girando, e queste battute gliele faceva ripetere moltissime volte. E anche il ” Qui ci minchionano”, che appartiene a questo loro ultimo lavoro che si chiama Umiliati, e che è la terza parte, dopo Sicilia! e Operai, contadini. Parlo del punto nodale in cui questo gruppo di contadini, lavorando per conto proprio, quasi in cooperativa, rischiando la vita perché hanno sminato un territorio, si incontrano con la nuova repubblica, con un gruppo di partigiani, che li prendono in giro dicendo loro: “ma che avete fatto, avete fatto tanta fatica per niente, avete lavorato un terreno che non è vostro e che vi verrà ripreso.” Loro hanno il mito della fabbrica, il vento del nord. In questo breve colloquio tra un mondo che loro speravano che venisse diverso da come è, e il loro lavoro di fa tica che viene quasi umiliato, da cui il titolo, alla fine rimangono sgomenti. E finisce su una donna che casca per terra in ginocchio e dice: “forse non ho capito niente”. E così finisce. Questo impegno di non facile lettura, presentato in un teatro di un paesino dove gli unici spettatori eravamo noi, perché critici non ce ne erano a parte i soliti del “Manifesto”. Loro questo evento, che è un evento grandioso, perché è grandioso, ecco…. Quest’anno c’era un russo venuto da Mosca, due venuti da Berlino e altri due da Parigi che sono quattro intellettuali che conoscono gli Straub e che si muovono, anche se non sapevano nemmeno dove andare a dormire, e infatti si sono arrangiati come hanno potuto, alcuni nel camper, alcuni in agriturismo. Due anni fa tra questi personaggi strani c’era anche Godard, c’era il direttore del Beaubourg. Ecco il loro pubblico. E poi c’era la gente del popolo, che applaude per quindici, venti minuti. Quindi facendo un lavoro così rigoroso, così anti-popolare così antipubblico e così ideologicamente intricato, perché far venire dentro tre partigiani con il fazzoletto rosso e con il fucile con un popolo che sta discutendo, alcuni in piedi e altri seduti, e parlano per venti minuti di questo, delle mappe, della terra che non è mai di nessuno e quindi ci sarà uno Stato che la prende, non è facile. Poi, arriva la Liberazione, arrivano i partigiani e loro fanno un discorso all’opposto, quasi…. non che abbiano ragione i reazionari, ma indicando che praticamente, oggi come oggi, in questo lavoro fatto in questo modo, non c’è un rapporto tra qualità e fatica. E questo dà loro una delusione enorme. Umiliati. Tutto questo nello spazio di quarantatré, quarantaquattro minuti, non di più, tanto dura la seconda parte.
Lorenzo Esposito: In effetti gli fanno una lezione di economia. Gli spiegano le leggi di mercato.
Edoardo Bruno: E questo con un linguaggio molto pertinente, ma molto complicato, come è la prosa di Vittorini, rimasticata e riletta con un ritmo non siculo-toscano, perché lui non vuole queste cose, ma con una metrica quasi musicale. Il pubblico impazzisce. Ci saranno state ottanta, cento persone, anche perché il teatrino è piccolo.
Daniela Turco: La lingua che parlano ha tra l’altro una concretezza e un’astrazione nello stesso tempo che è stupefacente.
Giona Nazzaro: Sì, questo è un punto importante, Sicilia! in un certo senso ci ha proprio restituito la lingua.
Daniela Turco: Sì, mi faceva venire in mente proprio quel passaggio delle Histoire(s) du cinéma di Godard, quando si parla della “nostra bella lingua italiana”
Edoardo Bruno: Straub e Huillet hanno passato lì a Buti sette mesi, e lui sta lì con questo cappellaccio, con questi cani e questi gatti, che sono il loro problema primario, e difatti lui è uscito sul palcoscenico con il cane, non la sera della prima, ma quella seguente, perché non si stacca da loro. La sera che abbiamo mangiato insieme a un certo punto Jean-Marie e Danièle se ne sono andati per andare a dar da mangiare agli animali, sono spariti nella notte. Questo per dirti quanto sono curiosi e come sono anti-teorizzazione. Non dicono una parola, né tu hai voglia di dirgli qualche cosa. L’unica cosa che gli ho detto è se la musica che accompagnava l’inizio era di Schönberg o di qualcun altro, e lui mi ha risposto che era di Edgar Varèse.
Bruno Roberti: Questo non vuol dire che sia Straub sia Danièle poi non entrino in un rapporto dialettico; noi con loro abbiamo fatto molte conversazioni, però quando loro parlano di cinema non è un caso, e lei ha colto questo dato, che si finisce sempre per parlare di politica e di biologia e le uniche volte che loro parlano di cinema raccontano cose molto concrete: come hanno girato quella scena, che distanza c’era tra la mdp e l’attore, quando si parla con loro insomma, si parla di politica e di ideologia, soprattutto, e per loro questo è vitale tanto quanto il cinema e forse di più. Il cinema per loro diventa questo e viceversa: il cinema è politica e la politica è cinema.
Giona Nazzaro: Straub dice sempre questa cosa bellissima, che, cioè, per un politico sbagliare politica è come per un cineasta sbagliare inquadratura.
Edoardo Bruno: E’ questo che di loro affascina, anche una rivista come la nostra, perché noi cerchiamo proprio questo, cerchiamo ovviamente di fare teoria; certo tu ci hai chiamati qualche volta elitari, o snob, anche se noi cerchiamo di non essere né l’uno né l’altro…
Pietro lngrao: Ma io non penso questo.
Edoardo Bruno: No, ma bonariamente, qualche volta me l’hai detto. Però non è questo il punto; il problema è cercare di congiungere questa nostra passione politica con una passione anche cinematografica, che però al tempo stesso non va incontro a un gusto sempre molto facile.
Pietro lngrao: Però ragionare sulla loro vita, sulla loro ideologia, sulla loro fede politica, questo va benissimo, è legittimo ed è anche molto importante; poi io, volevo appunto fare il cinema e invece mi sono messo a fare il politico, però poi la discussione è sempre sul prodotto.
Bruno Roberti: Riprendendo l’osservazione sui corpi che faceva prima Daniela, lei prima ha detto che la grande invenzione di Giuseppe De Santis nel cinema è stata la Mangano, e a me viene in mente che in Ossessionedi Visconti Clara Calamai non si era mai vista filmata in quel modo. Anzi lui volutamente la destrutturava, anche a costo di schiaffeggiarla e farla piangere, perché il cinema italiano l’aveva vista con i telefoni bianchi. Volevo sapere da lei se questa idea del corpo del1’attore, della corporalità dell’attore è una cosa che voi sentivate allora come una novità forte nel linguaggio cinematografico ?
Pietro lngrao: Noi eravamo abbastanza abituati a leggerla, a capirla, a interessarci a questo. Parlavo prima di Chaplin e di Totò. Poi ci sono stati altri attori comici che hanno inventato delle cose quasi simili, però poi dopo non ci hanno messo le cose che Chaplin ha sviluppato, il modo di camminare, di muoversi ecc. Tutto quello che sta dentro il fotogramma – prima cosa – è decisivo, e –seconda cosa – il personaggio, se c’è un posto in cui lo vedi come corpo, questo avviene nella scultura e poi nel cinema, perché, assolutamente…. è quella cosa in più o in meno, quel po’ di più di braccio o di naso….Sono molto legati poi gli attori del cinema a delle modellistiche; diventano facce-simbolo.
Bruno Roberti: Diceva prima Alessandro che nel cinema più ancora che nel teatro si lavora su questo….
Pietro lngrao: Lo prende più direttamente da vicino, in qualche modo, lì, nel teatro lo mette dentro un alone. Sono molto diverse le cose. C’era uno, Eduardo, che era arrivato a fare l’invenzione di una piccola mossa, così, che diventa qualcosa come…
Bruno Roberti: ….come un primo piano.
Pietro lngrao: Sì, come un primo piano e poi valorizzandolo al massimo. Questo però nel teatro è sempre chiuso – ma non fisicamente – in uno spazio, appunto, in una specie di alone; nel cinema viene esaltato ancora di più, perché nel cinema, ancora nella prospettiva del palcoscenico, tu lo vedi da lontano e in una cornice mentale…
Alessandro Cappabianca:…più personaggio che corpo, forse, l’attore teatrale.
Bruno Roberti: E’ più scena, mentre il cinema è fisicità anche quando è scena, anche la scena cinematografica è corpo…
Pietro lngrao: Sì, e poi è molto più ravvicinato, nel teatro c’è una cornice ma tu ti trovi messo di fronte a un alone, grosso modo è così, con uno spazio che è abbastanza fisso e un’ora, un odore che è abbastanza quello….Nel cinema la cosa è molto più sottile e più maliziosa, perché tu arrivi a cogliere il momento, oppure arriva Straub che pretende di dirmi qualcosa, attraverso un po’di fronde che si muovono in un modo o in un altro.
Alessandro Cappabianca: E infatti gli Straub non fanno mai primi piani o quasi mai …e invece bisogna notare anche le cose che stanno sullo sfondo.
Lorenzo Esposito: Però è interessante una cosa, forse è un po’ rischioso ciò che dico però … Quando lei prima parlava di commedia sofìsticata, non a caso, non parlava di registi ma di corpi, John Barrymore, Gary Cooper, dico questo perché la commedia sofisticata, in modo diversissimo da Straub, ma come lui, reinventa la sonorità del mondo, attraverso questi corpi, questa lingua continua di dialoghi pressanti, velocissimi che danno questa finzione assoluta da cui non si può uscire e si è dentro a questa identificazione con i corpi, e mi viene in mente che Straub ama certo cinema americano classico. Quando gli è stato chiesto di scegliere alcuni film durante una sua retrospettiva ha scelto Gli uomini preferiscono le bionde di Hawks, che è un musical ma anche una commedia sofisticata…
Pietro lngrao: Che lui abbia molto in mente questo linguaggio estremamente articolato e dettagliato, questo si capisce, perché, anzi, se rinuncia alla dinamica dei corpi e dei movimenti, che sono invece tanta parte di tanto cinema, vuol dire che lui attribuisce addirittura a un leggero spostamento dell’occhio chissà quanti significati. Il mio sospetto è che sia molto presuntuoso.
Edoardo Bruno: Certo, lo è, come tutti i grandi. (ridendo)
Bruno Roberti: Ma poi quali altri film ha avuto da noi?
Edoardo Bruno: Gli abbiamo dato Rosetta, Kippur, Soldi sporchi….
Pietro lngrao: Sì, Kippur mi sembrava un po’ banale… Rosetta, sì mi sembrava molto riuscito il ritmo del film, e poi, è azzeccato il personaggio. Il ritmo è parossistico, lui non la lascia mai, mai, e lì io ci trovo un’invenzione estetica. Lui ha concepito un certo tipo di personaggio che è proprio in questa assurdità del movimento che poi si capisce che è in rapporto con un mondo che deve essere parecchio crudele. Parecchio crudele. Invece quello che voi m’avete dato che potrebbe sembrare il meno indenne e m’ha un po’ sorpreso è Soldi sporchi. L’ho trovato di maniera ….
Edoardo Bruno: Sì, ma hai riscontrato un certo spirito brechtiano all’ inizio…
Pietro lngrao: Sì, ma, poi non ce la fa. E’ bravo in un senso corrente. Allora dobbiamo uscire dalla discussione che stiamo facendo, e così uno va a vedere un film dove c’è, al limite io potrei dire, un’americanata. Verso la fine si stringe un po’, ma non ci trovo….
Edoardo Bruno: Questi che ti abbiamo fatto avere sono per noi quattro esempi di cinema contemporaneo, senza la pretesa del capolavoro….
Bruno Roberti: In Soldi sporchi ci era piaciuto molto il fatto che Raimi è un regista che come altri grandi americani riattraversa i generi cinematografici, i classici, destrutturandoli e tirandoli verso altro. L’ultimo suo film, Spiderman, che ha battuto perfino gli incassi di Titanic, è un grande film spettacolare all’interno di un genere. Ci aspettiamo delle novità da questo film. Soldi sporchi che è un piccolo film, ci sembrava interessante perché prendeva la struttura del thriller e la piegava a un discorso di economia politica, perché poi alla fine il discorso finale era appunto sul valore d’uso e sul valore di scambio, ci sembrava molto marxista in questo senso. Edoardo parlava di Brecht anche perché Raimi è molto oggettivo nel descrivere la dinamica di questo racconto fino alla fine. E’ un po’ come se volesse dimostrare una tesi di economia politica all’interno di un genere.
Pietro Ingrao: Però tra Soldi sporchi e Rosetta c’è una differenza di qualità; in Rosetta tu capisci subito che c’è l’invenzione poetica, Raimi usa bene alcune tecniche, ha anche una certa capacità, ma è un cinema che conosciamo.
Edoardo Bruno: C’è una cosa che ti voglio domandare ora: Che fare? Per una rivista come la nostra: che fare? Intendo in questa situazione, in questo mondo, in questa politica, ci sono tanti problemi da risolvere…
Pietro lngrao: Bè, ma questo però …!
Bruno Roberti: Lei è d’accordo con lo sciopero promosso da Cofferati per l’autunno, ad esempio? Perché il leader dell’Ulivo, Rutelli mantiene una posizione ambigua.
Pietro Ingrao: Sì, certo. Rutelli complica parecchio le cose, alcune anche buone, che ha fatto come sindaco di Roma. E’ ormai un mondo borghese, per così dire, quello che rappresenta. Lo spazio lavorista non ce l’ha in mente, poi, beh, è anche una persona modesta. L’errore suo è stato che avendo fatto bene il sindaco di Roma, che pure è una cosa difficile e importante e lì ha fatto delle cose non male, anche se comunque sempre al limite, vedi per esempio i suoi discutibili rapporti con il Vaticano….Ma da lì a fare il leader della sinistra…! Non è sinistra quella. Non ha nulla a che fare con la sinistra. E’ solo centrismo, liberal-democrazia, che si accoda.
Edoardo Bruno: Ma la domanda “che fare”, resta. Che fare noi e che fare come rivista. Vogliamo essere e siamo una rivista di sinistra, ma non sappiamo che fare. Come ci muoviamo?
Pietro lngrao: Ma…bisogna considerare che c’è stata una sconfitta storica.
Edoardo Bruno: Tu dicevi una volta: “ eravamo un gruppo di giovani, amavamo il cinema, poi siamo stati presi a calci nel sedere dagli avvenimenti e siamo diventati comunisti”. E noi, chi ci piglia a calci nel sedere?
Pietro lngrao: Ma negli ultimi due anni ci sono due cose, c’è poco da fare, anzi, tre cose, che sono parecchio diverse l’una dall’altra, perché è verissimo che almeno in Italia, ma non solo in Italia, è entrata in campo una nuova generazione, e questo è un grande fatto nuovo. Questa è la grande novità e la speranza; insieme a questo, c’è l’Europa che fino a questo momento va a destra, e questa è una cosa molto seria. C’è stato un consistente spostamento a destra: Portogallo, Spagna, Francia, Olanda, Italia…In Inghilterra c’era già perché Blair è stato sempre di destra, Austria…
Lorenzo Esposito: E il terzo fatto?
Pietro Ingrao: Bè, la storia della guerra. Ne parlo in un’intervista su “Liberazione”, proprio in questi giorni. C’è la normalizzazione della guerra che non è più un evento eccezionale. Poi è scomparsa la parola disarmo, non la pronuncia più nessuno.
Daniela Turco: E di nuovo ricompare l’ombra minacciosa del nucleare; la mia generazione nata molto dopo la guerra aveva vissuto comunque un’infanzia segnata dall’orrore, da un’educazione all’orrore per il nucleare in seguito alla tragedia di Hiroshima, di Nagasaki. Ora praticamente ogni giorno sentiamo di nuovo aleggiare il fantasma del nucleare, penso ad esempio al conflitto possibile tra India e Pakistan, che hanno entrambi queste armi tremende…
Pietro lngrao: Un passo è il fatto del disarmo, che non esiste più, c’è stata la legittimazione delle armi nucleari perché nessuno, nemmeno il papa dice una parola. Poi c’è stata la legittimazione della guerra in un modo che ancora vent’anni fa non era. E’ una cosa accaduta nell’ultimo decennio. C’è ancora un sospetto sull’atto della guerra, ma non lo dice nessuno; io lo dico, lo scrivo, ma fa scandalo. C’è l’articolo 11 della nostra Costituzione che è stato stracciato, e il capo dello stato è stato zitto, anche dopo che io ho scritto questa cosa, eppure sono sicuro che l’ ufficio stampa gliel’ ha fatto vedere. Ma lui è stato zitto: non si replica neppure più. Lui non sente più, non sente nemmeno il bisogno di dire: “ma no, non è vero tu stai esagerando”. Io dico che un articolo fondamentale della nostra Costituzione è stato stracciato nel silenzio di tutti. Tutti stanno zitti su quella cosa lì, e ancora cinque anni fa non era così. Quando venne fuori la prima guerra dell’Iraq, io me lo ricordo…Andai alla Camera e parlai.
Bruno Roberti: C’è un arroccamento non solo sul piano del conflitto, della guerra, della difesa, ma anche in termini militari rispetto alle masse dei migranti, che vengono in pace.
Pietro Ingrao: Quello è un altro aspetto, che però c’era già prima, un po’. Adesso si sta esasperando.
Bruno Roberti: C’è un sud del mondo che giustamente preme e che prende campo e parola.
Giona Nazzaro: Si risponde a questa esigenza di lavoro, dignità, di una vita migliore non in termini di estensione, di accesso ai diritti, alle risorse, ma si risponde in termini di restringimento delle risorse e dell’accesso ai diritti a sempre più consistenti fette della popolazione nazionale e mondiale, ed è terrificante rispetto a ciò questo calo della tensione critica della sinistra che poi alla fine legittima queste derive della destra…
Daniela Turco: Questa è anche un’operazione fatta per abbassare il livello di tutti, i diritti di tutti, chiaramente.
Bruno Roberti: Prendiamo poi il fatto scandaloso di prendere le impronte. Poi quando in molti sono insorti, la posizione di Rutelli è stata: “prendiamole a tutti”, il che è tra l’altro ridicolo.
Giona Nazzaro: Ma non è solo in questione la Bossi-Fini, perché ad esempio quando si parla di articolo 18 nessuno di loro dice: ”no, le garanzie di una vita migliore non si danno togliendo, ma estendendo a chi ancora non ha”, estendendolo quindi anche a quelle aziende con meno di 15 dipendenti. Una sinistra dovrebbe dire questo, si dovrebbe lavorare per un allargamento, per un’estensione…
Bruno Roberti: Di fronte a un’affermazione molto precisa di antagonismo da parte del movimento o comunque a un’affermazione senza compromessi…
Pietro Ingrao: Questa è una cosa tutta da costruire, non illudetevi, è una cosa che oggi non c’è e bisogna vedere se adesso si comincia a ricostruire. C’è stata una sconfitta e anzi forse l’Italia è il paese in cui già cominciano a emergere dei movimenti durevoli che stanno facendo qualcosa, però hanno vinto loro su questioni di fondo, sulla guerra, la pace, il lavoro. E sento il dovere di metterci anche me stesso…C’è stata una sconfitta storica che dura da dieci anni. Io la faccio cominciare anche da prima, la sconfitta dell’Unione Sovietica, errori pesanti della sinistra europea, adesso bisogna vedere se viene avanti una nuova generazione e ha inizio una qualche riscossa.
Giona Nazzaro: Io ho l’impressione che fin quando la sinistra non riesce a capire quale modello economico contrapporre a questo neoliberismo che sembra la panacea di tutti i mali e produce solo miseria, finché non si scioglie questo nodo non si va da nessuna parte.
Daniela Turco: Finché non si pensa a una redistribuzione e non si ricomincia a parlare di conflitto di classe…
La conversazione con Pietro Ingrao integralmente registrata si è tenuta nella sede della redazione di Filmcritica in piazza del Grillo a Roma il 6 giugno 2002