Jacques Rozier. In un piccolo film la stessa anarchia di Jean Vigo
di Sergio Arecco
In memoria di Jacques Rozier (novembre 1926 – giugno 2023)
Se mai Jean Vigo ha avuto, non diciamo un erede – periodo ipotetico dell’irrealtà – ma quantomeno, una volta stabiliti specifici ordini di grandezza, un seguace, un emulo, un epigono, costui non può non rispondere al nome di Jacques Rozier. Il quale, non per nulla, dedica a Vigo uno dei ritratti di Cinéastes de notre temps (1964), riuscendo a riconvocare quasi per intero la “bande Vigo” di un tempo e a farle raccontare i mirabilia dell’enfant prodige. E, quando si misura, prima dei trent’anni, con il cinema, convogliandosi, in scia all’amico ed estimatore Godard, nel grande alveo della Nouvelle Vague, fa, con la consapevolezza del discepolo e dunque con estrema umiltà, del cinema à la Vigo.
Che cos’è il suo primo vero corto, Rentrée des classes (1956, 24’, b/n, 35 mm), se non una rivisitazione in sedicesimo di Zéro de conduite? Tra l’altro con un anno di anticipo su Les mistons di François Truffaut (1957), che operina di dileggio della scuola non è, ma è pur sempre operina di dileggio degli adulti da parte dei ragazzini – i mistons sono i monelli rompicoglioni – in perpetua vacanza, tra l’altro sotto il sole esultante del Midi/Provenza, così come i mistons di Jacques Rozier lo sono sotto il sole esultante del Midi/Var. Con, per Rozier, il quale non ha contatti con Truffaut, una discriminante che fa del suo corto un unicum nel panorama della nascente Nouvelle Vague, in quanto filiazione diretta da Vigo: il clima della rentrée dalle vacanze estive. Considerando che, per i francesi, la rentrée è molto più di un comune rientro: è un’istituzione nazionale, un radicale cambio di regime e di passo che si rinnova ogni anno, come un nuovo inizio o una nuova emergenza di vita. Un trauma insomma, un ripetuto rito di passaggio.
Figurarsi a scuola! Tanto che uno dei mistons di Rentrée des classes, René Boglio (nome e cognome del protagonista), lo elabora e lo interpreta, à la Vigo, nella maniera più antagonistica possibile, non solo marinando il rientro tra i banchi, ma, per annichilire i compagni André, Pierre e Nicole (una bambina) che lo sfidano a lanciare la cartella giù dal ponte sul Var, marinando le istituzioni radicali in sé, di cui la cartella costituisce un feticcio simbolico. Salvo poi, mentre gli altri sono corsi tutti a scuola tra le stradine piene di sole del piccolo villaggio di Correns, scendere lungo gli argini del fiume, entrare in acqua, ripercorrerne il corso, alla ricerca della cartella buttata ma non annegata.
Resipiscenza? Un cantore del diverso e dell’eterodosso, della flânerie – qui acquatica – e della fuga sul filo della durata senza tempo del mito, della pura grazia dell’esistere e dell’ilare fragilità dell’istante, quale è l’infantile Rozier, non l’autorizzerebbe. E infatti, una volta recuperata la cartella, zuppa di fogli divenuti illeggibili, René ne fa una sorta di ciambella per il suo bagno lustrale e solare, un cerimoniale di beatitudine nel cuore di una natura fantasiosamente bucolica. Dopodiché, concluso il rito, se ne inventa un altro complementare: l’attorcigliamento di una biscia attorno al polso e al braccio – altro logo medicinale e terapeutico, dopo la terapia del momentaneo sacrificio della cartella. Così, quando finalmente è pronto per raggiungere l’aula, dopo l’intervallo (il suo è stato, con la complicità di Rozier, solo un intervallo molto più lungo), René può gioire di una duplice beffa: la cartella non è solo zuppa d’acqua, è anche zuppa dell’acqua che fa da alimento alla biscia.
Se il seguito dell’avventura, con la chiamata a rapporto, da parte del maestro infuriato, del vecchio zio del fanciullo, reo di aver svolto, sbagliandoli, i compiti della vacanze al posto del nipote, è troppo farsesca per essere pienamente in linea con la poetica dell’école buissonnière (primo titolo del corto, escluso per la concomitanza di un precedente titolo dello stesso tenore del regista Le Chanois, 1949) finora praticata – Rozier cadrà a volte in trappole del genere, concedendo spazio all’improvvisazione e alla manipolazione di attori lasciati troppo liberi –, il danno qui prodotto resta comunque riparabile. E Rozier usa l’accortezza registica di riprendere il filo conduttore dell’anarchia di Rentrée des classes, il filo serpentino e capriccioso della biscia simbolica, per terminare in bellezza l’allegoria della sua école buissonnière: l’invidia condivisa dall’intera classe per la terapia d’urto di René – il topos della fuga dalla finestra del maestro terrorizzato dall’animale strisciante tra banchi e cattedra è l’omaggio più (im)pertinente che Rozier possa offrire agli umori destabilizzanti di Zéro di conduite – e la collettiva rincorsa per le strade sempre assolate a un René intenzionato a riportare la biscia là dove l’ha raccolta, dentro il grembo naturale del fiume.
Il che non è atto di contrizione ma di libera responsabilità. I desideri nel sole dei ragazzini (Rozier definisce così i suoi eroi, e Desideri nel sole non è che il titolo italiano di Adieu Philippine, 1962, il primo e più fortunato lungometraggio del cineasta) di Rentrée des classes sono stati ampiamente esauditi. Rozier, futuro evocatore di acque e isole, di spazi aperti e luminosi, sul filo dell’ibridazione del documento con la fiction, ha posto una pietra miliare nella storia del corto francese d’atmosfera, con una capacità di manovra della mdp che ha dello stupefacente, tra zoom e plongée, piani-sequenza e movimenti spediti. Quanto ai ragazzini, basti dire che la musica di accompagnamento al corto, di Darius Milhaud, è tratta da La Création du monde.