In margine a Chris Marker scrittore: un incontro al vertice tra cinema e architettura
di Sergio Arecco
I tre puntini del titolo del documentario… à Valparaiso, spesso dimenticati dai dizionari, sono indispensabili. Stanno a indicare l’espunzione di un primo emistichio, di cui …à Valparaiso (b/n e colore, 35 mm, 28’, 1962) costituisce il secondo: “Entonces nosotros vamos a Valparaiso”, il cui verso precedente dà, volendo, il senso all’insieme: “Adiós, Mexico!”. Perché l’insieme fa parte di un antico canto di marinai, e allude alla vita nomade degli stessi, da un paese all’altro, da un porto all’altro. Un po’ come quella dell’Olandese volante Joris Ivens (1898-1989), una quarantina di film in una ventina di paesi diversi, al quale deve essere molto piaciuto “atterrare a Valparaiso” e deve essere molto piaciuto il canto di Germain Montero, tanto da indurlo a farne il leitmotiv del film. Da un porto all’altro. Con un Ivens che decide di inaugurare … à Valparaiso con un’immagine di navi avvolte dalla bruma, come se non si trattasse del porto cileno, il secondo del paese, ma di un porto come quelli di Rotterdam o di Amsterdam: per un’intermittenza della memoria che parrebbe incomprensibile in un déraciné come lui – se non fosse che Ivens è un déraciné riluttante, che finisce sempre per tornare, prima o poi, al proprio paese d’origine. Dunque un iniziale porto delle nebbie. Ma solo per pochi istanti. Perché Ivens, rapsodico per il suo spirito di erranza, è rapsodico anche per lo spirito erratico del montaggio. A meno che, in … à Valparaiso, il montaggio fuori dagli schemi non glielo abbia dettato la potente suggestione del testo di Chris Marker, per una volta né regista né montatore, ma più che mai presente come tale in ogni momento cruciale del cinema moderno: qui con uno dei suoi commenti più evocativi e lirici, pieno di enjambement non tanto metrici o strofici quanto narrativi. Un esempio. Marker, per la voce di Roger Pigaud, nomina nella seconda parte la presenza, a Valparaiso, del terzo e del quarto degli elementi costitutivi dell’universo, sostituendo tra l’altro il fuoco con il sangue (l’altro è l’aria), senza aver mai nominato nel primo segmento i primi due, che sono – e le immagini per fortuna lo confermano – quelli che tutti conosciamo: la terra e l’acqua. Ivens, infatti, invitato a Valparaiso dalla Universitad do Chile per tenere un ciclo di conferenze, rimase talmente affascinato dalla “città in salita e in discesa” da soggiornarvi due mesi. E vi documentò non solo quel dettaglio – la città in salita è costruita su quarantadue cerros (colline) ai quali corrispondono quarantadue aldeas (villaggi, quartieri), dai quali si dipartono quarantadue ascensores, piccole funivie su binari ripidissimi nate nel tardo Ottocento; o quarantadue ripide scalinate per chi ha il coraggio e la forza di andare a piedi, trait d’union tra l’arriba e il bajo, in un andirivieni continuo che coincide con la cinetica stessa del film –, ma cento altri dettagli: dalle attività portuali al mercato del pesce al passeggio lungo il mare ai caseggiati… in pianura, testimonianze del passato coloniale (spagnolo, inglese, francese, olandese). Posto quindi che …à Valparaiso non può essere la sinfonia di una grande città (vedi la Berlino di Ruttmann o la Mosca di L’uomo con la macchina da presa di Vertov), non essendo la sua topografia reinventata secondo una scansione temporale rettilinea, vale a dire secondo il parametro orario – alquanto tedesco e alquanto sovietico – delle ventiquattro-ore-ventiquattro ritmate dall’alba al tramonto; e posto che può essere solo in parte un travelogue, potendone condividere sì la qualità frammentaria del diario di viaggio ma non certo la successione delle annotazioni datate giorno dopo giorno; non resta, per definire il corto, che un’opzione: quella del saggio lirico. Stante lo stile intimistico della “voce struggente” (per interposta persona) di Marker e stante lo stile caleidoscopico delle riprese di Ivens (montaggio originario di Ivens o post-montaggio di un Ivens condizionato da Marker, a questo punto poco importa). Il nativo Pablo Neruda – che non appare, ma che ha molto insegnato a Ivens durante i due mesi di lavorazione, ricevendone come cadeau il cameo ivensiano della bellissima moglie Eva Fiszer biancovestita a passeggio sotto il sole dei vicoli con l’ombrellino ugualmente bianco – non ha forse parlato di “caleidoscopio di contrasti”, di “riflesso della vita in verticale”, di “forza di gravità in bilico sul caos”? Ebbene. Marker risponde con locuzioni non meno immaginose come “incontro al vertice tra cinema e architettura”; “vertigine visiva in cui, grazie al sole, la miseria non sembra miseria e gli ascensori non sembrano ascensori, consistendo in ciò l’inganno di Valparaiso: il suo inganno è il sole e la sua verità è il mare”; “pencolamento organico in cui lo scalinamento perpetuo è stravagante e faticoso, abominevole e allegro, inumano e solenne, ridicolo e insolito”. Menomale che ci pensa Ivens, meno poeta forse, o forse solo più pragmatico, a illuminarci sulla claustrofobia dei piccoli ascensori, sull’estenuazione della salita a piedi, sull’angustia urbanistica di case perlopiù triangolari come prue di navi puntate verso il nulla, difficilmente ammobiliabili, con finestre e balconi sempre aperti verso l’esterno per non soffocare. E soprattutto a illuminarci sui due elementi che Marker non ha nominato: la terra – polvere, ghiaia, sassi – dove scorrazzano bambini che, per illudersi di sollevarsi dal suolo, hanno a disposizione solo gli aquiloni; e l’acqua – magri rigagnoli –, per il rifornimento della quale si adoperano gli abitanti stessi, con provvisorie opere di canalizzazione. Fino a che, dopo 20’ di b/n, Ivens non decide, genialmente, che è venuto il momento di rivelare allo spettatore il colore di quegli aquiloni; di quei quarantadue ascensori la cui danza in travelling lo ha emozionato al punto da farne un epos allegorico (sono gialli come i tramway dell’Alfama di Lisbona). Di quei murales che, in un episodio, hanno fatto da sfondo a una danza molto meno metaforica, quella improvvisata nelle balere nei giorni festa. Di quei frangenti che si abbattono puntuali sugli scogli, bianchi come i gabbiani che impazzano sull’anfiteatro del porto e tendono a monopolizzare per intero lo spazio dell’inquadratura. E fino a che non decide sulla liceità dello scambio markeriano dell’elemento fuoco con l’elemento sangue: i murales, i mosaici e i dipinti, coniugati rapsodicamente da un montaggio qui sicuramente ivensiano, ci raccontano una storia calamitosa di flagelli naturali e di flagelli storici: terremoti e decapitazioni dei conquistadores, ribollimenti di terra e, appunto, ribollimenti di sangue. Vicino a Valparaiso c’è Viña del Mar, ci ricordano sia Marker sia Ivens, il quale tuttavia si guarda bene dal mostrarcela. Al punto che, nel 1963 e 1964, tornerà a documentare ancora ed esclusivamente Valparaiso: nel caso, le ragioni geopolitiche del suo “falso paradiso”, da sempre decantato (furono gli spagnoli a battezzarla così, per la sua incantevole posizione sulla baia) e da sempre frustrato. Qualcosa che, oltre mezzo secolo dopo, in Ema (2019) non mancherà di ritradurre, alla sua maniera febbrile e isterica, un grande regista postmoderno come Pablo Larraín. La cui Valparaiso sarà certo dipanata tutta in orizzontale – quasi a smentirne, in un’opera sia fisicamente sia concettualmente trasgressiva, la genesi e la politica illustrate da Ivens e Marker con l’esaltazione della verticalità. Ma che concentrerà la sequenza culminante del film, quella della riconciliazione in lacrime della vendicativa Ema con la ‘tradita’ Raquel, nell’abitacolo di un ascensore in salita, come per tacitare da un lato la propria coscienza (“Pablo, devi permetterti un omaggio a Joris e a Chris”) e dall’altro l’iconografia di una Valparaiso visionaria, fin troppo esuberante nei suoi colori, diurni o notturni; fin troppo sbilanciata, tra un’orgia coreografica (non solo le prove o le performance di danza, anche gli incendi sono coreografici) e un’orgia postribolare.