Il piano sequenza come avventura
di Giovanni Festa
La vita è un piano sequenza o un’operazione di montaggio? Non appena cominciamo a formulare la domanda – e Pasolini lo sapeva benissimo – spunta fuori la morte a complicare tutto. Prendiamo tre piani sequenza con il primo che, apparentemente, non ha nulla a che fare con gli altri due: si tratta di quello, molto famoso, di Touch of Evil (1958) di Orson Welles; il secondo, è il piano sequenza fisso con cui inizia Historias extrardinarias (2008) di Mariano Llinas; il terzo è quello con cui si conclude Ostende (2011), di Laura Citarella[1], gli ultimi due membri del collettivo argentino Pampero cine. Alla fine, aggiungeremo un piano sequenza “in più”, che, per ora, terremo nascosto.

Nel “caso” del Quinlan (Godard voleva associare analisi psicoanalitica e fotografia: non è possibile associare il lavoro di analisi anche con il piano sequenza?) sono le azioni che si svolgono simultaneamente (la coppia formata da un poliziotto messicano e sua moglie nordamericana e la morte nell’esplosione dell’auto di un potente del luogo e della sua giovane amante), più il dialogo che le commenta (sappiamo che la coppia si è appena sposata; che ci troviamo in una città di frontiera; che la polizia sta combattendo contro una banda criminale) a mettere in moto l’intrigo. Si potrebbe dire, con un linguaggio un po’ abusato, che l’esplosione che conclude il piano sequenza è la miccia che dà inizio al meccanismo della trama e delle sue macchinazioni. Qui azione e dialogo hanno la funzione che Roland Barthes chiama “rilievo”: un frammento di dialogo rivela come immagine e parola si scoprono complementari. L’unità del messaggio avviene a livello di diegesi: nel cinema non si tratta di una funzione puramente esplicativa (che orienta e àncora), ma permette all’azione stessa di svilupparsi. Inoltre, l’occhio della cinepresa che accompagna i protagonisti si muove con loro; non si tratta di un medium neutrale ma di una macchina perversa-polimorfa che ad ogni momento espone e mostra la porzione scelta di mondo dentro il quale dobbiamo lasciare vagare il nostro sguardo che è letteralmente affascinato dal movimento pieno di saggezza, eleganza ed esuberanza del dispositivo wellesiano, che solo un evento improvviso può arrestare (o sconvolgere). Godard e Anne Marie Miéville, in Comment ça va (1976) dicono (riferendosi alla foto giornalistica) che il lettore dell’immagine non sa dove guardare, che non si rende conto di essere solo un ricettore. La macchina da presa di Welles è come se ponesse sotto agli occhi dello spettatore una griglia, dove sono segnati i passi che deve fare l’occhio e il luogo dove, di volta in volta, situarsi e, quindi, “prendere una posizione” che è la stessa dell’autore del film.

Anche nel piano sequenza di Historias extraordinarias vediamo un’azione che si svolge davanti ai nostri occhi e che si conclude con un crimine inaspettato (nel fotogramma vediamo esattamente il momento nel quale l’uomo con il pick–up rosso, che ha appena preso il fucile, lo punta contro l’uomo a sinistra che si allontana di spalle e che verrà ucciso), ma è tutto diverso. La cinepresa prima di tutto non si muove e invece di accompagnare i personaggi nella loro traiettoria rimane a mezza distanza, permettendo di osservare le geometrie fatali che si creano tra i personaggi e tra questi e l’ambiente esterno (le balle di fieno, che assomigliano un po’ a quelle di carne che Boiffard fotografò davanti all’Abattoir di Parigi, introducono degli ostacoli che, secondo Comolli, eccitano lo sguardo dello spettatore che vuole “vedere tutto”. Llinas è uno egli autori che ha compreso più lucidamente l’altra grande lezione di Welles, vergata all’inizio di Citizen Kane: ogni racconto di una vita deve sempre passare attraverso l’effrazione di un no trespassing originario e non può essere un caso che una delle voci over scelte dal regista nel film sia quella di Nicolas Prividera, il cineasta che ha fatto del movimento propedeutico wellesiano quello di tutto il suo cinema, fino a mostrarlo con gesto en abyme sullo schermo di una televisione nel suo film Adios a la memoria).
Nel piano sequenza di Historias extraordinarias l’autore entra in scena comunque: ma invece che attraverso l’occhio della macchina da presa, sceglie di farlo attraverso un mezzo apparentemente datato: il commento con la voice over. Questa dimensione testuale, che è allegata all’immagine, innesta tutta una serie di elementi che apparentemente descrivono ciò che sta accadendo, ancorando la storia a un determinato sviluppo, e in realtà dissemina dubbi, solleva domande: lo spettatore di Llinas è, allo stesso tempo, quello che Ricardo Piglia definisce un “lettore paranoico” (ci sarebbe molto da dire sulla relazione tra questi due autori argentini).
In La Flor l’autore decide di mostrare un pezzo di campagna recintato da una staccionata: la voice over stavolta, invece di descrivere il luogo mostrato dall’immagine, inizia a raccontare quello che i personaggi hanno visto durante la continuazione del loro viaggio, nei luoghi futuri che non fanno ancora parte dell’immagine e che non lo faranno mai, perché non ci verranno mostrati ma solo detti, curando la ferita per la cosa non vista con il balsamo del verbo “vieron”. Il verbo ci rassicura sul fatto che quello che non si vede, si può sempre raccontare (potenza di tutte le vecchie storie e potenza di tutte le immagini che non sono nostre eppure finiscono per far parte della nostra memoria personale): “lagunas”, “vacas pastando a lo lejos”, “casas muy antiguas pintadas de rosado, o de rojo”, “palmeras bajas y solidaritarias”, “portones de madera con palabras escritas en carteles, palabras incomprensibles” , “hilos de alta tension, alejandose al horizonte como gigantes”, “arboles secos y postes de luz, o de telefono, que algun rodedor o algun pajaro habia construido extranos nidos de tierra”.
In entrambi i casi il piano sequenza appare come un dispositivo predisposto a raccontare una storia dove sembrano risuonare alcune frasi che Jean-Luc Godard utilizza nell’ultima parte delle sue Histoire(s) du cinema, quando compone le sue personali “Tesi sul concetto di storia” scritte da qualcun altro (mentre vediamo una sequenza molto interessante di “scavo”, quella che rivela gli amanti pompeiani in Viaggio in Italia di Rossellini: già Benjamin aveva associato storia, memoria e scavo).
Ci sono due citazioni in particolare che può essere interessante isolare dal contesto godardiano. La prima è di Emil Cioran e sembra commentare il piano di sequenza di Llinas, poiché dice “ci sono quelli che vogliono negare la propria miseria come se la nostra vita fosse, purtroppo, a nostra disposizione; nulla di ciò che sappiamo rimane senza espiazione. La paghiamo cara, prima o poi, non importa quale coraggio del pensiero o indiscrezione dello spirito”. La seconda è di Charles Peguy e recita “ah la storia, è una cupa fedeltà per le cose cadute”, fornendoci il commento perfetto al film di Welles, che si conclude con Quinlan, il poliziotto corrotto, morto nel fango come un re shakespeariano (la frase godardiana si potrebbe sovrapporre a quella di Marlene Dietrich alla fine del film che, davanti al cadavere dice – più o meno -, con una smorfia: “che importa cosa si dice dei morti”, dichiarando inutile ogni lavorio dello storico -o del biografo-).

Il terzo “caso” è quello di Ostende. A differenza di quello che accade nel film di Llinas, nel piano sequenza di Laura Citarella non vi è alcun commento all’azione, che si verifica semplicemente alla fine di tutte le ipotesi e di tutti i sospetti. Il punto di vista poi, invece di essere frontale, è posto leggermente in alto, e questo indica un diversa atteggiamento davanti a ciò che si osserva.
Anche se, come accade in Llinas, la macchina da presa si mantiene a distanza, non ci troviamo all’altezza degli eventi, ma, molto distanti, è come se li vedessimo nascosti. Stavolta “l’ombra del dubbio”, invece di sorgere a causa di una narrazione che, sviluppata mentre l’azione si svolge, produce una serie di domande, si affaccia di fronte all’essere invisibile che sta guardando. Chi è colui o colei che guarda da sopra l’altura? Chi sta osservando quello che succede? È la macchina da presa, il dispositivo abbandonato alla sua sovrana impassibilità, lasciato acceso come faceva Warhol? È la protagonista del film, detective improvvisata? o siamo noi a guardare? È colpa nostra, vero? (quest’ultima domanda si è aggiunta a caso perché lavoravo contemporaneamente a un altro testo: la lascio così, accogliendo il suggerimento di Godard di imparare a leggere le frasi che si intromettono tra le linee del discorso, come si dice di un soldato che penetra tra le linee nemiche).
In realtà, scopriamo che ogni figura diventa, all’interno di questa gabbia mobile che è il piano sequenza fisso, un essere-per-il destino: secondo una meravigliosa metafora di Simone Weil, “essere per il destino” significa “essere ciò che la penna è per me quando con gli occhi chiusi palpo il tavolo con la sua punta”.
Destino che si lega al concetto di avventura. C’è un testo di Giorgio Agamben che parla, appunto, di destino e avventura. Per il filosofo esistono due tipi di avventura: l’avventura di primo tipo si realizza come incontro con il mondo e incontro con sé stessi, è fonte di stupore ed è caratterizzata da un evento inaspettato o da una catena di eventi che porta a una risoluzione. L’avventura di secondo tipo è storia, racconto, trasposizione.
È come se il piano sequenza wellesiano ci mostrasse, attraverso l’immagine cinematografica, la prima avventura, canonica, con l’arrivo dell’evento inatteso nella vita quotidiana di una cittadina di frontiera. E, dopo, una catena di eventi che porteranno a una risoluzione di tipo elisabettiano.
Con Llinas accade qualcosa di diverso: evento e trasposizione, avventura e parola, avvengono nello stesso momento. L’avventura non precede il racconto, ma ne è inseparabile. Si tratta di raccontare l’avventura mentre avviene come se essa, l’avventura, fosse sempre già scritta; in La flor, vediamo lo stesso regista-narratore mostrare lo schema (un disegno simile a un fiore fatto da lui stesso di fronte alla macchina da presa) che è alla base dell’opera, come un cristallo senza tempo che unisce la catena degli eventi e della memoria. Quelle di Llinas sono, tutte, “storie straordinarie”. Julio Cortázar ne propone una definizione perfetta nella prefazione del Gordon Pym di Edgar Allan Poe (maestro assoluto di questo genere di storie): l’autore di Rayuela definisce la storia straordinaria come un “genere che dovrebbe qualificarsi di realismo magico e che possiede un doppio valore, quello del libro di avventure pieno di episodi vissuti”, e quello di mostrare “una corrente sotterranea evasiva e strana”. Ma le cose non accadono nello stesso tempo. Si passa da 1 a 2, si tratta di un tragitto che si compie e non di una simultaneità che si produce, e a permetterlo è la figura della spirale, sulla quale ritorneremo (da Eisenstein a Hitchcock, da Marker a Godard, è una lunga storia).

Arriviamo così all’ultimo frammento, che avevamo lasciato nascosto: si tratta del piccolo momento, in Melancholia di Lav Diaz, che mostra semplicemente una ragazza che si bagna nel mare. Non c’è nient’altro che la registrazione di un istante isolato, di piacere: la ragazza si gode il bagno in un’acqua piatta, trasparente, con lontano tre isolotti che chiudono il quadro inserendo, come negli esempi precedenti, un elemento estraneo al semplice corpo. Non c’è più azione intorno che la coinvolga; non c’è più commento che la esponga; non c’è più reciprocità che la condanni; si tratta di una figura che è riuscita, come direbbe ancora Simone Weil, a staccarsi dai frutti dell’azione per affondare in un’azione non attuante (azioni come queste, erratiche e che non conducono ad altre azioni che le qualificano o giustificano, sono tipiche di un certo tipo di cinema che predilige quelle che Raul Ruiz chiama “scene miste”). Il taglio che termina il piano sequenzia non è, come in Welles, un’esplosione o un colpo di pistola, ma semplicemente il momento in cui viene mostrato, da un punto di vista laterale, la riva, e il giovane che aspetta e osserva la ragazza mentre esce, anadiomene, dall’acqua.
Se nel film della Citarella (che possiede qualcosa della sensibilità panoramica e dolente del dispositivo di Lav Diaz) tutte le ipotesi aperte lungo il film si chiudevano davanti all’immagine di una spiaggia deserta e ai corpi distesi di due donne morte, e in Welles e Llinas quelle stesse linee narrative si aprivano verso una moltitudine di possibili direzioni che la storia stessa avrebbe, in modo affatto diverso, tagliato e selezionato, qui vediamo come l’immagine passa dalla progressione a qualcosa di simile al disconnesso: se questa immagine isolata di godimento in riva al mare è vista come un’immagine isolata, senza prima né dopo, non dipende, allora, da una questione di trama. Dopo scene di “baci e pistole” siamo sempre portati a chiederci infatti “chi è stato a provocare questo?” in modo proiettivo o retrospettivo. Qui si tratta di un’immagine che può essere guardata senza un prima né un poi e permetterebbe quella che Elias Canetti chiama “l’uscita del pensiero già formulato”.
È anche vero che una sequenza come questa, estratta programmaticamente dal flusso, rimane polisemica e aperta ad ogni tipo di senso possibile poiché, a differenza delle altre tre, non ha dialoghi, parole, commento, o un’azione composta da più personaggi che, come suggerisce Deleuze parlando delle figure nei trittici di Francis Bacon, ci suggeriscono, in virtù della loro semplice compresenza, sempre degli itinerari possibili. E questo apre altre questioni.
L’immagine disconnessa è un invito alla libertà; tuttavia, dietro la libertà c’è seduzione e pericolo. Questo ritorno alla datità, all’immagine naturale senza alcuna connotazione, ha due facce: la prima è il pericolo di essere riutilizzata o modificata; la seconda è un invito al silenzio, la possibilità di fare silenzio dentro di sé e generare immagini-pensiero nuove.
Ma allora, una delle differenze tra piano sequenza e montaggio potrebbe essere individuata, ad esempio, nel fatto che il primo, adottando il mezzo della camera fissa, ci sembra il mezzo più adatto per restituirci il mondo sotto l’oppressione di forze cieche, mostrando come il risultato, la meta, non sono del tutto efficaci, ma possono esserlo solo insieme al loro divenire.
Nel montaggio l’immagine che segue aggiunge sempre qualcosa alla prima. La spiega o aggiunge ad essa altre direzioni possibili, che premono per realizzarsi uscendo così dalla virtualità che le sta consumando: che ne è del cammino non realizzato, dell’azione non intrapresa? Semplicemente, finiscono nell’indeterminato? Il posto per tutto il non eseguito, per tutte quelle speranze che sono scadute nell’attesa, è forse il fuori campo assoluto di cui parla Deleuze? Ha senso sentire dolore e pena per tutte quelle povere storie che non sono riuscite a realizzarsi? Ha senso dolersi per tutto quello che poteva accadere e che è stato tagliato fuori dal flusso della storia? “Un lampo, e poi il buio”, direbbe Baudelaire, nel campo della vita personale (e amorosa): e se facessimo migrare tutto questo nel campo della Storia? Benjamin dice che per essa “niente è perduto” ma si tratta pur sempre di avvenimenti che sono accaduti (è la definizione della storia secondo Marc Bloch): la disciplina che si fa carico del non-accaduto, compilando una specie di archivio fantastico e mostruoso dove vengono custodite tutte le vicende non intraprese e le sviluppa, è l’ucronia, che però non ha dignità scientifica, ma solo letteraria. Pensare il non-vissuto per riarticolarlo è infatti compito dell’arte che, appunto, monta insieme. E questo implica raccord, forza associativa, pensiero. Nel caso del piano sequenza, diventa evidente (ma è solo un’ipotesi) in modo più travolgente l’idea di essere gettati in una situazione da cui non si può sfuggire e che tuttavia rimane impenetrabile.
Immaginiamo una massa di rivoltosi che vuole prendere possesso del palazzo del potere, per esempio, i soviet il Palazzo d’inverno, o il popolo francese la Bastiglia. In un film organizzato secondo il principio del montaggio narrativo, vedremo prima una ripresa totale della folla e poi la facciata del palazzo: abbiamo l’agente e l’obiettivo: tutto è molto chiaro, grazie a un principio di organizzazione preliminare dei fatti (questa dimensione di preparazione non è che nel piano sequenza non esista: ci sono casi, come in Hitchcock-Sokurov-De Palma, in cui il piano sequenza non è altro che montaggio mascherato); a volte, però, accade qualcosa di strano (chissà a causa della staticità della macchina da presa): ci troviamo a partecipare al lento movimento in avanti della massa verso un obiettivo che ancora non vediamo (non possiamo far altro che seguirne, un poco meravigliati, lo spostamento). Invece di mostrare una meta, vediamo il percorso; invece di un detto-fatto, il racconto di un’esperienza vitale carica di destino; invece dell’Eruzione del Vesuvio del 1631 di Micco Spadaro (che però, essendo un quadro, e quindi l’espressione visuale di una simultaneità di fatti che agiscono nella loro separazione, è carico comunque di questa forza destinale), La Libertà che guida il popolo di Delacroix (dove vediamo il movimento, e non l’obbiettivo, la folla che viene in avanti, e non la sua meta, vediamo il passato, che si configura come silhouette di palazzi bruciati dietro di essa e non il futuro -che, se ci pensiamo bene, sarà il Terrore); invece del cannone di Ottobre di Eisenstein, Le armonie di Werckmeister di Bela Tarr. Invece del montaggio, il piano sequenza.
Sulle macerie fumanti della Bastiglia, gli insorti ballano. Questo sarebbe possibile mostrarlo solo dopo un taglio (il piano sequenza corre il rischio di slabbrarsi quando mostra due incommensurabili. Esso funziona solo nella continuità: eppure, anche questo salto accade: pensiamo alla mescolanza di vita-morte in Piccole volpi di Wyler. Ma, da un lato, si trattava di un equilibrio ricostruito al millimetro, impossibile da improvvisare; dall’altro, non c’è niente di incommensurabile tra vita e morte che sono nemiche solo in occidente: il piano sequenza, al contrario, permette di mostrarle proprio nella loro continuità, come continuità (e non è un caso che situazioni di questo tipo abbiamo trovato nel cinema orientale le applicazioni più raffinate ed estreme). Dopo il taglio di montaggio, si diceva, la massa danza. Ma come mostrarlo? La macchina si muove, ed è la danza de L’orgoglio degli Amberson. Si lavora al tavolo di montaggio, ed è il pathos de La congiura dei Boiardi. In un caso come nell’altro, bisogna essere poeti. O, comunque, capitani coraggiosi. Perché la vita, come l’immagine cinematografica, è un’avventura.
[1] Rimandiamo all’intervista di Daniela Turco e Bruno Roberti all’autrice, che si può leggere sull’Almanacco di Filmcritica)