Il mistero del cinema
From the Ideal Standing point: Bernardo Bertolucci scrive il cinema
di Giulio de Martino
Ricordando Edoardo Bruno
Il 16 dicembre del 2014, al Teatro Regio di Parma, Bernardo Bertolucci (Parma, 16 marzo 1941 – Roma, 26 novembre 2018) tenne una lectio dottoralis in occasione della laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Parma. È stata recentemente stampata[1].
Luogo liminare del discorso di Bertolucci – richiamato più volte – era il fatto che, pure iscritto alla facoltà di Lettere della Sapienza, non aveva completato gli studi e non si era laureato. Perché? Perché il cinema lo aveva rapito, catturato, fagocitato come una «magnifica ossessione» o, disse dopo, come una «fascinazione». L’«università del cinema» – i dialoghi con Moravia, Pasolini, Morante ecc. – lo distolse dagli impegni universitari[2].
L’elemento «ossessivo» immanente al mondo cinematografico era congiunto, per Bertolucci, a un altro aspetto, a un «mistero». La «città del cinema» gli apparve come ombreggiata da un enigma che avrebbe cercato lui stesso di sciogliere facendo il cinema in prima persona. Meglio: «scrivendo con la macchina da presa»[3].
Bertolucci volle parlare a lungo di un’epoca in cui il cinema si era manifestato – tra Parma e Roma – come una «passione accecante». Il riferimento era ad un film, Accattone (1961) di Pier Paolo Pasolini, di cui fu aiuto regista. Quindi l’«âge d’or», quella in cui era avvenuto il suo «rapimento», erano stati i primi anni Sessanta del cinema italiano.
Tuttavia, prima dell’epoca in cui il cinema si espandeva in Italia come un’«arte favolosa», qualcuno aveva levato forte la sua voce imponendolo come la forma tutta contemporanea della «poesia». Parma era stata il luogo in cui, nel 1953, Attilio Bertolucci aveva organizzato il primo convegno sul neorealismo[4]. Bertolucci raccontò anche di un incontro esoterico con Jean Renoir, avvenuto nel 1974 a Los Angeles. Lo fece entrare in risonanza con la forza immane degli anni del neorealismo. Un legame collegava il cinema di Renoir e il cinema italiano del Dopoguerra: il cinema assumeva la realtà come contesto, il «mondo vero» distruggeva il «mondo favola». Ma quella «realtà» era fatta anche di casualità, di imprevisti, che irrompevano sul set modificandolo. «C’est la réalité qui vous fait un cadeau», gli disse Renoir[5].
Per Bertolucci, lo sciamano del cinema fascinatorio era stato Pier Paolo Pasolini. Fu «un padre», uno sperimentatore temerario, ma anche un maestro severo e intransigente. Per questo, compiuti i vent’anni, Bertolucci sentì l’esigenza di fuggire da lui. Ebbe la fortuna di incontrare, subito, un altro «maestro» per una sorta di catarsi dell’apprendistato. Fu Jean Luc Godard. Grazie a questo padre liberatore per Bertolucci si aprì lo scenario della Nouvelle Vague e il cinema diventò cinéphilie.
Il cinema non era rappresentazione di contenuti provenienti da di fuori: era quella «decima arte» di cui aveva scritto Cocteau, un’arte che inventava da se stessa il proprio linguaggio. Bertolucci definì questa autopoiesi del cinema come una scrittura, un «piacere del linguaggio» – Barthes scrisse del testo – che si concretizzava in un rapporto asimmetrico e conflittuale con i mass media che bersagliavano la società. Nominò Prima della rivoluzione (1964) e il documentario La via del petrolio (1967) come l’epifania della nuova lingua.
Bertolucci abbozzò anche una sorta di periodizzazione del suo cinema: l’età primaria in connubio con il neorealismo (La commare secca, 1962), la fase autoriale dei film di poetica (Partner, 1968), la fase di transizione ad un cinema che «dialogava con lo spettatore» (Il conformista, 1970; Ultimo tango a Parigi, 1972; Novecento, 1976) e poi la lunga fase del cinema mondo, del cinema dei luoghi lontani (L’ultimo Imperatore, 1987; Tè nel deserto, 1990; Il piccolo Buddha, 1993)[6]. Fino a giungere al minuto e mezzo di Scarpette rosse, girato a Trastevere dalla sedia a rotelle, facendo della condizione di disabilità «the Ideal Standing point» della camera[7].
Per Bertolucci la cinéphilie non coincise mai con gli apparati – scintillanti, rombanti e redditizi – del «sistema-cinema». Non erano sufficienti un buon soggetto, degli attori popolari, una forte produzione, una efficace propaganda per fare il vero «cinema». In questo modo si produceva un «film». Il regista costruiva un buon prodotto di serie per il suo pubblico. Per far risuonare nelle sale la «langue du cinéma» era necessario che il film avesse un senso, che le inquadrature fossero tenute insieme dalla bramosia di trasfigurare luoghi, persone e eventi. Un desiderio che Attilio Bertolucci aveva chiamato: la «smania dello story-teller»[8].
Il cinema giocava di anticipo rispetto alla realtà, la decostruiva. Sul set, il carrello, il dolly, la panoramica, lo zoom erano le categorie della lingua che l’autore modulava nel mentre che dava sfogo alla sua «magnifica ossessione»[9]. Il luogo in cui si veniva a collocare la telecamera per girare una scena era il luogo di una «conversione». Lì aveva origine un’altra parola, diversa da quella quotidiana.
E il mistero del cinema, allora, in cosa consisteva? Bertolucci non volle dirlo esplicitamente. Vi fece riferimento quando raccontò della ricerca, al cimitero di Tokyo, della tomba di Yasujirō Ozu. Sulla quella tomba «there’s nothing written», raccontò. Voleva dire che vi era inciso l’ideogramma Mu che tradurremo: il «nulla», in senso buddhista[10]. Bertolucci fece capire che la risposta al mistero del cinema la poteva dare soltanto il cinema.

[1] Bernardo Bertolucci, Il mistero del cinema, Torino, La nave di Teseo, 2021.
[2] Ivi, p. 14 e p. 27.
[3] Ivi, p. 64.
[4] Ivi, p. 17.
[5] Ivi, p. 18.
[6] Ivi, p. 57.
[7] Ivi, p. 76.
[8] Ivi, p. 65 e p. 25.
[9] Ivi, p. 69.
[10] Ivi, p. 72.