Il male oscuro d’Italia nel cinema
di Edoardo Nardi
Dopo le speranze nate con l’avvento della Repubblica, l’Italia del secondo dopoguerra inizia un lento percorso di revisione della propria Storia, tentando di individuare le cause che l’avevano resa una Nazione instabile, colma di conflitti civili, costruita su di una identità mai unitaria, ma costantemente incrinata tanto nel concetto di Regno che di identità nazionale dovuto al fascismo. In altre parole, gli intellettuali, attraverso ogni forma espressiva, antropologica o artistica, tentano di individuare il carattere del nuovo italiano, aperto alle prospettive di una ricostruzione finalizzata al benessere comune. Il cinema come sappiamo e come Godard ha da sempre sostenuto, funge da collante di questa ricostruzione, dona al paese un’identità perduta agli occhi del mondo, attraverso il neorealismo. Tuttavia è nella prima metà degli anni Cinquanta, che registi e sceneggiatori cominciano a confrontarsi non più con le macerie della guerra o con la povertà conseguente al conflitto, ma con la dimensione etica, sociale di un popolo che stava subendo una delle grandi trasformazioni che la sua recente storia nazionale ha costantemente prodotto.
Certo esiste la volontà di confrontarsi con il passato e con gli errori commessi, ma non si poteva non tenere conto di un’ambiguità di fondo che da sempre contraddistingue i comportamenti italiani e che non può ascriversi soltanto al trasformismo. Il cinema intercetta forse in modo ancora più evidente che non la letteratura, proprio per la sua natura popolare, quale rito di massa, tale contraddittorio carattere e ne propone una disamina acuta e necessaria, lirica e analitica al tempo stesso, attraverso opere diverse, ma accomunate dal medesimo sguardo lucido e disincantato. Nascono film come Maddalena (1954) di Genina, Traviata 53 (1953) di Cottafavi o gli speculari Giuseppe Verdi (1953) di Matarazzo e Senso (1954) di Visconti, capolavori in grado di confrontarsi con i grandi temi della formazione di un’identità nazionale attraverso le forme del melodramma in Matarazzo e Visconti, di una sopravvivente ritualità ancestrale in Genina o della matrice di una classe borghese in costante modificazione, ma individuata criticamente nell’opera di Cottafavi. Nell’importantissima produzione di tale periodo, mi sembra opportuno segnalare due film peraltro assai diversi, ma accomunati dal medesimo sceneggiatore: Vitaliano Brancati. Si tratta di Anni facili di Luigi Zampa e Viaggio in Italia di Rossellini, entrambi risalenti al 1953. Il film di Zampa fa parte di una trilogia sceneggiata dallo stesso Brancati, composta anche da Anni difficili (1947) e L’arte di arrangiarsi (1955). Certo la rilevanza estetica dell’opera rosselliniana non è paragonabile alla grottesca ed efficace messa in scena di Zampa, ma ciò che vorrei qui mettere in evidenza è come Brancati sia riuscito a calarsi quasi contemporaneamente in contesti tanto diversi, a contatto con due personalità complesse, a partire dalla propria opera che costituisce una delle pagine più illuminanti e forse dimenticate della letteratura italiana moderna. Attraverso tali due opere viene svelato non tanto banalmente il carattere degli italiani o la diversità bozzettistica del territorio, ma, soprattutto ovviamente in Rossellini, viene portato alla luce, messo compiutamente in evidenza, ciò che da sempre costituisce il segno distintivo del carattere italiano, ovvero l’identificazione assoluta, immediata della popolazione con il proprio contesto ambientale. Brancati scriverà in quegli stessi anni, ed uscirà incompiuto nel 1955, il suo capolavoro finale, quel Paolo il caldo che caratterizzerà il disfacimento del sogno di rinnovamento di una borghesia capace solo di reiterare nel sesso autodistruttivo e nei vizi del passato, la propria rivendicazione esistenziale.
Se nel film di Zampa, che vira troppo al bozzetto, tuttavia è presente l’amarezza ed il disincanto che Brancati coltivava sin dal Don Giovanni in Sicilia e da Glianni perduti, entrambi del 1941, sentimenti utili a dipingere l’Italia trasformista del post fascismo, colma di perbenismo e corruzione, è tuttavia nel confronto con Rossellini, nella sceneggiatura a quattro mani di Viaggio in Italia, che assistiamo al confronto tra il nostro massimo cineasta dell’invenzione ed uno degli scrittori più lucidi e critici che abbia annoverato la nostra storia letteraria. Nelle opere di Brancati, è evidente e determinante il tema della metamorfosi, di quel cambiamento che la vita provoca nei personaggi e che permette di comprendere perfettamente i mutamenti sociali. I romanzi stessi di Brancati, di certo i suoi maggiori, vedono l’ironia pungente e disincantata degli anni Quaranta tingersi dell’inchiostro di una rabbiosa e dolorosa rassegnazione, che culmina nelle vicende delle opere ultime. Trasformazioni che segnano anche l’arte di Rossellini, la cui inquietudine creativa non cessa mai di interrogarsi non soltanto sui temi dell’umano, attraverso una progressiva discesa nella psiche individuale, ma anche sulle possibilità espressive del cinema nel permettere un controcanto corale proprio alla dimensione altamente individuale dei protagonisti.
In Anni facili, l’onesto professore antifascista interpretato da Nino Taranto vede profilarsi nel dopoguerra i meccanismi repressivi e corrotti che appartenevano al regime fascista, ma anche al costume di una piccola borghesia perbenista e visceralmente ancorata al profitto, in una società che vedeva i primi sintomi del nuovo capitalismo che si andava affermando. Nel tentativo di corruzione che il professore sarà costretto a mettere in pratica a causa delle necessità familiari sempre più incombenti, Brancati e Zampa denotano caratteristiche socio culturali mai più mutate, quelle di un’Italia popolare contesa tra analfabetismo e tentativo di crescita sociale. Anche quella del professore rappresenta una metamorfosi, paragonabile al Giovanni Percolla protagonista del Don Giovanni in Sicilia, che partito da una simbolica Catania ed approdato alla produttiva Milano, farà ritorno nella sua terra con una consapevolezza diversa, attraverso la quale la sua indolenza pervaderà nuovamente la sua vita ed alimenterà di nuovo i suoi sogni erotici. L’erotismo di Brancati è cifra stilistica della sua narrativa, il termometro di una feroce e spietata analisi delle pulsioni della gente, pulsioni presenti nelle luci e nelle ombre che segnano il Viaggio in Italia scritto con Rossellini. La potenza narrativa di tale opera si avvale della coppia inglese protagonista, della freddezza erotica che oramai la caratterizza, al fine di ridestarne certo le passioni sopite, ma anche per definire un nuovo piano di realtà. La terra che Rossellini filma non appartiene più alla dimensione cosiddetta neorealista, caratterizzata da un assoluto naturalismo e non coincide neanche con i primi esperimenti di Antonioni che rilevano principalmente l’architettura di un paesaggio interiore, come in Cronaca di un amore (1950). In realtà attraverso la metamorfosi di una coppia che ritrova se stessa, Rossellini e Brancati espongono indirettamente la potenza ancestrale di un ambiente antico, sacro, come nelle scene ai Campi Flegrei o nel museo e che segna profondamente l’identità di un popolo.
Ebbene, nonostante il finale consolatorio ed edificante, appare evidente ancora oggi, nelle visioni disincantate dei tempi attuali, come la forza di conflitti oscuri e misteriosi, che non appartengono solo al nostro meridione, continuino da sempre ad operare nelle vicende d’Italia, tanto più nel momento in cui occorreva guardare positivamente all’avvenire, alla ricerca di ricchezza e benessere come antidoto alle piaghe della storia. Rossellini e Brancati hanno compreso come quelle forze costituiscano la vera matrice del nostro essere ed è per questo che la loro opera resta ancora per noi indispensabile.
