Il laureato di Mike Nichols. Un laboratorio di nuovi linguaggi
di Vittorio Giacci
Se è acquisito – e per noi di Filmcritica lo è – che per capire il cinema del presente e del futuro è indispensabile avere conoscenza di quello del passato, può essere illuminante ri-guardare opere che, al loro apparire, hanno proposto svolte innovative sotto il profilo diegetico, linguistico, espressivo e tecnico-formale.
E’ certamente il caso de Il laureato (Mike Nichols, 1967), giunto sugli schermi italiani all’alba di quella trasformazione epocale che fu il Sessantotto, tratto dall’omonimo romanzo di Charles Weeb; realizzato da Mike Nichols, un regista teatrale alla sua seconda esperienza cinematografica dopo Chi ha paura di Virginia Woolf?, e interpretato da due giovani attori anch’essi al loro debutto nel cinema da protagonisti, Dustin Hoffman e Katherine Ross, che recitavano accanto ad un’attrice come Ann Bancroft, già affermatasi per aver lavorato con John Ford, Allan Dwan, Delmer Daves, Arthur Penn, Sidney Pollack, Anthony Mann.
Il plot era apparentemente semplice ma inedito per l’epoca: un giovane studente di famiglia benestante, appena diplomato, Benjamin, “Ben”, Braddock, tornava a casa, in California, dove veniva festeggiato dai genitori e dagli amici, anche se preferiva restare solo con se stesso e con il proprio disorientamento per un futuro che non gli èra ancora chiaro, in silenzio, magari a contemplare la vasca dei pesci rossi, muti anch’essi come lui.
Qui veniva approcciato da Mrs. Robinson, moglie del socio in affari del padre, e da quell’incontro iniziava una relazione clandestina. Per Ben si trattava di un rapporto insoddisfacente, frutto più che altro di un suo stato psicologico di inerzia e di pigrizia, del non sapere ancora il senso da dare alla propria esistenza.
Tutto cambiava però quando Ben conosceva Elaine, la figlia della signora. Robinson. Tra i due sembra infatti nascere un sentimento bello e pulito, tanto che il giovane, visto che la madre di Elaine si era infuriata per questo fatto (per la Robinson Ben poteva infatti andare per un fugace e superficiale rapporto con lei, ma non certo per una prospettiva di futuro con la figlia), minacciava di rivelare tutto ad Elaine.
Superando la sua abituale indolenza, glielo dice lui stesso, e la ragazza, sconvolta da quella rivelazione, lo caccia e per dimenticarlo si trasferisce all’università di Berkeley, non casualmente l’ateneo da cui sarebbe esplosa la contestazione studentesca sessantottina.
Ben si mette spasmodicamente alla sua ricerca, apprendendo che Elaine si era fidanzata ed era prossima alle nozze. Riuscito a sapere dai compagni di studio il luogo della cerimonia nuziale, riesce a raggiungerla anche se purtroppo il rito si è appena concluso.
Schiacciato contro la vetrata della chiesa, Ben urla, disperato, il suo nome, e la ragazza, tra la meraviglia dei presenti e con indosso ancora l’abito da sposa, abbandona il neo marito e corre da lui.
Inseguiti dai parenti inferociti i due salgono su un autobus di passaggio e si allontanano verso una destinazione ignota. Per Ben il futuro è ancora incerto, forse lo è ancora di più, ma ora non è più solo.
Già la storia rivelava un radicale cambiamento di tematica nel cinema americano di commedia poiché tratteggiava una evidente frattura esistenziale e generazionale tra il mondo degli adolescenti e quello degli adulti, ne disegnava l’insofferenza con la dissacrazione di valori tradizionali consolidati come famiglia, matrimonio e status sociale, ma il regista la plasmava come un vero e proprio laboratorio di nuovi linguaggi, dalla scelta di attori sconosciuti in antitesi con il codificato metodo hollywoodiano dello “star system”, ed era straordinario osservare il principiante Dustin Hoffman, che dalle prime impacciate espressioni dell’inizio riusciva con progressiva sapienza attoriale a far lievitare il proprio personaggio in un efficace “crescendo” drammaturgico.
In verità in questa pellicola tutto era personaggio e non solo gli interpreti, lo erano le situazioni, gli ambienti, i paesaggi, persino i mezzi di trasporto, dall’automobile di Ben che lo lasciava in panne proprio mentre si stava precipitando da Elaine (una inaspettata macchina italiana, l’Alfa Romeo Duetto decapottabile) all’autobus, inconsapevole traghettatore verso una nuova vita.
Innovativa era la fotografia, che si riverberava nella abbagliante luce assolata della California; lo era la regia che esprimeva il lento trascorrere del tempo mediante passaggi di campo o salti di montaggio, ed altrettanto innovativo era l’uso del sonoro, con quell’effetto di anticipazione asincrona rispetto alla consequenzialità delle sequenze che rendeva quest’opera così inusuale e così sperimentale.
Per non dire del commento musicale di due quasi esordienti artisti, Simon e Garfunkel (la produzione propendeva per una colonna sonora del ben più navigato Burt Bacharach ma il regista fu irremovibile in questa sua scelta), che costruivano un’emozione uditiva che andava invece in sincrono con i tempi ed i ritmi della vicenda, come all’inizio del film quando le immagini dell’arrivo all’aeroporto di un Ben imbambolato e molto poco “eroe” cinematografico erano magistralmente accompagnate dalle melodie di una canzone che si sarebbe imposta per la sua bellezza, The Sound of Silence, o come nell’indimenticabile sequenza dell’affannosa corsa vero la chiesa dove la chitarra, rallentando sempre più, simulava le cadenze dei pistoni del motore dell’automobile che si stava irrimediabilmente arrestando per mancanza di carburante costringeva Ben ad una folle corsa a piedi ripreso da un teleobbiettivo frontale che sembrava imprigionarlo angosciosamente in uno spazio bloccato senza vie di fuga.
Il Laureato anticipava in tali modalità la voglia di cambiamento del cinema Made in USA che stava entrando in una sua fertile “New Wave” che avrebbe trovato in Altman, Scorsese, Cassavetes, Bogdanovich, Spielberg, Hopper, Lucas, Pollack, i suoi più validi cantori, così come rivelava in modo esplicito e programmatico il finale, su quella nuova coppia che, sul fondo di un bus, aveva vinto provvisoriamente la sua prima battaglia della vita ma non sapeva ancora né il dove, né il cosa, né il come del proprio gesto, sembrando per il momento sufficiente averlo compiuto inviso alla volontà delle famiglie e dell’ambiente.
Il sorriso sul volto di Ben che poco alla volta cangiava in una spaurita, interrogativa espressività, in una conclusione “aperta” così vicina a quella del capostipite della Nouvelle Vague francese, I Quattrocento colpi (François Truffaut, 1959) che mostrava lo spaesamento di un “piccolo” Jean-Pierre Léaud di fronte alla sconfinata ebbrezza di una ritrovata libertà di cui però non si conoscevano gli orizzonti, segnalava la presa d’atto di una rivolta che non era solo dei personaggi ma, metalinguisticamente, anche del cinema.
Era solo l’esordio di un nuovo percorso per il cinema americano – e non solo -, che ci avrebbe dato così tante sorprese.
Quell’urlo prolungato e ripetuto di Ben che gridava il nome della donna amata: “Elaine, Elaine, Elaine”, avrebbe trapassato lo schermo ed era destinato ad andare lontano.