Il GGG – Il grande gigante gentile di Steven Spielberg
Crudeltà e affabulazione
di Edoardo Bruno
Spielberg e la favola, ET e l’infanzia, il piccolo principe de L’impero del sole, che ha imparato a guardare, nuovo Icaro, il lampo dell’atomica, crudeltà e affabulazione, anche in questo GGG –Il grande gigante gentile si coniugano con chiarezza espressiva. Lacerato e crudele come segno di una dolcezza ferita, il viso straniato di Mark Rylance, metà uomo e metà cartone, è il Sognatore gigante sognato, maestro a sua volta, di sogni da regalare ai bambini addormentati, storie crudeli di solitarie figure di giganti ancora più giganti di lui, in corpi scanditi su somiglianze ossessive, cattivi volti incisi su pellicola, come acqueforti, intrise di inchiostri fortemente dipinti come bronzi, inquietanti nelle loro massicce superfici. Sembra il mondo di Jonathan Swift, caricaturale e mordace, dove la normale diventa la norma, dove la favola diventa costume, dove il segno di ritorno all’umano, si innesta nella caricatura ‘gentile’ contro il reame.
Spielberg osserva il mondo à rebours, richiama i modelli della favola di Dickens più che dei Grimm, si rifà alle mitologie popolari, al romanzo di Roald Dahl, apparso nel 1982, con i suoi colori scuri, con l’inizio in uno di quegli orfanatrofi tipici della favolistica britannica, solitari, nella luce confusa. Favola con le deformazioni più tipiche ma intrisa da dimensioni poetiche, come Tintin, ricordando il tono favoloso di Gargantua e Pantagruel.