Il corto
Bruce Nauman e i fantasmi di Chartres
di Sergio Arecco
Bruce Nauman non è sempre e soltanto quello di Self Portrait as a Fountain (1966-1968), dove la fontana del titolo non è altro che lo spruzzo d’acqua che il giovane Bruce emette verso l’altro da una bocca che dovrebbe magari emettere fumetti composti di parole articolate. Da buon cultore di Wittgenstein, specie dell’ultimo Wittgenstein, il pensatore estremo delle Ricerche filosofiche sopravvissuto al “Ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, ultima sfiduciata proposizione del Tractatus logico-philosophicus, Nauman sa che il processo di trasmissione e concettualizzazione connaturato al linguaggio è giunto ormai a un punto morto, alla sostanziale acquisizione, deduttivamente convalidata, del silenzio. Per cui si spiega il gesto provocatorio e negatorio del Self Portrait.
Così come si spiegano le immediatamente successive installazioni, condotte sulla scia di Don Flavin, di neon dai colori saturi e sgargianti, con parole o frasi anodine disposte in file serrate o a spirale, a testimonianza della natura labile e incorporea di un linguaggio scaduto, apparentabili alle insegne luminose o ai luccichii dei luna park o agli intermittenti richiami pubblicitari. Secondo un assunto ludico in base al quale anche la spirale luminosa e multicolore in cui è inscritto il karmico o sutrico The True Artist Helps the World by Revealing Mystic Truths (1967) suona o, meglio, riluce come un semplice mantra giocoso e innocuo, riflesso dalla teoria dei giochi proposta quale extrema ratio da Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche. Teoria che, peraltro, non sappiamo quanto Nauman prenda e applichi sul serio.
Come mai, per fare un esempio, nella performance coeva Walking in a Exaggerated Manner around the Perimeter of a Square (b/n, 16 mm, 1967-1968, 10’), sceglie di filmare se stesso alle prese, sul pavimento di un ambiente neutro, con il perimetro esterno di una sorta di tela o filetto (le denominazioni del gioco, spesso il rovescio della scatola della dama, sono tante, a seconda dei luoghi), sul cui tracciato lineare si destreggia, in maglietta bianca e pantaloni da ginnastica, mettendo un piede avanti all’altro senza mai perdere il contatto con il suolo, come un podista o un funambolo su una corda tesa. Il venticinquenne Bruce inizia dall’angolo retto del quadrato disposto sulla destra dello spettatore – messo di fronte alla scialba visuale di una stanza spoglia, con uno specchio posato per terra addossato alla parete opposta, uno sgabello e abiti gettati alla rinfusa in un angolo –, procede ancheggiando lungo la linea retta che ha dinanzi, arriva all’intersezione con l’altra retta, parallela al nostro sguardo, la percorre tutta, alla nuova intersezione discende verso di noi con la consueta lentezza frutto evidente di una lunga disciplina – per farlo esce dal quadro visivo fisso –, poi vi rientra coprendo per intero la retta in basso in modo da completare il percorso in avanti.
Sennonché, il ludus prevede altresì una camminata all’indietro. Per cui, muovendo dal vertice iniziale e ruotando su se stesso, Bruce s’inoltra verso la retta iniziale ancheggiando di spalle e rifacendo il medesimo itinerario al contrario, un piede non più avanti bensì dietro all’altro, dopodiché, riapprodato allo start, riprende l’andatura primitiva, in senso di nuovo opposto. Dentro il quadrato magico, o mistico, è stato tracciato, con il gesso come è stato tracciato per il primo quadrato, e come è statuito nella tela o filetto, un secondo quadrato minore, del quale Bruce pare comunque disinteressarsi, in quanto, a differenza della superficie disegnata sulla tela o filetto, non sono state delineate, lì, rette di collegamento. Per cui è pensabile che il performer possa, volendo, continuare all’infinito il proprio ascetico turnover sull’identico filo bianco teso e sospeso. Mistico. Ascetico.
Pare, in effetti, irresistibile il rimando ai labirinti di tante chiese medievali, con il disegno del labirinto collocato nel cuore della navata centrale, e l’appello al credente, o al visitatore in genere, a intraprendere il percorso designato come un itinerarium mentis ad Deum, con la consapevolezza del possibile approdo al cuore dentro il cuore, al punto finale, all’entrance esoterica nell’ombelico dell’essere – con il conseguente inevitabile exit, certo, ma dopo il tempo, lasciato alla discrezione del devoto o non devoto, sufficiente per innalzare una preghiera, un inno, un voto, o anche un nulla di nulla, di nichilistica fusione con il tutto. Come nel grande labirinto di Chartres, percorrendo le curve del quale l’operazione riesce a meraviglia, sotto una luce radente che t’invoglia alla circonvoluzione e all’euforia, sacra o profana che sia. C’è però euforia nel Nauman vieppiù affaticato e anchilosato di Walking in an Exaggerated Manner around the Perimeter of the Square? Dopo i 10’ canonici dell’esperimento, chissà? Chissà, magari inversamente rispetto alle figurazioni neon eppure in loro sintonia, che l’artista non aiuti davvero il mondo a riportare alla luce (luce abbagliante dei neon o spettro incolore della stanza di Walking) mistiche verità – benché il video s’interrompa di botto senza minimamente dirci se il performer abbia attinto una qualche estasi.
O chissà che l’estasi, con ben maggiore ironia, non si attinga invece in Seven Figures, in cui la giostra erotica in posizione orizzontale, perfettamente orchestrata, tra gli ologrammi al neon (movimenti coordinati dei sette partecipanti all’orgia in ordine all’entrata-uscita dai differenti orifici in scala), dura più a lungo, perlomeno quanto dura l’esposizione quotidiana (in blu) dell’installazione, godibile allo Stedelijk Musem di Amsterdam? Non sembra forse poter esistere, futuribilmente, un’estasi meccanica, cyber, umanoide, che prescinde dal contatto tra membra-membri-genitali tuttora propriamente umani? Tuttavia, nel curriculum di Nauman, Seven Figures è datato 1985, e appartiene già a una fase ulteriore rispetto alle performance degli anni Sessanta. Ed è di appena un anno posteriore a quel The Hundred Live and Die (1984) che rappresenta il capolavoro ultimo di una mente sempre più visionaria, connotato dalla saturazione cromatica dello spazio sia visivo – un quadrato sì ma elettrico, policromo, allegro, rutilante – sia riflessivo, in cui la nozione wittgensteiniana di prasseologia, applicata ancora testualmente all’esercizio corporeo-incorporeo di Walking, spinge di sicuro fino al limite del rapimento ma non lo garantisce appieno.
Infatti, in The Hundred Live and Die, Nauman prende in parola l’idea in sé di gioco linguistico di Wittgenstein e fa prevalere il sostantivo gioco sull’aggettivo linguistico, con quanto di disfattista quest’ultimo ormai comporta, esaltando così il vistoso, a dispetto del ritroso, o del ‘a ritroso’, di Walking. Con il pensiero, nondimeno, già rivolto al programma, che negli anni 2000 egli condividerà con altri performer, prima tra tutti Marina Abramović, della tesaurizzazione delle installazioni realizzate nei decenni anteriori. Cosicché, oggi, un modello come Walking torna a vivere di… luce propria, malgrado il suo aspetto inappariscente e spento, quasi fosse un super8 girato da Nauman per sé o, tutt’al più, per i propri discepoli più temperanti.