I vivi e i morti: una storia di fantasmi per adulti (parte seconda)
(Da Napoli a Ferrara, da Rossellini/Cioni a Bressane/Warburg)
di Giovanni Festa
A Ferrara, vicino al cimitero cattolico ce n’è un altro. Si tratta dell’antico cimitero ebraico descritto da Giorgio Bassani in Il Giardino dei Finzi Contini. Alla dimensione contrattuale, consumativa e performativa di rapporto con il morto bisogna aggiungerne, alla fine, ancora un’altra: quella elegiaca. In realtà nel libro di Bassani i “cimiteri” descritti sono due. Il primo è una vera e propria città di morti: la necropoli di Cerveteri. Il capitolo ha una vera funzione di ouverture in quanto contiene tutti i temi che saranno sviluppati nel romanzo. Mentre Giorgio, il narratore, con un gruppo di amici, sta per entrare nelle tombe, la bambina di uno di loro, straordinariamente curiosa e intelligente, fa alcune domande a suo padre. La prima è apparentemente banale: “Chi erano gli Etruschi?” e poiché sa, grazie alla scuola, che si tratta di uno dei popoli che si trovano all’inizio della storia dell’Occidente, continua a chiedergli se sono più antichi degli ebrei (introducendo un primo tema, il nome del popolo che sarà al centro del racconto) per aggiungere, poi, “perché le tombe antiche sono più malinconiche di quelle nuove?”. Il padre le risponde dicendo che le tombe nuove custodiscono esseri che ci erano vicini, mentre le antiche città morte è come se, in un certo senso, fossero morte da sempre: il secondo tema, quello dei popoli spazzati dalla storia, entra così nel romanzo. La figlia allora risponde che, poiché le stanno parlando di loro, sente affetto per gli etruschi, ed ecco il terzo tema, ovvero l’amore per coloro che sono scomparsi.
Il gruppo penetra nelle catacombe e si trova di fronte ad una stanza arredata e decorata con affreschi policromi con immagini di oggetti comuni e animali domestici. Tombe, queste, che da un lato assomigliano alle stanze dei viventi abbandonate improvvisamente durante la guerra, e dall’altro a bunker sotterranei (tema numero quattro: quello del secondo conflitto mondiale). Prima di far ritorno a casa, questi sono i pensieri di Giorgio: “Là, però, nel breve recinto sacro ai morti familiari, nel cuore di quelle tombe dove, insieme con i morti, si erano incaricati di far scendere molte delle cose che rendevano bella e desiderabile la vita; in quell’angolo di mondo difeso, riparato, privilegiato, niente poteva cambiare. Quando ce ne andammo, era buio”. La cripta di Cerveteri è una casa di morti arredata per i morti.
Durante il viaggio di ritorno Giorgio pensa alla Ferrara della sua giovinezza e ad un altro luogo di trapassati: il cimitero ebraico alla fine di Via Montebello. Grandi prati disseminati di alberi, le lapidi raccolte finemente, e, come se fosse ancora davanti ai suoi occhi, la tomba monumentale dei Finzi-Contini. Lì riposa il suo amico Alberto, morto nel ’42 di un linfogranuloma, mentre gli altri quattro membri della famiglia, fra cui l’amata Micol, “deportati tutti in Germania nell’autunno del ’43, chissà se hanno trovato una sepoltura qualsiasi”. Nel romanzo c’è, poi, un riferimento interessante. Giorgio parla al signor Ermanno Finzi-Contini dei suoi studi di storia dell’arte. E dice che, prima di decidere di laurearsi con una tesi su un poeta, di aver pensato di scrivere una tesi in storia dell’arte, e di essere allievo, a Bologna, di Roberto Longhi a cui Pasolini (altro allievo di Longhi a Bologna), come si sa, attribuisce la sua “folgorazione figurativa” e l’amore per la pittura del ‘400 e di Masaccio. I libri, molte volte, ci parlano di altri libri, permettendo di aprire strade laterali: Giorgio fa riferimento, nella sua chiacchierata con il signor Ermanno, a un libro in particolare di Longhi, Officina Ferrarese, che si occupa della pittura locale del XV secolo. Il libro è del ’33 e parla, fra le altre opere, degli affreschi di Palazzo Schifanoia (che si trova a venti minuti a piedi dalla casa in via Ercole d’Este dove, nel romanzo, vivono i Finzi-Contini). Si tratta di affreschi di impianto e iconologia complesse, caratterizzati da tre bande parallele e sovrapposte.
In quella in alto vediamo il Trionfo del dio del mese; in quella in basso ci sono gustose scene di vita quotidiana con il Duca Borso d’Este che si dedica ai suoi compiti di sovrano e che ricordano la didascalica chiarezza degli affreschi medievali sul Buon governo in città.
Quella centrale è occupata dal segno astrologico relativo più i cosiddetti decani: queste ultime sono figure sopravvissute della concezione astrale delle divinità greche, simboli delle stelle fisse che, migrando per secoli dalla Grecia attraverso l’Asia minore, l’Egitto, la Mesopotamia, l’Arabia e la Spagna, sono giunte fino a Ferrara, perdendo la chiarezza del loro contorno greco: “nella regione intermedia semioscura dominano, in travestimento medioevale internazionale, demoni astrali ellenistici”. Colui che scoprì il segreto di questa fascia mediana fu Aby Warburg nel suo libro del 1912 su Arte e Astrologia nel palazzo Schifanoia a Ferrara. Warburg: uno degli autori chiave di Bressane che non a caso, nell’ultima parte di Ver viver reviver, si reca a Palazzo Schifanoia dove filma, tra gli affreschi del ciclo dei Mesi, solo uno dei decani: per essere esatti quello di sinistra del mese di Marzo, il primo decano dell’Ariete.
Un altro riferimento per Bressane è Godard. L’impressione è che, davanti all’estrazione apparentemente arbitraria di un particolare dall’insieme, di un dettaglio da un ciclo più ampio, obbedendo alla frase di Warburg “il buon dio è nel dettaglio”, Bressane voglia manifestare la volontà di un vero e proprio lavoro ermeneutico in espansione, sapendo che ogni dettaglio fa sempre parte una Histoire(s) che lo ingloba. Dobbiamo comportarci quindi come con quei momenti delle Histoire(s) dove il fotogramma di un film ci invita, per “interpretare” (e non decifrare, direbbero all’unisono Bressane e Warburg) una sequenza diventata crittogramma onirico, a risalire alla sequenza del film originario in un’ermeneutica e anamnesi dell’immagine; e, come davanti alle tavole del Mnemosyne warburghiano, collegare la singola immagine dell’Atlas ad una sequenza di montaggio, perché l’immagine non è mai sola e obbedisce a leggi di tipo anatomico-magico.
Il mese di Marzo – affrescato da Francesco del Cossa – è il mese di Atena che, nella fascia superiore, muove sul suo carro di trionfo trainato da due liocorni, ed è circondata da umanisti sul lato sinistro e giovani donne intente al lavoro di tessitura e ricamo su quello destro. Nella fascia bassa Borso amministra la giustizia. Avrei giurato che Bressane avesse scelto, di Schifanoia, il “più crudele dei mesi”, Aprile, dedicato a Venere che trionfa su Marte e al campo e contro campo fra Borso e il buffone Scrofola, manifestazione del trionfo delle forze ebbre (e batailliane, altro riferimento fondamentale per l’autore di Filme de amor) dell’eros e del riso sul potere.
Invece Bressane sceglie un dettaglio del mese di Marzo, dedicato ad Atena. Dobbiamo forse pensare che la ragione sia in qualche dettaglio o significato inavvertito posto sugli altri livelli? Per esempio, la dea Atena ha sul petto la gorgone, semicancellata ed è quindi impossibile vederla di faccia: ella incarna forse quelle forze del fuori campo che conducono a una medusizzazione del soggetto e, nello stesso tempo induce a uno “sguardo mobile, eterotopo e eteromorfo, i cui punti di fuga proliferano incessantemente”? (come scrive Jean Clair) Inoltre è circondata da umanisti (come umanista ante-litteram era Sao Jeronimo) e da fanciulle impegnate nell’arte della tessitura (arte, per Ejzenstejn, in relazione al montaggio): la fascia alta ci mostrerebbe, quindi, un limite della visione, uno studium, un’idea dell’immagine legata al linguaggio e, infine, un’idea di montaggio legata alla tessitura. La fascia in basso, poi, è una celebrazione dell’architettura classica inserita in un plain air rigoglioso. Aspetti, questi, sicuramente interessanti ma, crediamo, del tutto insufficienti. In Bressane lavora un’ossessione di tutt’altro tipo.
Pallade è, innanzitutto, la dea della Giustizia. In occidente il concetto risale al mondo greco e si fonda sul Limite. Ogni eccesso è tacciato di hybris ossia orgoglio, arroganza o meglio, “passione”, da parte dell’uomo offuscato, per la dismisura (che però, come accade ad Aiace nella tragedia di Sofocle, permette al soggetto di aprirsi dolorosamente ad una coscienza potenziata). Ci viene in mente una splendida conversazione fra Bressane e Bruno Roberti nel numero 5 di Fata Morgana (uscito nel 2008, l’anno dopo il film di Bressane su Antonioni) proprio sul concetto di “Limite”. La conversazione è preceduta da uno scritto di Bressane, Il cinema è la fisica, la metafisica, l’educazione fisica, dove il cineasta fa risalire la nozione di limite proprio al pensiero greco che “organizza il mondo, ci permette di pensare il mondo, e forse in una forma del tutto provvisoria, conferirgli una forma”. Alla fine della conversazione, parlando di Warburg (è Bruno a introdurre il tema-Mnemosyne, parlando di “fuga delle immagini verso il loro limite, che assomiglia al cinema”) Bressane, – e non può essere un caso -, accenna proprio a Schifanoia: “il suo lavoro sugli affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara è un lavoro sul limite, sul limite della prima volta e, anche della traduzione, l’incrociarsi delle scaturigini fra oriente e occidente”.
È per questo, allora, che fra gli affreschi dei Mesi Bressane ha scelto proprio Marzo. Un affresco tripartito che lavora sul limite mostrando, nello stesso tempo, le figure mitologiche e simboliche che lo incarnano in una straordinaria mise en abyme. Inoltre non è del tutto peregrino vedere, in questa scelta, un omaggio mascherato al suo maestro, Mario Peixoto, autore del film Limite, uno dei momenti più radicali della storia del cinema che, come Francesco del Cossa in pittura, ha creato una inquadratura nuova, che però è anche, nello stesso tempo, una “nuova gabbia”.
Eppure non siamo ancora del tutto convinti. Bressane, ricordiamolo, non inquadra tutto l’affresco, ma una figura in particolare.
È come se volesse dirci che, in un affresco dove si celebra, nelle due fasce principali e narrative, il culto del limite, bisogna mettere a fuoco il dislimite, ossia il dettaglio inconscio, le forze sopravviventi, che si incarnano in un “demone” vestito di stracci bianchi che stringe un lembo di corda. Sopravvivenza è, di nuovo, un concetto warburghiano che Bressane traduce come “zona grigia del passaggio”. E il demone straniero è proprio “qualcosa di vivo e sconosciuto che abita quella zona”, una forza generatrice di movimento, “che sta prima del movimento, una forza originaria, che si chiama intervallo”.
La figura sopravvivente è una figura dell’intervallo che si affaccia sul suo limitare e lavora per dislimitare, ossia per conferire alle scene poste in alto e in basso un senso differente e un nuovo valore. Limite e dislimite: perché, alla fine, “il limite chiede di essere oltrepassato, ma l’oltrepassamento è, appunto, la sopravvivenza, lo stato di sospensione del sopra-vivere: l’intervallo. L’intervallo struttura la sopravvivenza. In questo passaggio, c’è un cambiamento, una mutazione: cambia anche il punto di vista”.
Atena, dea del limite, è la dea della progettualità. I demoni che bussano, dal basso, alla frontiera dove ha luogo il suo Trionfo, e lambiscono la frontiera-limite, sono parenti perturbanti che fanno ritorno, spettri che si muovono dall’Asia minore verso l’Europa, che l’arte occidentale ha tentato di esorcizzare lasciandoli fuori dalla porta -come lasciata fuori dalla porta era la Ninfa di Ghirlandaio in Santa Maria Novella che però, alla fine, decide di entrare, per portare la buriana del fuori e il sogno della vita mossa dentro il cosmos prospetticamente organizzato del rito borghese della nascita-.
Non avrà quindi, Bressane, voluto mostrarci, attraverso questo demone spurio e meticcio, un montaggio spettrale assolutamente warbughiano? Bressane, che ha letto il saggio di Warburg sulla Cappella Sassetti in Santa Trinita sa che, accanto alle tombe, sorgono spesso, come funghi allucinogeni, figure in chiaroscuro dell’antico rinato. Il chiaroscuro (en grisaille) non è da intendersi, semplicemente, come immagine in bianco e nero, ma come dimensione, umbratile e mediana, dell’esistenza, da parte di figure rimosse che, non-dimenticate e presenti nell’inconscio della storia (occidentale-orientale), spingono per ritornare. Il demone straniero di Schifanoia si incontra, lo ripetiamo, nella fascia mediana: non si tratta di quello che Bressane definisce “passaggio al nero, nell’agire della mutazione”? Il non-morto straccione introduce non solo valori espansivi ed eterodossi al di sotto e al di sopra dell’azione concertata, ma soprattutto è la messa in figura del nachleben, della vita-di-poi e quindi, possiede l’ambiguo fascino del morto che ritorna.
(A questo punto mi viene in mente un’associazione un po’ assurda, che lascio fra parentesi – luogo perfetto dove mettere i morti: Virginia Woolf lo sa benissimo-. L’associazione è questa: non erano vestiti di stracci anche gli zombie di Romero dove, in un rovesciamento sostanziale, non è più il vivo a voler consumare il morto, ma il morto il vivo? Avrà pensato, Bressane, al ciclo dei morti viventi romeriano mentre filmava quella strana figura di demone ritornante in ceppi?)
Il demone diventa anche daymon del regista “oggetto” del film di Bressane, Antonioni, figura peregrina e nomade come Aldo in Il Grido e Valentina in La Notte. I demoni del passato assomigliano in questo, alle figure di Antonioni: sono senza fissa dimora. Ma se la dimora perduta allude, in Antonioni, alla dimensione, kirkegardiana, dello spirito, nei demoni astrologici si riferisce a migrazioni assai più vaste.
Sfolgorante torna allora alla mente il titolo: dopo il ver delle immagini registrate dalla macchina da presa e il viver del tempo della performance con il suo lavoro di avvicinamento al monumento precluso, il reviver del nachleben, che ci mostra una possibilità di vita postuma.
Apriamo per l’ultima volta il testo di Warburg su Schifanoia, come deve aver fatto un migliaio di volte Julio Bressane. È alla fine della sua conferenza su Arte e Archeologia nel palazzo Schifanoia che Warburg rivela alcune cose capitali ai suoi uditori (e a noi, lettori di domani): il riferimento ad un “enigma figurato che, per giunta, non lo si può illuminare a proprio agio, ma soltanto intravedere cinematograficamente”; il proposito di un “ampliamento metodologico dei confini tematici e geografici della nostra disciplina”; la necessità di “non lasciarsi intimorire da un esagerato rispetto dei confini” per poi considerare “Antichità, Medioevo ed Evo moderno come un’epoca connessa”. E non è ancora finita. Warburg aggiunge che bisogna interrogare (e qui viene in mente Benjamin, che proprio con l’Istituto Warburg tentò di mettersi in contatto negli anni ’30 -sfortunatamente Warburg era già morto nel ’29-) le opere dell’arte autonoma e di quella applicata, in quanto sono entrambe e di pari diritto documenti dell’espressione”; alla fine, lo scopo è quello di rivelare la volontà, emersa nel Rinascimento, di restaurare l’Antico”.
Questi passi devono aver fatto letteralmente tremare i polsi al capofila del cinema marginale: l’immagine come enigma figurato inserita in un montaggio dell’eterogeneo che bisogna interpretare, non secondo la prassi investigativa dell’iconologia “scientifica”, ma secondo la legge rapsodica del sintomo: il sintomo, che sempre si sposta, non può che essere intravisto “cinematograficamente”. Come spiega Bressane, la grande intuizione di Warburg è “il sentire che la patologia dà l’impronta allo stile. È l’impronta del limite. Noi siamo le nostre patologie. L’immagine, in questo senso è il sintomo e ciò è quello che la spinge al limite di sé stessa. La follia è una forza che ci aiuta. È il destino delle immagini”.
La recherche di quelli che lo psicostorico chiama “documenti dell’espressione” potrebbe essere, poi, il sottotitolo del cinema di Bressane, dove l’espressione va intesa come esplorazione e esplosione del pathos, la forza dinamica – warburghiana e, non dimentichiamolo, eizensteiniana – che mobilita e scuote fino ad aprire e smembrare il soggetto che finisce per incontrare il suo sparagmos brillante.
La nozione di allargamento tematico e geografico del sapere, poi, è facilmente associabile al cinema, che Bressane immagina “come qualcosa che attraversa tutte le discipline, tutte la arti, e attraversa la vita stessa”.
E, infine, la proposta programmatica del superamento dei confini avrà trovato una sponda perfetta nel teorico del dislimite. “Il limite”, dice Bressane, “chiama il suo dislimitarsi. Si stabilisce, allora, un modo di sentire”.
Che c’è, allora, al di là del limite? Forse, una terra svuotata. Una specie di deserto.
Lévi-Strauss in Tristi Tropici racconta del paesaggio sterminato che si dispiega, in Brasile, lungo una linea abbandonata del telegrafo (chiamata linea Rondon): vivere lì è “come vivere sulla luna”. Questo territorio grande come la Francia e per tre quarti inesplorato, dove negli anni ’30 del secolo passato vivevano bande di indigeni nomadi fra i più primitivi al mondo, si caratterizza per la monotonia che priva la natura selvatica di ogni interesse. Paesaggi come questi, paesaggi morti, “si rifiutano all’uomo, si annullano sotto i suoi occhi invece di proporgli una sfida, tanto che il tracciato della picada, i profili contorti dei pali, gli archi rovesci dei fili che li uniscono sembrano, in questa brughiera che si ripete all’infinito, altrettanti oggetti incongrui vaganti nella solitudine come se ne vedono nei quadri di Yves Tanguy”.
Paesaggi come questi, agli occhi dell’antropologo, rappresentano la vanità degli sforzi dello sguardo dell’uomo, e -frase illuminante- la sua “incapacità di andare oltre certi limiti”. C’è quindi un limite al dislimite che si conclude nello scacco e che “conferisce un valore dimostrativo al deserto”. Il Dislimite allora, incontra il suo scacco, il suo detour, provocando un ritorno del limite che poi cercherà a sua volta un altro dislimite all’infinito.
Dislimite, in Bressane, è il deserto di Sao Jeronimo, il mare di Miramar, ovvio. Ma anche, i cinque minuti finali di O anjo nasceu (1969), dove viene mostrato, con la camera fissa, uno spazio vuoto: una lunga rodovia, un caminho dove l’immagine si spinge verso la sua deflagrazione, la sua “autoconsumazione”: lì, dice Bressane, in termini così simili e così diversi da Lévi-Strauss, in questa strada in mezzo alla selva, attraversata non dalla linea del telegrafo ma dalle strisce bianche che punteggiano la strada, “c’è proprio il passaggio del limite”. Lo sa bene Lemmy Caution. Durante il suo girovagare in Allemagne année 90 neuf zéro all’improvviso, vicino a un lago, dice: “Appena ho attraversato il confine, ho incontrato i fantasmi”. Ed è forse in spazi come questi, sopravviventi e residuali, che finalmente, senza imperativo di consumazione o patto amicale, senza performance o elegia, ma solo in una comune dispersione, possiamo scorgere i nostri cari fantasmi sconosciuti. E possiamo finalmente, da scomparsi viventi, parlare con i morti.