I vivi e i morti: una storia di fantasmi per adulti (parte prima)
(Da Napoli a Ferrara, da Rossellini/Cioni a Bressane/Warburg)
di Giovanni Festa
Da un po’ di tempo ha cominciato a ossessionarmi una domanda: i morti sono davvero scomparsi per sempre? O vivono, perduto il loro involucro terrestre, un qualche tipo di esistenza, dentro una extra-territorialità diafana, in uno spazio-tempo arrestato simile ad un labirinto di specchi in rovina? Canetti (che ha anche scritto un “libro contro la morte”) parla di “creature che vivono in un intervallo di tempo che corre accanto al nostro, lo interseca senza sfiorarlo, come se esistessero ombre del tempo che si fanno un mondo tutto per sé”. Secondo Austerlitz, il personaggio di Sebald che studia l’architettura concentrazionaria e i suoi fantasmi, siamo noi ad essere i fantasmi dei morti: “Quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l’aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni di luce”.
Oggi, questi estinti possiamo ancora vederli a nostra volta (nonostante la tirannia del digitale che spaccia questa possibilità di cui abbiamo goduto per millenni, per troppa lucidità e a causa di un eccesso di visione: le ombre dei trapassati, ancora agli albori dell’epoca della riproducibilità tecnica, amavano aderire ad una fotogenia guasta, negativa e a supporti obsoleti: Kafka, nell’apologo della foto della locandiera nel Castello, lo descrive benissimo). Possiamo scorgerli (mi viene alla mente la parola “rivelarli”) non solamente virati nei colori saturi di qualche pellicola familiare sgranata o nei vecchi album di fotografie, ma, anche, nei sogni, nelle architetture, nel passato di moda, nelle rovine. Perché essi si trovano ovunque attorno a noi, e, nonostante non sappiamo più metterli, per così dire, a fuoco, è possibile che i morti facciano ai vivi un segnale. E questo non per far precipitare i secondi nella spirale delle generazioni trapassate e nella vertigine di un manierismo guastato (è il ritorno irrelato del morto descritto da De Martino, e scongiurato, nei popoli millenaristi, grazie all’istituzione culturale del pianto rituale), ma affinché accada il contrario: per mantenere in vita quella relazione tra presente e passato, quella scintilla che, al di là del tempo, permette la visione del futuro. E che, una volta acquisita, assomiglia ad un bengala acceso nella notte (ma anche a quelle fiammelle prodotte per sfregamento di un legnetto su un altro, in una notte senza stelle; o a uno sciame di lucciole vicino ad un cespuglio). Il risultato sarebbe quello che Aby Warburg chiamerebbe una “storia di fantasmi per adulti”.
Lévi-Strauss, in quello straordinario diario di viaggio che è Tristi Tropici, all’improvviso comincia (ed era inevitabile) a fare i conti con i morti.
Scrive che ci sono società che fanno riposare i loro morti e altre che li mobilitano. Nel primo caso i vivi dedicano ai morti omaggi periodici grazie ai quali i secondi si asterranno dal turbarli e li visiteranno in occasioni speciali. La loro visita sarà benigna, e garantirà prosperità e aiuto. La relazione è quella sancita dal contratto: in cambio della cura dei vivi attraverso il ricordo e il culto, i morti riconoscenti si occuperanno del loro benessere e della loro felicità.
Nel secondo caso si passa dal culto al consumo: il morto viene assimilato per incorporarne la potenza e la virtù secondo un processo letterale (necrofagia, cannibalismo) o simbolico, obbedendo a un atteggiamento violentemente speculatore. Nelle società occidentali odierne, infine, speculazione e contratto, riposo e consumo, hanno lasciato spazio all’indifferenza (come sottolineato anche da De Martino): obbedendo al precetto evangelico, oggi lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti.
Napoli, Pompei
Cominciamo con il primo caso, il ritorno amicale e periodico del morto. Viene in mente il culto delle anime
“pezzentelle” a Napoli. E due immagini: Ingrid Bergman che si inoltra, insieme a un’amica che aspetta un bambino, nel Cimitero delle Fontanelle in Viaggio in Italia (1962) di Rossellini; Franco che, nel film In Purgatorio (2009) di Giovanni Cioni, parla davanti alla macchina da presa del culto delle anime del purgatorio a Napoli dicendo che è “impossibile dire che non c’è niente dopo”.
Nel primo caso, Ingrid Bergman-Katherine Joyce diventerà protagonista di un viaggio rituale a tappe, dove si addentrerà in un mondo infero, pagano e ctonio, perché la città inquieta è – come dice Giuliana Bruno nel suo Atlante delle emozioni –, “abituata a tutti i tipi di erosione e possiede dentro di sé strati di interni flessibili” in uno scavo di sé stessa che la porterà a una rigenerazione emotiva. Nel secondo caso a essere protagonista è il popolo napoletano che non è più visto attraverso la lente distanziante della donna straniera, ma osservato secondo un’ottica documentaria della partecipazione e del contatto.
Il cimitero delle Fontanelle è un enorme ossario dove si conservano migliaia di resti (ossa, teschi, scapole) e, soprattutto, teschi, chiamati con affetto “capuzzelle”, piccole teste, che, secondo un’antica credenza cultuale, quello dell’efficacia magica delle appartenenze di un defunto, vengono “adottate” in cambio dell’elargizione di un favore (numeri della lotteria; una guarigione; il compimento di un desiderio). La tenerezza con la quale questi tragici resti umani anonimi vengono ripuliti e si mettono in piccole vetrine ricorda quella a cui faceva riferimento Bataille quando parlava della cripta dei cappuccini a Roma: la sollecitudine a un tempo interessata e pietosa delle donne della Sanità (dal nome del quartiere dove si trova il cimitero) ricorda quello dei frati che, con i resti di migliaia di loro confratelli, costruirono la decorazione “fiorita” delle loro catacombe. In entrambi i casi, si è in grado di adoperare in senso positivo e creativo i “tristi feticci che ci turbano”.
A Napoli, in un cortocircuito che unisce la sopravvivenza del culto pagano con il cristianesimo, la morte abbandona il lato nefasto dei trionfi medievali dipinti sulle pareti delle chiese (che il cavaliere Antonius Block e il suo scudiero Jöns osservano nel Settimo Sigillo di Bergman) e il cranio, lungi dall’essere il resto spaventoso (nel quale si imbattono, ad esempio, gli ignari pastori di Arcadia nel quadro di Guercino), il lato sinistro dell’immagine amata di fronte alla quale i vivi fuggono con orrore e paura, diventa un oggetto magico e insieme una presenza benigna di cui bisogna prendersi cura, affinché realizzi i nostri desideri. I morti diventano presenze amabili e virtuose, che aiutano i vivi nel momento del pericolo. Le capuzzelle furono utilizzate anche dall’artista Rebecca Horn che, nella sua opera Spirit, fece un calco in bronzo da alcune di esse e le occultò dietro un piccolo specchio circolare e girevole. Avvicinandoci allo specchio, vediamo prima il nostro volto riflesso, e, sollevandolo, scorgiamo il teschio.

Il film di Cioni descrive il rapporto, a Napoli, tra vivi e morti, attraverso conversazioni con le donne e gli uomini dei quartieri popolari della città, che raccontano la loro fede nelle anime dei morti (“credere è aspettare che qualcosa si avveri”); la presenza di un limbo, il purgatorio, luogo di attesa; la persistenza di usi arcaici come quello di riesumare i defunti, ripulirne e profumarne le ossa e poi seppellirlo nuovamente; l’impressione, in un mondo dove morti e vivi sono continuamente intrecciati (il cimitero come la “Fiat di Napoli”), di essere obbligati a recitare una parte dove “ciò che accade deve accadere. Non può non succedere. Quindi non ci sono colpe”.
Cioni mostra, dopo il cimitero delle Fontanelle, l’epicentro dell’antico culto di queste “anime pezzentelle” (cioè povere) che si trova nel cuore del centro storico, nella chiesa delle Anime del Purgatorio ad Arco. La facciata della chiesa è ricoperta di teschi; l’interno è illuminato da tenui candele, e al centro osserviamo una pala d’altare con una Madonna con le anime purganti (capolavoro del pittore classicista del ‘600 Massimo Stanzione) dove la Vergine viene dipinta nell’atto di intervenire direttamente consolando le anime urlanti in mezzo alle fiamme o immerse nel grembo della terra. Una piccola scala a sinistra conduce ad un sito sotterraneo, luogo di un culto più antico: l’aria è rarefatta, il salone, doppio spettrale della parte superiore, ospita nicchie con teschi, tra cui quello di Lucia, capuzzella con il velo da sposa, morta forse in un naufragio e capace di eventi miracolosi. Cioni si imbatte in una ragazza venuta a ringraziare Lucia dopo aver ottenuto una grazia, a cui canta una breve filastrocca: “Lucì lucì, la grazia pe ‘mme e o paradiso eterno a ‘tte”. In questo viaggio nella città dei morti, doppio cimiteriale del viaggio in Italia rosselliniano, ci spostiamo poi nelle Catacombe di San Gaudosio. Il sito, dopo essere stato abbandonato nel basso medioevo, a partire dal XVII secolo ospitò una serie di tombe riservate ai nobili e agli ecclesiastici che furono sepolti secondo una procedura particolare: il cranio fu collocato, al contrario, sulla parete, e il resto del corpo venne dipinto a fresco, di solito con vestiti e strumenti che si riferiscono alla posizione sociale del defunto. Ci sono coppie, un cavaliere, donne agghindate e la “morte vincitrice” che ha ispirato il grande attore comico e poeta napoletano Antonio de Curtis la sua poesia A’ Livella.
A Napoli i morti possono anche tornare in vita e si può consumare con loro un incontro spettrale, in una variante erotica della consumazione e dell’assimilazione di cui parlava Lévi-Strauss: accade a Pompei, che non a caso è anche l’ultima tappa del viaggio di Ingrid Bergman nel mondo infero napoletano.
Pompei, il luogo dove l’antichità appare in abiti modesti, era la città morta designata per l’apparizione di una delle Figlie del fuoco di Nerval, Iside. Nerval immagina una straordinaria festa pompeiana al chiaro di luna, dove uno strano ambasciatore fa vestire i partecipanti come antichi romani, ricostruisce i tetti delle case sfondati dalla pioggia di cenere e ricopre con copie gli affreschi mutili, cercando di far rivivere i costumi e le tradizioni dell’antica colonia romana e anche i balli e i riti, come quello consumato nel tempio della dea egiziana. Il protagonista si lancia presto casualmente per le strade e finisce sulla strada delle tombe, pavimentato con lava. Curioso: anche il protagonista di Arria Marcella di Gautier, Ottavio, perdutosi lungo la strada delle tombe, si imbatte in una Pompei ricostruita. Ma se nel primo caso si trattava di una città falsa, qui è un luogo evocato dal desiderio, “come uno di quei dipinti di Diorama” (questa associazione tra sogno, panorama e allucinazione del desiderio sarebbe piaciuta a Benjamin, che sicuramente conosceva il racconto di Gautier e che aveva definito Napoli una “città porosa”). Ottavio si ritrova all’improvviso in una Pompei viva, giovane e intatta, in cui non era ancora giunta la tempesta di lava e lapilli che l’avrebbe sommersa; così come intatta e bellissima è Arria Marcella, “bruna e pallida, i capelli ondulati e un po’ arruffati, neri come quelli della Notte, gli occhi come piombo fuso” che il giovane raggiunge dopo aver attraversato, guidato da Tychè-Fortuna, in una geografia completamente inconscia e sotterranea, i quartieri “non portati alla luce dagli scavi”. La legge del desiderio permette di sopprimere la distanza dei secoli, e il giovane può fare l’amore con la meravigliosa fanciulla, prima che essa torni a trasformarsi, al suono delle campane della chiesa cristiana, in una manciata di cenere mescolata con qualche osso calcinato.
A Pompei, questa volta insieme a suo marito con cui aveva intrapreso il viaggio e dal quale si sta separando, Katherine ha l’opportunità di assistere ad un curioso scavo del passato: le tracce lasciate sottoterra dai corpi degli sfortunati pompeiani vengono riempite di gesso ed esumate come se fossero statue fantasmatiche d’altrove: davanti agli occhi dei due stranieri, una coppia di pompeiani è scomparsa nell’atto di abbracciarsi. Vedendo quella replica di gesso, sia corporale che spettrale, del suo amore perduto, la donna fugge. Non è stata capace di ascoltare il richiamo del morto e il suo messaggio estremo d’amore come invece farà il giovane archeologo protagonista del racconto di Jensen Gradiva, analizzato da Freud.
Ferrara, Brasil
Dopo la consumazione e il contratto esiste però, almeno una dimensione in più di contatto con il morto. Quella, euforica, della performance. È quello che ci suggerisce Julio Bressane nel suo film Ver viver reviver (2007) dedicato a Michelangelo Antonioni e alla tomba dove è sepolto. Il film inizia con l’arrivo di Bressane e della sua ridottissima troupe a Ferrara. Ci sono tre macchine da presa: una super8, una 16mm e una digitale, più la macchina fotografica utilizzata da sua moglie, la studiosa di Nietzsche Rosa Diaz. Con questo apparato tecnico multiplo ed estremamente mobile il regista del cine marginal raggiunge il cimitero cattolico di San Cristoforo e il luogo della sepoltura del regista de L’Avventura diventa, nello stesso tempo, il centro focale di una serie di riprese divenute performance ma, anche, il territorio dove il premeditato e il non premeditato lottano fra loro e il maelstrom dove immettersi se si vuole osservare l’immagine custodita al suo interno. Bressane passa tutto il tempo a cercare di entrare nella tomba. E dato che c’è un lucchetto (tenta senza troppa convinzione la piccola effrazione con un pezzo di ferro) e si trova davanti ad un interdetto, a un No-Trespassing, a un Tabù sostanziale, decide de eluderlo come farebbe e ha fatto Orson Welles nella sequenza famosa di Citizen Kane (che Bressane aveva già assimilato dentro uno dei suoi film: Bressane divoratore di cinema, che realizza, attraverso il suo “montaggio selvaggio”, la prima dimensione del rapporto con il morto, la consumazione; e che, nello stesso tempo, mette il morto a distanza modulandolo in un cinema di fotogramas, fotodramas e fototramas, come in Rua Aperana 52).

Mentre assistiamo a questi tentativi di ripresa dolcemente rosselliniani non possiamo non pensare che siano allegramente simulati, immaginando che le due macchine da presa utilizzate da Bressane siano scariche e quello che vediamo non è altro che un film di finzione che mostra due cameramen che vogliono fare un film su un regista e iniziano – o finiscono – con la sua tomba.
Che poi, alla fine, è quello che vediamo. Però, nello stesso tempo, vediamo molto di più, godiamo, in questo film di mezz’ora, di tutto un surplus di visione che si basa su quello che resta: una costellazione di immagini che ci permettono di pensare e rimontare un film mai visto: dopo ver (l’atto della registrazione da parte della camera-occhio) e viver (vivere le riprese, non filmarle soltanto, è questo il senso di tutto il making-off inteso non come banale – e noioso – divertissement, ma come sguardo del fuori) non ci resta che reviver. Il film inizierebbe, crediamo, con la soggettiva in 16mm del selciato che precede la soglia della tomba, dove l’occhio sembra incespicare come il narratore proustiano sull’acciottolato dove si imbatterà nel tempo ritrovato; poi la macchina da presa si solleva, filmando il nome inciso sulla soglia, “Antonioni”, che Bressane accarezza ripetutamente.
Questo gesto del cineasta non ci pare fortuito: sembra che più che accarezzare il nome, voglia cancellarlo (Godard diceva che “solo la mano che cancella può scrivere la verità”). Cancellarlo per mostrarci il nome che c’è al di sotto, e che, pensiamo sia Mnemosyne, inciso su un’altra soglia di marmo che non è quella di una tomba, ma di una biblioteca, quella di Warburg ad Amburgo. Senza Mnemosyne, infatti, nessun contatto con i morti è possibile.
Quindi, passando al super-8, vedremo, nel film che stiamo cercando di ricostruire, l’interno della tomba, il grande cassone a sinistra con le spoglie regista e, dopo un leggero scarto laterale, il vaso di fiori (alla Ozu, ma se ci pensiamo, bene, anche alla Hitchcock di Caccia al ladro, film che Godard utilizza per mostrarci figurativamente il concetto benjaminiano di costellazione che è alla base, anche, del montaggio di Bressane) e la finestra sbarrata, il piccolo rettangolo dove Michael Snow aveva incontrato il suo Miramar e Bressane la sua piccola linea di fuga verso l’illimite. Finestra che poi diventa fazzoletto bianco ondeggiante. A spiegare la specificità innanzitutto iconologico-sintomatica, di questo fazzoletto, è lo stesso Bressane nel suo testo Michelangelo Antonioni e il fazzoletto di lacrime (tradotto in italiano nel libro Dislimite. Scritti, a cura di Lorenzo Esposito per i tipi di Caratteri Mobili). Dopo aver raccontato gli incontri con Antonioni, a Taormina nel 1992 (dove i due, abbracciandosi, si commuovono) e alcuni anni dopo in Brasile (dove conduce il maestro italiano su una lancia, fino al punto esatto della baia di Rio dove i fratelli Secretto avevano girato le prime immagini cinematografiche del Brasile), Bressane si dilunga sulla ricognizione e le riprese nel cimitero di Ferrara: parla di “sensazione terribile di essere arrivato troppo tardi”, “dell’odore del corpo putrefatto” fino al piccolo evento risolutivo: la sua mano sinistra, senza controllo, tira fuori dalla tasca dei pantaloni il piccolo fazzoletto bianco di combrì che porta sempre con sé. Il fazzoletto, secondo una vera e propria metamorfosi del panno, diventa “fazzoletto tela, fazzoletto cataratta, fazzoletto nuvola, fazzoletto bava, fazzoletto idea, fazzoletto via lattea, fazzoletto, lacrima, uscito da una tasca vuota”. Perché “il fazzoletto, ritaglio di amore, tessuto deposito di sentimenti patetici, è ciò che ci ha uniti, fazzoletto di lacrime, fazzoletto di Kierkegaard”.
Alla fine, l’ombra del regista si allontana, in un movimento opposto a quello del Brakhage di Anticipation of the night, cercando non la sua dawn of the dead, ma la sua Aurora: Cela s’appelle l’aurore dice Buñuel (e Godard) e Aurora è il film di Murnau che finisce con una coppia di ombre amanti che si tengono per mano. Insieme a Rosa, che gli cammina a fianco, e come il vagabondo e la vagabonda alla fine di Tempi Moderni questi vagabondi tropicali muoveranno di nuovo, dopo il corpo a corpo con una tomba e un nome, dopo aver attraversato le tombe di un chiostro e le figure astrologiche dei Mesi, dopo essersi imbattuti in un cespuglio divenuto boscaglia di Martinica, verso l’alba brasiliana degli antipodi.
Intanto, il film è attraversato da voci, fonogramas, tratti da Otello-Johnny Guitar- In a Lonely place – Filme de Amor-Miramar, e che già solo attraverso la semplice addizione dei titoli formano il sotto-testo perfetto per l’intera biografia filmica di Antonioni.
(Continua…)
