I migliori Film del 2022
Marco Allegrezza
Un anno di visioni tramonta, tra queste vedute e vissute, alcune sono entrate nel cassetto delle memoir annuel. In questa trama collettiva e corale trovano spazio spiragli luminosi di luce calda e fredda, così distinti, disparati e variegati tra loro. Senza confini, un corpus unico. Un patchwork soggettivo dalle mille e più identità.
La lista dei film che segue, procede per libera associazione senza nessun ordine classificatorio.
- When the Waves Are Gone di Lav Diaz
Che succede quando le onde si ritirano?
Quanto resta sola la sabbia, prima di rincontrare nuovamente il mare?
È possibile fare cinema per le anime e gli spiriti?
Un’eco dice sì. Questa è la risposta dalle Filippine.
Un abbaglio senza confini: luci e ombre, sacro e profano, giustizia e ingiustizia, terra e acqua.
Un’estasi cupa, che lacerando l’interiore, lascia un vuoto febbrile liricamente soave.
- Gli ultimi giorni dell’umanità di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo
Un sogno lungo una vita,
una vita lunga un film,
un film lungo per sempre.
Un funerale e una festa, si approda e si salpa.
Il sisma ci scioglie e siamo nudi,
soli, o, tutti insieme,
per il resto delle immagini da produrre, vedere e vivere.
Cinema come epitaffio liturgico e resurrezione,
trapasso e genesi,
inizio e fine,
aurora e crepuscolo,
“aura e choc”.
Un’antologia sinfonica di immagini in movimento e suoni in divenire, un Lazzaro, che malgrado i dolori, si alza e cammina, marcia e piomba nella tenera, bianca e commossa felicità.
- Pacifiction di Albert Serra
Meditazione ancestrale e allucinatoria tra immagini e suoni.
Colori che ammaliano, seducono e turbano. Echi onirici dalle sfumature calde e sinestesiche. Nostalgia. Ritorno al dolore. Sudore e un’isola offuscata dal glow.
Non svegliateci da questo sogno lucido, da questo fantastico delirio post-coloniale.
Quanto vorrei andare in Polinesia De Roller,
come te,
come Gaugain.
Con voi due,
lì si che finalmente mi sentirei davvero bene.
- Mad God di Phil Tippett & Fairytale di Aleksandr Sokurov
Viaggi crepuscolari in (non)luoghi gotici. Attese di giudizio ed esiti finali.
Fiabe nere e allucinazioni cupe. Orrori neo e post, commessi e (ri)mossi.
L’ombra corvina trascende in antri fanta-speleologici. “Se esiste un aldilà siamo fottuti”
- Athena di Romain Gavras & The Fire Within: Requiem for Katia and Maurice Krafft di Werner Herzog
Fuoco e fiamme. La rivoluzione francese dalle forme videoclip engagé.
Gavras è incendiario e noi con lui, dal primo all’ultimo piano sequenza.
Marseille chiama, Athena risponde.
Banlieue di tutto il mondo unitevi.
Cosa si è disposti a fare per filmare?
Ardere, per la passione, per la natura, per la vita in sé.
Requiem d’incredulità, il viaggio nel tempo e nello spazio del reale.
Fa troppo caldo, scotta e non si torna indietro,
la durissima realtà che si solidifica per sempre,
il rosso e il nero,
due colori per due anime vulcaniche.
- Re Granchio di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis & Gigi la legge di Alessandro Comodin & The Plains di David Easteal
Il limbo tra la realtà e la finzione.
“in culo al mondo” o all’interno di una macchina. La macchina delle immagini, perfette come sogni aurei. Finzioni verissime mai false e verità realissime, così vere da apparirci in carne e ossa. Il cineocchio dell’umanità, che nasce cresce e muore. La biologia del cinema e il fuoricampo come altrove etereo ed eterno.
- Coma di Bertrand Bonello & Les Olympiades di Jacques Audiard
Pedagogie d’amore e dolore e speranza.
Dal cinema si può imparare? No, si deve imparare.
Uscire dai limbi, strapparsi i drappi di dosso, e dissolversi verso la libera libertà.
Il futuro è una chimera nottambula o una radice diurna?
- Mountain Onion di Eldar Shibanov & Silver Bird and Rainbow Fish di Lei Lei
Il bianco è un colore acromatico, come il nero. Sono agli antipodi, opposti, il primo è generato dall’unione, il secondo dalla sottrazione. In Cina, una luce bianca attraversa un prisma di cristallo, e da qui nasce un arcobaleno.
Due piume celestiali che non vedranno mai il nero, vagheranno così delicate, in eterno, nei sogni più intensi nascosti trai teneri palmi dei bimbi.
- The Whale di Darren Aronofsky
Una seconda chance offerta senza redenzione, da consumarsi disperatamente, in breve. Contro il tempo, sciogliendo nodi intricati di relazioni al limite. Esistenze al limite, maratone per cuori fragili. Aritmie ed extrasistoli. Solo un attimo prima del buio, l’ultimo sguardo a mia figlia, l’ultimo morso alla vita. Ce l’ho fatta, ora lasciatemi finire questo ultimo lauto pasto in pace. Amen.
- Memoria di Apichatpong Weerasethakul & Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson
Distanze siderali ci ricordano che le nostre singolarità coesistono nel molteplice. Non abbiamo memoria dei tempi che furono, eppure a volte ci sembra di conoscerli così bene. Lì abbiamo osservati ossequiamene da vicino, scrutato tutte le possibili ricreazioni o, già ci è capitato di viverli?
Una corsa d’amore, una rincorsa al primigenio tonfo sordo, un unico Ápeiron collettivo, da Hollywood all’Amazzonia. Suoni d’acqua e rumori alieni.
Chi siamo? Chi siamo stati? Chi vorremmo essere?
Sergio Arecco
(usciti in sala, in ordine sparso)
Il signore delle formiche di Gianni Amelio
Nostalgia di Mario Martone
Tori e Lokita di Jean-Pierre e Luc Dardenne
Men di Alex Garland
Incroci sentimentali di Claire Denis
Triangle of the Sadness di Ruben Ostlund
Buñuel, un cineasta surrealista di Javier Espada
EO di Jerzy Skolimowski
Le buone stelle – Broker di Hikorazu Kore-eda
Love Life di Koji Fukada
Alessandro Cappabianca
Crimes of the Future di David Cronenberg
Nostalgia di Mario Martone
Irma Vep di Olivier Assayas
Esterno notte di Marco Bellocchio
Ragtag di Giuseppe Boccassini
Pinocchio di Robert Zemeckis
Il signore delle formiche di Gianni Amelio
Madre Notturna di Daniele Campea
Padre Pio di Abel Ferrara
Gli ultimi giorni dell’umanità di Enrico Ghezzi, Alessandro Gagliardo
Massimo Causo
The Fabelmans di Steven Spielberg
Nope di Jordan Peele
Pinocchio di Guillermo Del Toго
Crimes of the future di David Cronenberg
Pacifiction di Albert Serra
Dry Ground Burning di Joana Pimenta e Adirley Queirós
Leonora addio di Paolo Taviani
Where is this street? Or Whit no Before or Afterdi loão Pedro Ro-drigues di João Rui Guerra da Mata
Esterno notte di Marco Bellocchio
Fairytale di Aleksandr Sokurov
Gli ultimi giorni dell’umanità di enrico ghezzi e Alessandro Gagliardo
Daniele Dottorini
Favola, Aleksandr Sokurov
Trenque Lauquen, Laura Citarella
Nope, Jordan Peele
The Novelist’s Film, Hong Sang-soo
Avatar – La via dell’acqua, James Cameron
The Batman, Matt Reeves
De Humani Corporis Fabrica, Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel
Tori e Lokita, Jean-Pierre e Luc Dardenne
The Fire Within: A Requiem or Katia and Maurice Krafft, Werner Herzog
Decision to Leave, Park Chan-wook
Edoardo Mariani
(i film qui presentati sono tutti posti al primo posto e non si vorrebbero fare distinzioni e classificazioni basate sull’ordine, quindi i titoli sono stati messi in ordine alfabetico considerando la prima lettera del primo film in questione).
À vendredi, Robinson di Mitra Farahani: perché queste nostre parole possano restare per sempre materia che alimenta il fuoco di una rivoluzione interiore della quale non ricordiamo la prima scintilla.
Close di Lukas Dhont e Love Life di Koji Fukada: per un mondo dove si può parlare di tutto senza paura di niente.
Decision to Leave di Park Chan-Wook e The Fabelmans di Steven Spielberg: per questa lezione di cinema classicistica e ispirata, la prima dalla suspense hitchcockiana e dai suoi voyeuristici addii, il secondo dal melodramma western, dove le pistole sono sostituite dalle cineprese con le quali alcuni dei cineasti più importanti della scorsa generazione hanno potuto giocare sin da quando sognavano di avventurarsi nel mondo dei sogni.
De Humani Corporis Fabrica di Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel: per averci permesso di navigare in quell’universo astratto e invisibile che è là il nostro organismo, regalandoci una lezione di come le immagini possono muoversi non solo velocemente o lentamente nel tempo, ma anche esplorarlo anatomicamente, il tempo nel corpo, umano non umano, o anche humans on humans.
Memoria di Apichatpong Weerasethakul: per l’intrigante lavoro sul suono, che torna e ritorna, che si fa portatore di una dimensione altra, del ricordo che non profuma come la madeleine proustiana, ma che rintocca come fanno certi paesaggi interiori quando si ripresentano e risalgono a galla.
Pacifiction di Albert Serra: per aver riportato all’equilibrio il tempo e il movimento in questa paranoica sequenza di immagini, che è il cinema.
Padre Pio di Abel Ferrara: per l’audacia con cui questo film si avvicina all’essenza di un cinema sacro e cosmico, soltanto un santo può sprigionare davanti al suo pubblico le energie racchiuse in un tramonto sporco e, dopo averli svegliati, portarli con sé, a fondo negli inferi.
The Matrix Resurrections di Lana Wachowski e Athena di Romain Gavras: per aver soggiogato e giocato con l’estetica difficile e smembrata di questi tempi luminosi, video-gioco, dimostrando che si può ancora trasmettere il giusto valore della lotta contro le autorità.
The Plains di David Easteal, The Maiden di Michael Chaves e Gigi La Legge di Alessandro Comodin: perché il tempo dei sentimenti si riesce ancora a sentire nelle inquadrature dei film che si mettono sullo stesso livello della vita, come essa trascorre.
When the Waves Are Gone di Lav Diaz e Coma di Bertrand Bonello: per quelle proiezioni di ombre che coprono il sole, terra di mezzo in cui si nascondono i demoni e si ritrovano gli animi indomiti.
Andrea Pastor
…ricominciare a scrivere per un’altra Filmcritica, dopo due anni. Non è cosa facile. E dunque mi si perdonino alcune brevi righe che potranno sembrare fuori luogo, o fuori tempo massimo, magari dettate da un’emotività ferita, non ancora cicatrizzata. Perché è sempre difficile elaborare e far lavorare i lutti. E alla morte di Edoardo si sono aggiunte altre scomparse, abbiamo perso Godard, Straub, e, più recentemente, l’amico Paul Vecchiali. Siamo tutti più soli. Non ci hanno lasciato solo delle persone che ci hanno segnato, che ci hanno fatto crescere, che ci hanno ‘educato’ a guardare e vedere e ascoltare, a farci interrogare dal cinema inteso come soggetto in grado di parlarci, perché portatore di un senso ( o più di uno) in più, ci hanno lasciato dei corpi veggenti, dei corpi pensanti e vibranti, dei corpi creatori di immagini e suoni e scritture in perenne movimento, dei corpi che ci hanno amato, accolto, valorizzato, come spettatori e scriventi che teorizzano e praticano uno sguardo che vorrebbe essere comunque e sempre, produttivamente, differente, in grado di farsi riscrivere dall’altro (schermo), quello la cui lettera iniziale oscilla tra il carattere minuscolo e il maiuscolo…
…E dunque, decidere, scegliere di ricominciare a scrivere, a farsi lavorare dal lutto, su queste ‘pagine’ on line, non con un saggio, magari poco saggio, ma con un ritorno alle 10 migliori visioni dell’anno scorso, ben sapendo che non sono archiviate nella memoria ma che continuano e continueranno, ben oltre la prima o seconda visione, almeno loro, a vivere…in ordine, forse, sparso:
When the Waves Are Gone di Lav Diaz
uno dei pochi cineasti contemporanei viventi che continua a non temere la potenza inscritta nella totale messa a fuoco, di inquadrature, di corpi, pulsioni, storie, che fanno vibrare la profondità di campo, che fanno vedere sempre di più, oltre l’orizzonte del visibile, dei generi, del narrabile, in trasognati piani sequenza che non si vorrebbe finissero mai
Top Gun: Maverick di Joseph Kosinski,
che contrariamente a Cameron e a Spielberg non teme di sorvolare e inabissarsi oltre le montagne, oltre il già visto e sentito, oltre la copia presunta originale, nel cielo astratto e materico dell’effetto speciale, senza mai disperdere il punto di vista. L’amore si fa in morbide e segrete dissolvenze incrociate, e fa pure volare, ma è solo un falso happy end, il Desiderio e lo Scandalo sono sempre bagnati dal sole, e sulla riva del mare, là dove ancora il gioco è possibile
Crimes of the Future di David Cronenberg.
Un altro suo estremo ed estremistico crash, il suo Querelle, ma senza più specchi, mi pare. Corpi come opere d’arte sui quali intervenire chirurgicamente per estrarre nuovi, disorganici, organi la cui bellezza è insostenibile. La parola filmata è sussurrata e sempre parziale, le identità si mutano a vista, anche e soprattutto quella di uno spettatore ancora e sempre polimorfo. Cronenberg non smette di disossare il suo immaginario e le sue forme, l’occhio, il naso e l’orecchio come terminali del vero sentire. Il post cinema è lontano, si ritorna, flagrantemente, alle origini. E una nuova luce e nuove sembianze furono, e saranno
Tori e Lokita dei fratelli Dardenne
che ancora una volta non tradiscono il loro cinema, stilizzandolo al massimo livello senza perderne di vista la materia prima: corpi al lavoro in movimento e nello spazio, corpi rosselliniani la cui storia, il cui passato è a malapena dicibile. Vivono nel presente della visione, del nostro sguardo, il loro esserci è solo ed esclusivamente filmico, gli spazi sono set che odorano di vero, luoghi clandestini, più che mai circoscritti, ma che sembrano diventare oscuramente familiari nel loro claustrofobico orrore. E il tempo, come e più di sempre, sembra tempo reale, e le parole di Tori e Lokita sembrano sgorgare non da una sceneggiatura prefabbricata ma dal loro più profondo sentirsi.E guardarsi. Oltre la legge di un Padre e di un’Europa che non ci sono
Padre Pio di Abel Ferrara.
La carne e il diavolo, e la lotta di classe. Ferrara, nel suo film apparentemente meno tormentato formalmente, è ancora sacrificale. In un mirabile montaggio alternato accende la ribellione e ne fa preghiera. La bandiera rossa come stigmata. Sublime l’inquadratura finale, là dove non ‘era solo la mano di Dio’ a toccare Shia Laboeuf, ma quella dello stesso, non riconciliato, cineasta
EO di Jerzy Skolimowski.
Umano, non umano. L’âne bressoniano, spogliato del sia pur materialistico trascendente, è ricondotto, fin dal titolo, a un impuro fonema. EO è tutti gli asini e tutti i migranti del mondo, il suo sguardo ottuso vede e non vede, forse sogna, forse si innamora. Da ‘ le cercle rouge’ del circo al sinusoidale corridoio della paura nel quale è spinto a forza , insieme alle altre bestie, verso un mattatoio finale che non può che consistere nel nero schermico, EO è un outsider errante in un claustrofobico on the road, a cielo chiuso, in strade irrimediabilmente perdute che non potranno mai ritrovarsi. È la luce contrastata del neon a marcare a fuoco il suo corpo sacrificale, al di qua e al di là dei confini di un Europa set dove l’umano e il vero sembrano essersi dissolti, dove sembra prevalere l’artificio,anche quando, nel prefinale, la parola, il dialogo, l’incontro, tra maschile e femminile, tra materno e filiale, tra fede e ragione e erotismo, la messa in scena del corpo cinema per eccellenza, Huppert, sembrano farsi, paradossalmente, più veri del vero, quanto più (in)verosimili.
Call of God di Kim Ki-duk,
postumo ma non terminale. Ci si risveglia e ci si riaddormenta incessantemente nel folgorante e misterioso, e magnificamente ossessivo, film del regista scomparso. Una ragazza, uno scrittore, un libro. Il corto circuito tra immaginario e immaginario è continuo, il reale come ombra, come spettro. Dio suggerisce al cell il che fare il che pensare il cosa vivere, il come scegliere, se aprire e chiudere le palpebre. Ma i sentimenti, l’amore fou, la gelosia a vista si fanno sempre più urticanti, la morte violenta, il senso di colpa, il gioco al massacro tendono l’arco fino allo spasimo. Fino a che l’essere e l’essere sorvegliati si sovrappongono, fino a che l’onirico riesce, dal b/n che impasta le luci e le ombre del film, riesce a farsi colore. Là dove la storia non può che ricominciare. Mai il the end e la morte davanti e dietro la mdp sono stati così affondati, a perdita d’occhio, nella vertigo.
Fairytale di Aleksandr Sokurov
Una cosa mai vista, mai sognata. Una divina, maligna commedia dove i Corpi i Volti, le Figure dei potenti e dei tiranni all’ombra di un Cristo esausto, sono imago artigianalmente rigenerate al computer, estrapolazioni, escrescenze di cinegiornali che vengono letteralmente ri-animate e gettate in un paesaggio che sembra ricreato e reimmaginato da un Doré o da un Piranesi redivivi, reincisi in una parata di fantasmi, senza inizio e fine. Lo schermo è ancora una volta velato da una nebbia che amplifica e dilata il disorganico muoversi, all’interno e oltre l’inquadratura, di spettri in transito perenne, eternamente risucchiati dal fuori campo. E la Storia continua
Vortex di Gaspar Noé
La morte e il dolore, e la malattia, quasi in diretta. Lo schermo è diviso dall’inizio alla fine. Argento e Lebrun chiamati a dare corpo e voce a una coppia di anziani che vivono le ultime ore del loro essere umani, e innamorati . Trous de memoire che non si possono sanare, l’Alzheimer come nero che grava sull’immagine e sull’immaginario, la fine di un legame, e di una vita, in un tempo sospeso che odora di tempo reale. Tra un quadro e l’altro, la ferita, la manque, là dove lo spettatore non può che attivarsi, interagire con un vuoto a venire. La parola, le ultime parole prima del crepuscolo. L’addio e la separazione vissuti letteralmente fino all’ultimo respiro, o rantolo. Dormire, forse sognare, forse cadere a terra, e morire, alla ricerca di un fuori campo senza speranza, che non può esserci. La sofferenza mostrata con crudezza, ma anche pietosamente, mai recitata, mai messa in scena, mai interpretata ma, non semplicemente, incarnata. Era dalla sua prima ‘ Carne’ che Noé non ci abbagliava con tutti i colori del buio.
A lungo indeciso (The Batman ha premuto fino all’ultimo momento per entrare nell’elenco), ho scelto di inserire Blonde. Nonostante il frequente, e a volte azzardato, cambio di formato dello schermo e del registro espressivo, nonostante il suo pericoloso costeggiare il kitsch bagnato dalle troppe lacrime della splendida protagonista Ana de Armas, continuo ad ammirare il coraggio di Dominik nel dare corpo e vita, colore e b/n, al lavoro del lutto, dell’elaborazione del plurimo trauma originario (tutto il film è la visualizzazione della carne, della mente, della psiche ferite di una figlia che non può farsi madre, di una bambina che abortisce se stessa, di una blonde Alice che cerca di andare oltre lo specchio, di farsi altra da sé, di scolpirsi un Nome e un’Immagine nell’immaginario hollywoodiano, di farsi consumare da una fin troppo stilizzata via crucis sui set d’ Autori directors.. ma i cuts, sempre finals, già terminali, della prima parte, sono i flussi allucinatori filmici più densi del 2022)…
Bruno Roberti
(In sala)
Avatar the way of water di James Cameron
The Fabelmans di Steven Spielberg
Crimes of the future di David Cronenberg
Doctor Strange in the Multiverse of Madness di Sam Raimi
Nostalgia di Mario Martone
EO di Jerzy Skolimowski
Fairytale di Alexandr Sokurov
Les Amandiers di Valeria Bruni Tedeschi
Tori e Lokita di Jean-Pierre e Luc Dardenne
Serre moi fort di Mathieu Amalric
(nei festival)
Gli ultimi giorni dell’umanità (Venezia) di enrico ghezzi e Alessandro Gagliardo
Master Gardener (Venezia) di Paul Schrader
Padre Pio (Venezia) di Abel Ferrara
Une couple (Venezia) di Frederick Wiseman
When the waves are gone (Venezia) di Lav Diaz
Trenque Lauquen (Venezia) di Laura Citarella
Herbaria (Pesaro) di Leandro Listorti
Call of God (Venezia) di Kim Ki Duk
Vera (Venezia) di Tizza Covi e Rainer Frimmel
Promised Lands (videoinstallazione vista a Firenze) di Amos Gitai
Francesco Salina
Elvis di Baz Luhrmann
Pinocchio di Guillermo del Toro
The Fabelmans di Steven Spielberg
Francesco Scognamiglio
Dopo aver ascoltato il racconto, lo abbiamo immaginato. Fuoricampo abbiamo respirato il pianeta su cui siamo giunti.
Durante i giretti tra le stradine, ogni storia che incontra Gigi è un possibile film. Le persone con cui parla hanno i loro veri vestiti e chissà quali pensieri nelle loro teste. Gigi la legge, questo è il documentario che ha pensato Alessandro Comodin ed è questo piccolo cinema pacifico in cui voglio credere.
Remando lontano dal racconto originale, Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis sono finiti a pescare idee d’oro oltreoceano per il loro film. Hanno inseguito Il re granchio per dimostrare che anche un lago è infinito come il mare. Ma sotto c’è qualcosa. È tutto troppo bello davanti ad un tramonto.
Sotto c’è un abisso ostico in cui l’umano e l’inanimato sono elementi confusi tra loro, codici genetici, altra materia. Il nucleo è abitato da Mostruosi esseri dai deformi corpi. Dio sta mandando messaggeri qui sotto perché è ora che esploda tutto. Il monolite nero domina la ciclicità del tempo. Mad God di Philip Tippett ci dice che forse è giunto il momento di un riciclo della fantascienza.
La fine del mondo è prossima. Tutti stanno cercando di assicurarsi una visione del collasso, immaginare nuove vite a cui approdare per continuare a far volare nel tempo almeno un pizzico di propria coscienza.
Voglio osservare un oggetto in caduta per sempre, ricordare i miei ultimi giorni per poi collegarmi a Gli ultimi giorni dell’umanità custoditi nello scrigno da enrico ghezzi e lavorati in compagnia di Alessandro Gagliardo.
“Presto sorgerà un nuovo giorno, amore mio”. Bertrand Bonello dedica alla figlia parole di speranza con l’ossessivo e labirintico Coma. Non dobbiamo avere paura di entrare nel confine, nel margine del limbo. Tutto sembrerà più chiaro dopo essersi abituati al buio.
Basta drizzare le orecchie per sentire quello che era sempre stato lì e che noi non avevamo il coraggio di ascoltare. Apichatpong Weerasethakul ci fa sentire un colpo secco che invece di svegliarci ci addormenta. Non ricordo se è la mia ma è comunque Memoria.
In questo insicuro futuro il mondo si sta agitando. Le lotte si fanno più sanguinose e le menti più annebbiate. Il bianco del cielo è così debole. L’oscurità ha contaminato e degradato ogni animo. Lo schema del film mette in trappola i personaggi che lo abitano. È la danza del male che balla chi fino a un momento prima pensava di essere in paradiso. Lav Diaz ragiona sulle sue Filippine in When the Waves Are Gone, Albert Serra è invece in Polinesia per l’assurdo Pacifiction.
Non ci resta che combattere contro chi ha generato tanto dolore, sperando che la battaglia assomigli ad un piano sequenza estasiante come quello iniziale di Athena di Romain Gavras per almeno concederci di godere dell’attimo dinamico senza preoccuparci del prossimo declino.
In ogni vittoria, in ogni sconfitta, l’umanità dovrà restare come una luce che illumina il nostro passato, chi siamo stati e cosa abbiamo fatto e infine chiederci cosa possiamo essere. Ho visto questa luce, finalmente beatitudine, in Les Olympiades di Jacques Audiard.