HISTÒRIA DE LA MEVA MORT
Torniamo su uno dei film maggiori del 2013, Història de la meva mort di Albert Serra, con un saggio di Luigi Abiusi
Inni alla notte
LUIGI ABIUSI
Resta un cinema di figure, sature, di immaginazione, ancora fanciullescamente, per quanto tremando e cedendo, giocante coi fantasmi, con metaplasmi consci del destino di diluizione della propria plastica nel mare, plasma indifferenziato, di fuga dallo stesso discorso ipotizzato dal regista; un cinema che non teme l’evanescenza, perchè crede nella pienezza (subito in svuotamento) dell’(in)esistente, della concrezione nata (e subito corrente) già in consunzione, dell’essere nulla, ma rispetto a un mondo e a un luogo determinato; una fenomenologia del nulla, una favola del nulla, che è quella intessuta nell’arco di tempo che andrebbe, potrebbe andare, da Mallarmè a Derrida, a Merleau-Ponty, ecc., con vari, fondanti prodromi mitteleuropei riguardanti appunto l’evanescenza, eppure il ritornare renitente, dell’immagine, della verità della/nella favola.
Il cinema di Albert Serra tenta questa via, riunendo indagine fenomenologica – quella stessa condotta con grande rigore da un suo coetaneo argentino, Lisandro Alonso, per non dire dei corifei di un naturalismo enigmatico, visionario (Bressane, Straub e Huillet, ovviamente Rossellini) – riunendo, dico, fenomenologia alla tensione di fabulizzazione del mondo: e allora il fenomenico è strumento del favoloso, del fantastico, com’è pure in Fantasma, a proposito di Alonso.
Allora richiamare il canto notturno di Novalis (oltre le fenomenologie percettive di cui dicevo) e il suo imperativo di favolizzazione del mondo (perchè così il mondo, con la poesia, riveli la sua verità), forse servirà non solo a comprendere il metodo di Albert Serra, ma anche il suo retroterra culturale, che in un film come Història de la meva mort, diviene nucleare, proprio oggetto di narrazione. E cioè quella fase di transizione (ed è inutile dire che il concetto di transizione, di spazio tra enunciati, in questo caso tra immagine e immagine, deleuzianamente, ma poi fenomenologicamente appunto, è fondamentale per Serra) che da un tardo Illuminismo porterà al Romanticismo più buio, eppure più teorico, popolato da sibilanti e vampiresche figure erotiche.
Le stesse dichiarazioni di Serra intorno al film vincitore a Locarno (e la sua formazione filosofico-letteraria, mi pare), contribuiscono a farsi quest’idea, cioè quella di un film ancorato a questioni non solo, come dire, epistemiche (intorno alle possibilità di edificazione dell’immagine), ma proprio di storia della letteratura e dell’immaginario (s)legatevi: il che riguarda una prima parte di illustrazione rococò, mostrando il materiale fenomeno degli interni (dove esercitarsi nei ragionamenti libreschi e nei discorsi), stanze ferme, rapprese, dalle pareti floreali e psichedeliche; dialoghi straniti, spossati (già indirizzati verso la propria morte), perchè si rivelano monologhi di Casanova verso il suo servo, stancamente attonito (come Sancho in Honor de cavalleria), quasi zittito da uno stato d’amenza della stanza, della luce, quindi del volume immaginale. Uno spazio di estraneazione anzichè di appropriazione (da parte dei personaggi), in cui le parole, i suoni, il silenzio sembrano provenire da un sostrato del reale, da una dimensione più in là, più sotto, e sono attutiti dall’interstizio tra i due livelli, ancora dal transito, che lascia passare densità audio-video alterate, ma in direzione della sottrazione: un onirismo minimale che è tanto più straordinario, quanto trasudante dai volumi e dalla loro vita naturali.
Gli ultimi giorni di Casanova (uomo del Settecento) sono, preromanticamente, la testimonianza di un torbido onirismo che enuclea realisticamente tutte le cose, prima che ciò si trasponga nell’oscurità del mito romantico. Cioè in quella zona inquietante e notturna in cui il fenomeno (di straniamento, sradicamento delle cose da sé) diviene strumento dell’emersione (ed eversione estuosa, erotica e macabra), dell’ostensione di tutta una mitologia irrazionale che confonde sacralità biblica (il tradimento delle figlie verso il padre), erotismo (oltre alle spaesate copule del libertino, la morbosità del morso vampiresco), capitalismo (i continui riferimenti all’oro). In questo senso anche la merda-capitale, prima giacente come referto biologico in un vaso da notte – eppure anch’essa in qualche modo alterata nella sua reale nudità, nel suo stare in una stopposa dilatazione di spazio-tempo che è la sequenza, e nella psichedelia della dimora del “giovin signore” –, compie il suo viaggio (insieme a Casanova) per perdersi, fondersi, quasi brulicante adesso, nella notte orientale con gli altri fantasmi che si intravedono appena, assorbiti dal nulla notturno (come nel finale de L’inconnu du lac di Guiraudie o di un altro film sorprendente, da cui si vede l’alba improvvisamente apparita, tenera e inquietante, come Le rencontres d’après minuit di Yann Gonzalez su cui magari ritornerò prossimamente): cosa che definisce anche la politicità di questo film, intendendo magari la notte, oltre che come luogo mistico di dispiegamento della poetica, anche come metafora di un declino politico che, ad esempio, nel lessico di Lyotard sarebbe il «comandamento notturno», il dovere di percorrere consapevolmente la notte, intesa quale «persistenza cieca e accecata dal Kapitale» (Badiou), per attenderne l’apertura verso l’alba di altre possibilità.
Casanova, spostandosi, non solo attraversa territori (mitteleuropei) ma anche periodi, lassi temporali (e in questo senso delinea le coordinate di un film-saggio), ed entra nel dominio del Romanticismo. Così che sulla seconda parte del film cala la notte, territorio di sedimentazione di svariati significati – ecco allora che qui s’inserisce, anzi (non) si chiarisce, tra gli altri, il discorso politico sull’oro-merda –, di segni imprevedibili, inconsecutivi, cioè fuggiti, fuggenti dalla stessa imposizione discorsiva di Serra. Sono miti, plaghe si senso ancestrale, che però non si riferiscono ad alcuna metafisica posta al di fuori della loro estemporaneità fenomenica; ad alcuna pienezza archetipica: semmai a un vuoto, un nulla, terrifico e fulgido (aggettivi che scandiscono il sublime nell’accezione protoromantica), e valgono e vivono febbrilmente finchè dura la materia cinematografica. È a partire da quel nulla (per nulla teleologico), da quel caos, che sarebbe in altri termini la “negatività” di Novalis; è da quell’apertura schlegeliana, folle libertà, che escono le figure, che vanno credute in relazione a nient’altro che a se stesse, fintanto che dura la loro esposizione. Nascono Dracula, imprevisto, e le medusee, vampiresche bellezze che lo attorniano, stese o sedute lubriche su quel prato selvatico, sterposo, che è certamente un punto focale del realismo di Serra (tutto teso alla perdita di focale) se è vero che predominava, lo scorcio campestre (e le posture dei personaggi inseritivi), come territorio irregolare, rizomatico, anche nel viaggio psichedelico (riuso un termine utilizzato dallo stesso Serra), stranito, scentrato pur restando rigorosamente, naturalisticamente a fuoco; anche nel viaggio, dicevo, di Chisciotte e Sancho.
Sorge una «bellezza insidiata e contaminata», come la chiama Praz, violenta e traboccante (rispetto agli equilibri rococò), quella delle donne lascive, contagiate dal morso, vibrante nella sua umana, carnea ostensione; allo stesso modo della spaventosa vibrazione, alla fine, della monodia (atonale, di bassi profondi, quasi sorgente dalle radici terrestri) della colonna sonora (anch’essa imprevista), a dare forza allucinata ed erotica al «cielo notturno [che] balena d’una luce più spaventosa dell’oscurità» (Schiller), al fenomeno della brughiera, dei cespi e degli alberi di fondo, il vento di torno e i corpi finalmente inghiottiti dalla notte stupefacente.