HIGH FLYING BIRD di Steven Soderbergh
Un dialogo intorno al cinema
di Michele Moccia
“Come mostri a un uomo la sua umanità?”; “Gli ricordi la sua mortalità!”, si ripetono Spencer e Ray in High Flying Bird, l’ultimo lavoro di Steven Soderbergh, come se l’adagio recitato dai due protagonisti fosse un altro spunto metaforico sulla messa in scena – Ogni film in fondo è una metafora – e il film stesso, ancora una volta, un dialogo intorno al cinema. Come se in Soderbergh la mortalità del film, del soggetto film, della soggettività del film sia l’unico modo per essere oltre il meccanismo oggettivo, l’oggetto meccanico, l’oggettività della macchina riproduttiva del cinema, per ritrovarne l’umanità – da qui la scelta di filmare High Flying Bird come il precedente Unsane –. E la cosa che più affascina, in particolare, in alcuni film di Soderbergh come Che, The Girlfriend Experience, Contagion, Magic Mike, Effetti collaterali, Unsane… sta nello scoprire che la vera passione per il mondo (delle storie) che ci circonda (il cuore stesso di ogni ermeneutica), che tutto ciò che dell’esistente si può esperire, è nel prendere coscienza di un paradosso, ossia che la più plausibile delle possibilità è quella che per perdere il controllo e lasciarsi andare al fluire del presente, al passare del tempo, bisogna sapersi porre di fronte alla realtà in modo del tutto razionale. Filmare, e percepire il mondo, scoprendo la razionalità della realtà, per poterla raccontare, che è poi l’unico modo possibile di continuare ad illudersi: “Hai mai avuto una storia d’amore? Parlo di un rapporto veramente bello. Sai, delle volte, devi lasciarlo naufragare prima di capire quello che avevi”.