Giochi col tempo
di Alessandro Cappabianca
Nel genere fantascienza è corrente la metafora del “viaggiare nel tempo”, magari a bordo di macchine appositamente costruite, per mezzo delle quali è possibile spostarsi a piacimento da un’epoca storica all’altra, salvo errori o malfunzionamenti (che nella maggior parte dei casi costituiscono il clou dell’avventura). Si gioca sui paradossi, le incomprensioni e gli inconvenienti generati dal contatto tra soggetti appartenenti a epoche diverse e a mondi spesso incompatibili, che altrimenti non si sarebbero mai incontrati; ma, esauriti i giochi, di solito la conclusione si concentra sul naturale desiderio di “tornare a casa” (cioè alla propria epoca) da parte del soggetto viaggiante, specialmente nel caso che il “viaggio” sia involontario, come accade all’agente speciale Kiera Cameron, catapultata assieme a un gruppo di terroristi rivoluzionari dal 2077 al 2012 nella serie TV canadese Continuun (2012-2015), ideata da Sam Barry.
Scomparire, ri-comparire.
La serie comincia col presentare un particolare interesse, proprio riguardo alla metafora dei viaggi nel tempo, di cui si diceva: metafora di tipo spaziale, che presuppone un percorso e quindi appunto un tempo, fosse pure rapidissimo (quasi istantaneo). In questo caso, veramente, più che di “viaggiare”, si tratta di “precipitare”, d’un salto d’epoca istantaneo (all’indietro), in cui un’esplosione ben calcolata proietta il gruppo rivoluzionario nel passato, dove conta di preparare le condizioni, anche attraverso attentati terroristici, per evitare la dittatura (delle multinazionali) istauratasi nel 2077.
Evidente, qui, il rapporto con Terminator, ma evidente anche l’impossibilità di evitare, parlando di salti nel tempo, le metafore spaziali. Saltare, precipitare, scomparire, evocano, rispetto a viaggiare, eventi spaziali più catastrofici e immediati, ma sempre spaziali, a conferma di ciò che Agostino d’Ippona aveva per primo intuito: il tempo non si lascia “dire” filosoficamente, la sua esperienza può solo essere vissuta. Del resto, anche gli scienziati ci avvertono che ogni spostamento temporale ne implica necessariamente uno spaziale. Se “lasciare” o “scomparire” vengono spesso usati negli annunci funebri come sinonimi (edulcorati) di morire, nel caso delle storie di fantascienza si muore senza morire e si può ri-nascere già adulti, trovandosi faccia a faccia con la propria madre, il proprio padre o la propria nonna, se non con altri se stessi (ammessa la conoscenza delle condizioni per cui si può parlare di “se stessi” come quota di continuità nella discontinuità).
Saltare in un’altra dimensione, come passando attraverso il vortice anti-materia d’un buco nero, non solo significa perdere il proprio universo, entrare in un altro, eventualmente legato al primo da tenui legami parentali, ma significa anche perdere se stessi, o parti essenziali di se stessi: prova suprema di metamorfosi, nella misura in cui, appunto, nella metamorfosi si cambia e restano lacerti, pensieri, ricordi, memoria, tracce, della precedente forma d’esistenza.
Ma si può chiamare metamorfosi un processo in cui si cambia tempo, conservando il proprio nome, la propria personalità e il proprio aspetto? Sicuramente si, se è vero che personalità viene da Persona, e quindi ha a che fare con la maschera. Coperti dalla vecchia maschera, si è nuovi: si compiono azioni e si provano passioni cui “prima” non si sarebbe neppure pensato.
In Continuum, a seguito del trasferimento dal 2077 al 2012, cambia la strategia del gruppo rivoluzionario, di cui alcuni membri ora adottano preferibilmente, anche se non esclusivamente, tattiche di convinzione; ma cambia altresì il rapporto dell’agente Kiera Cameron nei confronti di un’istanza di democrazia che prima non era quasi avvertita. Il salto nel tempo genera incubi (Kiera, all’inizio del primo episodio della seconda stagione, sogna di essere imprigionata in una gabbia trasparente di ferro e vetro, dalla quale non si può uscire), ma offre anche stimoli nuovi e possibilità insperate. Proveniente da un’epoca tecnologicamente agguerritissima, lei deve fare i conti con una tecnologia i cui sviluppi sono ancora in formazione, che è quindi ancora possibile indirizzare in senso positivo. Sono i primi tentativi di un’elettronica del raddoppio, capace di rimettere in scena, sia pure in forma spettrale, avvenimenti già accaduti (che traumaticamente ri-accadono). Senza la necessità di testimoni, le prove d’un delitto, l’identificazione d’un assassino, risiedono nella re-visione dell’evento che si effettua, grazie al dispositivo elettronico, nella mente stessa dell’investigatrice. I mondi si incrociano, malgrado la distanza temporale.
Resta il problema del ritorno, ossia del lieto fine, che alla quarta stagione non poteva essere ulteriormente rimandato. Gli ideatori di Continuum lo risolvono tramite l’invenzione d’una tradizionale macchina del tempo, basata sulla tecnologia dei portali. Grazie ad essa, Kiera torna nel 2077, può ricongiungersi alla sua famiglia, rivedere suo figlio – ma si evidenzia alla fine che il futuro era già cambiato in meglio, grazie all’azione esercitata sul passato.
Nello spazio si agisce, dal tempo si è agiti.
Morire di continuo.
Il finale di Continuum è agro-dolce. Molti muoiono. L’onesto poliziotto innamorato di Kiera rimarrà deluso. Lei torna a casa (se si può dire che il tempo, da gabbia, si faccia casa), mentre l’opportunista Kellog, ex membro del Liber8, viene spedito in un imprecisato universo selvaggio (preludio forse a una serie successiva). Tutti gli spazi esistono solo in funzione del tempo, così da giustificare il fatto che uno dei personaggi (ma del tutto secondari) si chiami Escher.
Il tempo uccide. Il tempo fa rinascere. Ogni gioco col tempo, in quanto genere più o meno seriale, ha in sé qualcosa dell’esperimento di Philadelphia, prospetta un ritorno, magari periodico, al futuro: vedi naturalmente il prototipo/Zemeckis, in cui la macchina (del tempo) salta (nel tempo), scompare e riappare, ma tutto è innescato (anche qui) dall’intervento (in-tempestivo) di un gruppo terroristico. E’ per questo che l’appartenenza al genere fantascientifico d’un film come Je t’aime, je t’aime (A. Resnais), pure esatta, è cosa del tutto secondaria.
Nella serie USA Russian Doll (2019), ideata e interpretata da Natasha Lyonne, c’è invece una ragazza, Nadia, presa in un loop angoscioso (e spiritoso) che muore continuamente, il giorno del suo 36° compleanno, e ogni volta si ritrova viva nel bagno della propria casa, mentre sono in corso i festeggiamenti. Prima muore, investita da un taxi, mentre è scesa in strada alla ricerca del proprio gatto. Stacco. Stanza da bagno. Poi cade nel fiume. Idem. Cade in un tombino. Cade dalle scale e si rompe il collo. Presa per pazza e portata in clinica, l’ambulanza ha un incidente. Dopo ogni morte, si ritrova nel bagno, a chiedersi cosa sia successo. Forse la sigaretta che stava fumando era drogata? O il bagno è un condensatore d’anti-materia, dispositivo foriero di eterne ripetizioni? Finché prende un ascensore, l’ascensore precipita, e conosce un ragazzo, un certo Alan, al quale cose di questo genere succedono continuamente (“Non faccio che morire!”). Tra i due si istaura subito un legame di empatia, un legame tra eterni ri-morti, depressi e candidati al suicidio. Può salvarli questo legame? Forse no, visto che l’utilizzo dello split-screen sembra proiettarli a tutta prima in due universi separati; o forse si, dato che alla fine lo schermo si riunifica, e le due versioni di Nadia, che sembravano separate, procedono insieme, all’uscita d’un tunnel, in un corteo variopinto di maschere. E’ un corteo mascherato dall’aspetto gioioso – ma tra le maschere (l’esperienza insegna) non si può mai essere del tutto tranquilli. Personalmente, mi viene in mente il corteo dei soldati morti all’uscita del tunnel in un film di Akira Kurosawa (Sogni, 1990): ma chissà perché. Forse anche queste maschere, come i soldati del regista giapponese, sono alla ricerca di qualcuno che dica loro dove andare, cosa fare. L’episodio (ottavo della prima stagione) è intitolato Arianna, ma la lotta contro il Minotauro del Tempo è forse appena all’inizio. Vedremo.
Oltre le frontiere del racconto.
Ma forse il ricorso narrativo al viaggio nel tempo non è poi altro che il segnale della profonda insoddisfazione generata in noi dall’essere in sua balìa. Vorremmo padroneggiarlo, il tempo, ma possiamo farlo solo nell’immaginario, ossia prospettando il salto in passati e futuri già cinematograficamente immaginati. Marty e Doc, in Ritorno al futuro III, non si trasferirebbero nel vecchio west se non esistesse Clint Eastwood, se non esistesse il western, con la sua mitologia. In questo senso il cinema, i generi e il racconto cinematografico, costituiscono una delle fonti d’ispirazione della serialità (vedi per esempio, tra i tanti, l’omaggio proprio al Zemeckis di Ritorno al futuro nella tersa stagione d’una serie come Stranger Things) ; o detto altrimenti: la serialità è la realizzazione resa ormai tecnologicamente possibile di una delle più radicate aspirazioni del cinema a porsi come arte popolare (e consolatoria). La serialità, insomma, si può intendere come destino d’un cinema intrinsecamente già seriale, sottratto alla vocazione visionaria che pure portava in sé: vocazione visionaria, inerente ai fantasmi del Reale, che non si lasciano addomesticare tanto facilmente. Difficile uscirne, se non superando, fuori da tutti gli schemi (anche produttivi), le frontiere stesse del racconto – ma questo solo gli outsiders alla Cronenberg possono farlo.