FUORINORMA 5
Il cinema e il suo doppio
Di Marco Allegrezza
LITTLE BOY, LITTLE BOY di Marco De Angelis e Antonio Di Trapani (2021, 74’)
Nome: Mk.1, o meglio conosciuta con il suo noto nome in codice Little Boy.
Peso: 4000 Kg
Lunghezza: 3,00 m
Diametro: 0,71m
Le precedenti sono le caratteristiche specifiche non di un bizzarro esemplare di essere umano, ma di un artefatto di creazione umana, progettato inventato e generato per mietere distruzione e devastazione, il cui nome, come per tetra e giocosa goliardia, fu quello antropico di “Little Boy”.
Era il 6 agosto del 1945, ore 08:00, minuti 15 e secondi 17 e sull’epicentro della città nipponica di Hiroshima precipitava il piccolo ragazzo d’uranio che in pochi istanti si sarebbe manifestato sotto forma di inferno cocente, consumando ferocemente con la sua fatale e funesta detonazione il panorama umano e ambientale di una calda giornata estiva giapponese. L’esplosione nucleare conteggiò tra le sessanta e ottantamila vittime mietute istantaneamente, vittime la cui commemorazione viene celebrata anche oggi, quando ad ogni anniversario i cittadini giapponesi si riuniscono in preghiera alla stessa ora in cui esplose il catastrofico congegno. Una pioggia di cenere che poggia su resti di inesistenza, un’eco di vergogna tramandata nella memoria collettiva di un popolo.
Questo film-testamento si erige come salvaguardia della memoria dall’oblio, dalla dimenticanza, dal silenzio, dall’oscurità dell’abbandono. In una cornice come quella illustrata poc’anzi, si instaura il percorso narrativo del testo filmico, che vede una forte commistione fluida e talvolta ambigua tra finzione e realtà. Un peregrino itinerare nei meandri del ricordo, tra reminiscenze individuali e globali, personali e collettive, di storie allacciate da un fil rouge comune raccontato e illustrato dal diario di viaggio di un ignoto e misterioso viaggiatore. Un narratore invisibile ci traghetta tra i frammenti di queste testimonianze inscenate e non, visivamente illustrate con grazia ed estremo lirismo poetico, delineando così un ritratto dal linguaggio spurio (fiction/non-fiction, tematica da sempre molto praticata e discussa nel cinema) tra bellezza amara e dolcezza aspra. Questa opera si palesa come un collage prezioso, un sacro mosaico nel quale variegate vite si intersecano all’insaputa una delle altre, sostenute da un unico perno che le fa ruotare (anche attraverso l’ausilio della scelta estetica della voce fuori campo), tentando di salvare dal vuoto, edificando un piccolo e intimo tempio liturgico, in dono allo spettatore, che scruta, osserva, e si lascia riscaldare.
Fra gli attori e non attori, persone e personaggi di questo film di non-prosa si conosce un giovane che nutre una passione fervida per antichi ritrovamenti, oggetti e utensili del passato da conservare gelosamente, lasciti del tempo che rinviene e custodisce, reliquie che non affievoliscono il valore della Storia, anzi la nutrono di nuova linfa e conservano l’immortalità della memoria e del ricordo; un locandiere che ospita stranieri provenienti da tutto il mondo, seguendo un sogno che superi i confini geografici e culturali, in un volo transnazionale, globale ed espanso; un altro è un superstite del genocidio atomico che rivive la tragica sorte che colpì i suoi cari e che per pura contingenza risparmiò lui. Destino che, solo apparentemente fausto, si rivela nella sua natura contradditoria e ambigua, poiché il popolo giapponese non ama riconoscersi nel termine di “sopravvissuto” o “superstite”, anzi vive questa condizione con sofferenza e vergogna, utilizzando perfino un altro lessico che porti con sé rispetto e dignità per chi invece è rimasto vittima della disgrazia. Questo testimone menomato non fisicamente ma interiormente è l’umano avvertimento di come la sofferenza non si sia spenta ed estinta dopo il brutale schianto, ma continui a perdurare nel tempo, a volte latentemente, altre come un lampo incendiario, come la morte che ha stroncato la sua sorellina, inizialmente salva e poi venuta a mancare pochi mesi dopo lo scoppio atomico, per diretta conseguenza degli effetti delle radiazioni, o anche e forse in maniera più sofferente, sotto forma di sdegno a cui i sopravvissuti sono sottoposti. Emarginati dalla società, rimangono esuli perché temibili e potenziali portatori di genomi nefasti e, come narra la sua stessa voce rassegnata, lui vive il rifiuto e l’impossibilità di congiungersi coniugalmente, e nonostante si sia salvato, sente di non poter raggiungere una libera e beata esistenza.
Unica nota lieta, anche questa evidentemente beffarda, le pupille di questo uomo stanco e ancora lacerato possono vedere un elemento nuovo, che l’urbanistica precedente alla modificazione artificiale imposta dall’angelo sterminatore impediva di scorgere: con il cedimento del grigio cittadino oramai assente, tale devastazione lascia emergere timidamente un’inattesa visione, il blu del mare.
In questa costellazione narrativa già ampia, si manifesta in ultima istanza il solenne aspetto teatrale, attraverso l’affascinate personaggio dell’intagliatore di bambole, e come suo corrispettivo, la destinazione e prosecuzione svincolata del suo lavoro, una compagnia di una delle quattro forme del teatro tradizionale nipponico: il teatro delle marionette Jōruri. L’aspetto marionettistico innesca un duplice meccanismo, che introduce la tematica del doppio, dove i confini labili cedono e si confondono. Chi conduce chi in questa strana rappresentazione d’esistenza, la bambola o il marionettista? Il documentario o la finzione?
L’ultima opera degli autori De Angelis e Di Trapani è un viaggio esplorativo che corre su binari figurati e metaforici e, seguendo il flusso quasi onirico delle immagini (sovente anche di repertorio), porta lo spettatore a ritrovarsi trasportato tra i rosei petali dei ciliegi, soggiacenti e rifiorenti, in un continuo andirivieni temporale tra passato, presente e futuro, mediante l’immersione intima di racconti di poetica esistenzialità.
Tuttavia, mai obliare l’amore, soprattutto dove e quando non sembra esserci pace tra i ciliegi; così, volgendo al termine del racconto sonettistico-visivo, i tenui e graziosi lineamenti di una giovane ragazza di Kyoto, apparizione eterea e sulfurea, ci riportano verso nuove soavità speranze e fioriture. La conclusione di questa esplorazione interstiziale si apre e conclude con l’apparizione quasi sognata di una donna e il suo accompagnamento musicale, come in una meta-dimensione irreale, Aurora e Crepuscolo Michelangiolesco. Personificazione di un sipario teatrale, che semina e raccoglie questa ricerca enigmatica donandole un rimbombo celestialmente soave.
QUESTO E’ MIO FRATELLO (2018, 77’06”) di Marco Leopardi
Il grande inganno di questo film è la superficiale, falsa e apparente propensione nell’apparire semplice, sia nella composizione che nella fruizione. Invece, ecco un film che è frutto di una scelta e un gesto estremamente audaci, che portano su un terreno viscoso, suscettibile e delicatamente complesso. Un rischio che l’autore si assume fermamente e audacemente, trascinando con sé il fardello di un’eredità a lui gargantuescamente cara, ricca di aspettative e del celato timore di esondare dall’oggettivo al soggettivo, in una pericolosa gara d’armonico equilibrio fra acrobati funamboli.
Il film racconta una storia reale e presente, utilizzando prevalentemente un linguaggio del passato, seppur recente, e acquisendo i tratti di un singolare Bildungsroman in divenire. Il protagonista, raccontandosi nel racconto, svolge e vive il suo personalissimo arco narrativo, il quale si trova ancora in pieno e vitale svolgimento anche nell’extra-filmico. La narrazione evolve fra le numerose difficoltà di questo processo evolutivo unico, fino a raggiungere la sua forma ultima, che mostrerà una nuova dimensione del suo self.
Il protagonista, “primo attore” di questo viaggio dell’eroe è Massimo, un uomo che esiste davvero, ha cinquantaquattro anni, ed è energico in modo altalenante, tendenzialmente individualista e sicuramente egocentrico. Capace, per favorevole o sfavorevole ventura, di sentire tutto troppo, quasi privo di quelli strati superficiali epidermici che impediscono, nelle persone comuni, di percepire la realtà in maniera intollerabile. In nuce, questa sua eccessiva sensibilità ha fatto sì che nel corso della sua vita si ritrovasse a dover fronteggiare le porte del buio atavico e sprofondasse nel più inesorabile abbandono, inerme e distaccato da sé stesso e dal mondo.
La caratteristica abitudine di Massimo, che è anche la principale e primigenia fonte e motivo d’esistenza di questo racconto audiovisivo, requisito fondamentale per il quale si parla di ciò che è possibile mirare e visionare in Questo è mio fratello, è quella di auto-filmarsi quasi ossessivamente, con strumenti video che vediamo cambiare nel tempo tra formati e neo-risvolti tecnologici che si palesano mescolandosi all’unisono nell’unica narrazione filmica.
È come se Massimo avesse ricostruito un alter ego nella sua telecamera, che diventa specchio e amico immaginario, fedele compagna di viaggio, pronta a immortalare scrupolosamente l’intera sua esistenza, senza perdere alcun dettaglio, cruciale o meno, di gioia o di dolore, di Eros o di Tanathos. Il risultato straordinario sono infinite ore di materiale girato che raccontano prima la vita e poi la fragilità di un individuo che per un quarto di secolo ha vissuto combattendo contro la depressione, rispondendo ad essa nei modi più creativi policromi e disparati, e soffrendo allo stesso modo, fra bizzarrie comportamentali, l’avvicinamento agli sport estremi, l’approdo al cinema, e molte altre sorprendenti stravaganze inaspettate.
Occorre ora tornare alla difficoltà primigenia di svolgere un film all’apparenza “normale” su una vita (a)normale o semplicemente “fuorinorma”, di chi è arrivato in seconda battuta, ovvero l’autore Marco Leopardi, e ha orchestrato l’opera, trovando la maniera di districare i fili della matassa e cucire una coperta patchwork coloratissima ed emozionalmente fruibile. L’intreccio assume connotati più sottili se si scopre che l’autore è un documentarista che ha scelto di intraprendere un viaggio, raccontando una delle persone a lui più vicine, suo fratello Massimo, anche nel tentativo di comprenderlo e conoscerlo realmente e in profondità, esondando anche nei contorni del loro quadro familiare.
Due fratelli si trovano così uno dietro e l’altro davanti alla macchina da presa, in un’avventura profonda ed esistenziale che pervade gli animi, dal tragico al comico, dall’aspro al divertente, creando un orizzonte complicato che coinvolge anche un terzo personaggio centrale, il padre dei due fratelli Leopardi, dipinto nelle fasi crepuscolari del suo percorso biologico.
Un ritratto familiare ricco di sottili sfumature penetranti, che coinvolge attivamente gli interi protagonisti/partecipanti con prospettive evidentemente diverse. Chi filma e chi viene filmato ricerca forse la stessa verità, e così i ruoli spesso si capovolgono, ricostruendo intimamente e genuinamente un’intricata trama domestica dalle plurime dinamiche. La genuina e straordinaria impresa dell’autore Marco Leopardi trova compimento quasi interamente in montaggio, dove si concentra tutto lo sforzo e l’impegno nel rintracciare un percorso che, tra gli sterminati gigabit di materiale da sbobinare, sia degno di ricostituire un affresco familiare nelle sue astruse crepe e interstizi unici.
Il testo filmico parla un linguaggio semplice, ma non semplificato, lontano dai fronzoli retorici ed estetici, ed è reale, vivido, catartico cataclisma di purezza e vita candida. Indaga le tortuose profondità intime e personali restando sempre cristallino e terso. Sobrio e familiare, è epifania di un miracolo. Con l’innocenza di un bambino che calpesta terreni disagevoli, decifra ed esplica con una comprensibilità lampante complessi teoremi di massima esistenza, generando così un’incantevole biografia individuale, e forse anche soprattutto collettiva, dono a e per l’umanità, riesce ora decifrare meglio le asperità di un fenomeno patologico che spesso è inintelligibile ed inaccessibilmente ermetico. C’è però speranza, e qui la vediamo gridare più che mai. Come speleologi esperti, Marco con e attraverso Massimo e la sua peculiare vita, insegnano la luce ritrovata dopo le gallerie buie. Mostrano che ogni pozzo incastrato nelle profondità terrestri sa di avere un fondo, ma che il corpo umido e infreddolito è chiamato a risalire dagli abissi e godere della fresca aria del giorno, di quel bagliore vitale che non potrà mai smettere di aspettare l’essere umano che riaffiora da sé stesso.