FUORINORMA 5
Un diario inatteso
di Edo Mariani
Dai racconti delle passate epoche del cinema come comunione di sguardi, di sale fumose e di sedili impegnati, il Filmstudio è ricordato come uno dei ritrovi di maggior rilievo a Roma a partire dalla sua fondazione nel 1967. Frequentato dai più giovani cinefili ai cosiddetti maestri e da buona parte dei critici della storia della critica cinematografica italiana, questo magico spazio “era un luogo in cui si mostravano cose che non si potevano vedere in nessun altro posto”, come ricorda Bernardo Bertolucci.
Oggi, dal 4 al 9 dicembre 2021, nella stessa entrata di Via Degli Orti d’Alibert 1/c in Roma, ai confini del Rione Trastevere, ha avuto luogo il 5° Festival Fuorinorma, sempre curato dallo storico fondatore Adriano Aprà, vecchia conoscenza anche della redazione di Filmcritica, che in occasione di questo ritrovo si trasforma tout court in “Festival – Simposio”. Spazio Scena, così è stato rinominato dopo la sua riapertura nel 2021 quello che è ormai l’Ex-Filmstudio, ha ospitato le sei giornate di proiezioni e di discussione.
In questo spicchio di Roma, nascosto, quasi angusto, con i lampioni che si accendono quando è ancora giorno, si vedono passare le facce, le occhiate, gli occhiali o semplicemente spettatori e spettatrici di ogni età, tutti nascosti da mascherine colorate ed eccentriche, tutti partecipanti a questo ritrovo aperto di/del/nel cinema.
UN CONFINE INCERTO di Isabella Sandri (2019, 114’)
Il mondo è pieno di ingiustizie, di abusi di potere, di violenze di ogni genere. Se si potesse stilare una classifica dei mali commessi dagli esseri umani, schematizzata in una sorta di piramide rovesciata in stile Commedia dantesca, coloro che abusano dei più piccoli meriterebbero sicuramente uno dei livelli più bassi dell’inferno dei dannati.
Un confine incerto di Isabella Sandri, già presentato durante il 37° Torino Film Festival nella categoria After Hours, è un film che affronta in maniera stratificata e dettagliata il tema della pedofilia, poco trattato nel nostro paese e forse troppo poco trattato in generale. L’autrice italiana è da sempre impegnata in progetti audiovisivi che narrano delle più tragiche e difficili situazioni di bambini e adolescenti di tutto il mondo, e in questo ultimo film la rappresentazione di questa perversione malata passa per gli schermi saturi e corrotti del web. Tutto viene separato in visto e non visto, allontanando continuamente il vissuto e l’immaginato, dando vita ad un duplice racconto. La storia di Un confine incerto si divide infatti in due percorsi diversi: il primo, quello dell’allucinatoria e malsana avventura fiabesca di Magdalena (una giovanissima bimba di origine ladina) che viene rapita da Richi, un giovane pagliaccio vagabondo che per necessità di denaro si trasforma nel più viscido adescatore cominciando a vendere immagini pedopornografiche della piccola; e il percorso della cronaca, dell’osservazione immobile e impotente di Milia, giovane allieva della polizia postale che dagli schermi della sua postazione nel “Centro Nazionale per il Contrasto della Pedo-pornografia sulla rete Internet” osserva e investiga sulla fuga del criminale in giro per l’Europa a bordo di uno stravagante camper, seguendone gli spostamenti attraverso l’analisi delle immagini di una bambina scomparsa anni prima dal Nord Italia. I diversi personaggi si addentrano solitari in una selva oscura e paludosa, dove tra gli alberi di una foresta nera il rapitore si nasconde dagli occhi della società con la piccola “Lena”, facendole credere di vivere nel mondo delle favole. Le sinuose strade provinciali invece, scoperte e sorvegliate dalle forze dell’ordine, uniscono e collegano le diverse nazioni (Nord Italia, Germania e Romania), vasti territori incontrollabili in cui sopravvive il non luogo della rete, universo parallelo dove si rifugiano mostri travestiti da uomini che compiono ogni giorno atti di imperdonabile gravità nei confronti dei minori. Sulle onde di una colonna sonora delicata ma inquietante, suonata dai diversi strumenti della band sperimentale Epsilon Indi, attraversiamo insistentemente il confine incerto tra la purezza dell’infanzia che si nasconde in molti esseri umani e il malessere di cui la società si rende complice che alberga nel disagio e nel turbamento di altri.
PER LUCIO di Pietro Marcello (2021, 77’47’’)
Siamo da sempre stati abituati a vedere il passato come il cantiere da cui nascono le tessere imprescindibili del percorso della Storia, ma soffermandoci sui singoli eventi, talvolta, tutto potrebbe ridursi alle parole scritte dai poeti o dagli scrittori di canzoni. Lucio Dalla, “musicista, poeta, maestro di vita” (come inciso sul marmo bianco della tomba dove forse, finalmente, Dalla riposa) ha saputo, come pochi altri, raccontarsi raccontando i contemporanei e i suoi abitanti.
Attraverso il ricordo di Umberto Righi detto Tobia (storico manager del cantautore) il film ritraccia l’itinerario spazio temporale seguito dall’artista bolognese dagli inizi fino alla sua scomparsa nel 2012. La testimonianza sempre intima dell’amico-collega di Dalla ci accompagna in maniera molto familiare nei sentimenti e nelle difficoltà vissute dal cantautore durante la sua carriera. Continuando il lavoro sull’analogico, forse in un certo senso un po’ ridondante, Pietro Marcello mescola documenti d’archivio alle sonorità ricercate e a suo modo impegnate di alcuni dei brani più o meno celebri di Lucio Dalla. Tra una risposta e un’altra vediamo entrare ed uscire di continuo le immagini in primo piano di alcune interviste radio-televisive inedite del cantautore, dove il personaggio, “l’eroe banale e quotidiano” (come Dalla stesso si definisce) ci provoca continuamente e ci invita a reagire alla stasi ed alla noia.
Pietro Marcello con Per Lucio ci presenta un lato particolarmente privato dell’artista, ritrovando, attraverso le immagini di un passato che sembra sempre più lontano, la luce che lega la produzione creativa di un artista al suo tempo, lasciando intendere che in fin dei conti il nostro contemporaneo non rappresenta un futuro così diverso da quello raccontato nelle rime delle canzoni di Lucio Dalla.
MAGNIFICHE SORTI E PROGRESSIVE di Todomodo (2019, 50’27’’)
Dipinte in queste rive, son dell’l’umana gente, le magnifiche sorti e progressive. Nel mezzo del poemetto lirico La Ginestra scritto da Giacomo Leopardi si ritrova questa romantica e dura rappresentazione esistenzialista della condizione umana. Nel 1795, tre anni prima della nascita del poeta, al largo delle coste del Golfo di Gaeta venne costruito il carcere di Santo Stefano, soprannominato poi “ergastolo” in quanto ospitava generalmente detenuti condannati a vita. Guidati dal saggista e sociologo Renato Curcio, in Magnifiche Sorti e Progressive esploriamole celle, i corridoi e le torri d’osservazione della grande prigione, ormai abbandonata e in disuso da decenni, lasciandoci sperimentare immaginariamente l’esperienza vissuta dai prigionieri che vennero confinati sull’isola.
Navigare. Che cosa poteva significare navigare prima dell’avvento delle tecnologie digitali, e successivamente della rete. Il collettivo Todomodo, composto da Claudio Di Mambro, Luca Mandrile e Umberto Migliaccio, traghetta lo sguardo del cinema in questo spazio analogico del carcere (costruito seguendo il progetto del Panopticon, che permetteva ad un unico sorvegliante di controllare l’intera struttura) e lo mette in relazione allo sguardo dell’osservatore sul contemporaneo, rappresentato qui dall’unico “protagonista” Renato Curcio, che scontò circa 25 anni di reclusione dopo la condanna legata alla sua partecipazione all’organizzazione delle Brigate Rosse durante gli “anni di piombo”. Il film è un raro caso di saggio audiovisivo: l’intero percorso delle immagini viene accompagnato costantemente dalla voce (talvolta fuori campo) di Curcio che si lascia andare ad un discorso aperto, ad un racconto libero espresso in forma di flusso di coscienza nel quale si discutono le sorti dell’umanità contemporanea e delle difficoltà delle relazioni negli odierni sistemi chiusi dei continenti virtuali dell’online. Le prigioni e la rete (assimilata dal sociologo a un “dispositivo panottico digitale”) sono dispositivi di spersonalizzazione degli individui, dove i corpi si distaccano in modo invisibile dalla loro corporeità : “io vivo la mia vita offline…l’incontro, la parola e il lavoro in comune” sono le uniche armi che abbiamo (e che nessuno potrà mai toglierci) per evitare di ritrovarci tutti confinati in un isola-prigione che galleggia, raffigurazione immaginaria di un futuro distopico non così lontano. “RESTIAMO UMANI!”