FRANCE di Bruno Dumont
Il colore del cielo
di Daniele Dottorini
Un dittico è una strana composizione; il due, come già i pitagorici sapevano bene, è un numero aperto, imperfetto, come tutti i numeri pari. Non c’è mai una chiusura, un numero in più che chiude la dinamica infinita tra l’1 e il 2. È la sensazione che prende lo spettatore dopo aver visto i due film che Dumont ha realizzato sulla figura di Giovanna D’Arco (Jeannette e Jeanne). Qualcosa non torna: lo splendido percorso filmico di Dumont nei due film dedicati ad una delle figure simboliche più potenti della storia della Francia sembra costantemente alludere ad una immagine mancante, ad un fuori campo che attira a sé lo sguardo dello spettatore: un terzo mancante. Una delle caratteristiche del rapporto tra i due film sulla pulzella d’Orleans è la variazione dei registri: lo spazio aperto delle campagne di Domremy in Jeannette, dove la giovane pastorella riceve visite e visioni, in uno spazio visivo/sonoro straordinario che trasformano il film in un musical open air; la dimensione della parola e della geometria nel secondo Jeanne, dove il processo occupa la gran parte del film, e la parola domina, nella sua follia ordinatrice (le argomentazioni teologiche dei giudici) e nella sua follia ostinata (l’assoluta negazione di colpevolezza da parte di Giovanna).
Pur nelle loro differenze, i due film giacciono sotto uno spazio che li accomuna: il cielo azzurro, che spesso sovrasta lo spazio dell’inquadratura, ne determina, l’apertura, un “alto” che apre lo spazio della visione. È verso l’alto che Giovanna cerca una risposta, punta lo sguardo interrogante, impenetrabile; sguardo che Dumont inquadra in plongée, sottolineando una verticalità estrema nei due film, una domanda di spiritualità che assorbe tutto, che impregna di sé i corpi – a partire da quello di Giovanna.
Che ne è di questa domanda estrema, ostinata e disperata, che in fondo attraversa tutto il cinema del regista francese? È questo forse il fuori campo, l’immagine mancante eppure necessaria.
C’era bisogno di un salto temporale, di una vertiginosa mutazione delle forme. France si pone in questo senso non come il terzo capitolo di una supposta trilogia, ma come proseguimento, riarticolazione, negazione del pari, a partire dal cielo. Allora ecco il collegamento tra i film: France De Meurs è lo spettro, il fantasma di Giovanna D’Arco, la sua impossibile resurrezione nel XXI secolo. Nella Parigi contemporanea infatti, il sole, il cielo azzurro sono scomparsi, così come le invocazioni mute verso l’alto, che Dumont elimina quasi dallo spazio visivo. La famosa anchorwoman televisiva, che tutti amano e ammirano e al tempo stesso sono pronti a giudicare e condannare, vive in un mondo dove la luce è artificiale: un mondo di schermi televisivi, di computer, di cellulari. Il suo sguardo non è mai verso l’alto ma rimane ad altezza d’uomo, verso il mondo folle che la circonda e di cui lei è parte integrante. Il cielo è plumbeo in Francia, perennemente coperto da nubi, costantemente grigio. Fanno eccezione le scene girate in paesi lontani, dove il sole è cocente, ma il colore del cielo è lontano dall’essere azzurro. La fotografia di David Chambille alterna il giallo-rosso infuocato dei paesi arabi dove la troupe di France si reca per i propri reportage, al grigio azzurrognolo di una Parigi sempre invernale e fredda, che contrasta con i colori vivi e a volte accesissimi degli abiti di Léa Seydoux. Persino la località montana dove France si reca per prendersi una vacanza è un luogo dove il panorama è costituito da montagne innevate e coperte di nubi. Meraviglioso, certo, ma ancora una volta lo sguardo non interroga il cielo, non cerca una risposta, rimane muto, puntato verso di sé. Se il mondo non si apre allo sguardo interrogante, esso non può che essere interpretato, riletto, costruito, come nel sistema dei media.
Un mondo che deve essere costruito per esistere. costruito come narrazione, messa in scena. Nelle sequenze in cui seguiamo la giornalista nei suoi reportage, Dumont mostra la preparazione del servizio, le riprese, le scelte di angolatura della telecamera, la ripresa post-intervista delle domande di France, per montare poi il pezzo in un classico campo-controcampo. Il reale rimane fuori campo, così come le sue conseguenze, le sue implicazioni nella rete sociale, nella rete degli affetti. Ciò che conta è costruire la narrazione, mostrarla appunto come costruzione, messa in scena. Ma oltre questo null’altro entra nel campo del visibile. Tutto rimane nella leggibilità mediatica, ogni evento, piccolo o grande. Il film lavora infatti sulle ellissi narrative continue. Ogni accadimento che attraversa la vita della protagonista non riesce a cambiare il movimento incessante della sua esistenza e lo spettatore ne segue lo sviluppo attraverso i media social e no, che costantemente la seguono e la raccontano. La famosa giornalista è al tempo stesso autrice di narrazioni del mondo e soggetto di questa narrazione. Un corto circuito vertiginoso, da cui però non c’è veramente via d’uscita. France rimane infatti all’interno della sua valle chiusa, fa i conti con la sua vulnerabilità, con la sua fragilità, senza superarle in uno slancio dialettico ed esistenziale. Nulla le farà cambiare direzione. Rimarrà comunque all’interno del sistema, appoggiandosi alla propria fragilità, come nel finale, dove l’esplosione di violenza a cui assiste non la fa reagire se non attraverso un gesto che ne mostra la propria spaventata umanità.
Se Giovanna era sospesa tra umano e domanda di divino, France ha ormai abbandonato la seconda, senza perdere la propria umanità. Non ci sono infatti mostri nel cinema di Dumont, se mai vittime, o della propria disperata domanda di senso, come in Hadewijch, o dell’eccesso a cui questa domanda rischia di portare quando esplode dentro di sé, come in Twentynine Palms.
Giovanna e France hanno quindi un elemento in comune. Entrambe sono personaggi di un cinema senza più sacro, in cui però la domanda rimane, disperata in Giovanna e muta in France, consegnando entrambe al mondo, sia esso il mondo politico del processo della pulzella d’Orleans, sia esso il mondo mediatico che avvolge come una seconda pelle tutti i personaggi di France. Ciò che resta, in ogni caso, è uno sguardo, questa volta puntato direttamente sullo spettatore, ad altezza d’uomo, che ci spinge, con la sua dolce fermezza, ad una nuova domanda.