FORTINI/CANI. Il fiore rosso.
di Daniela Turco
Nel disegno di Franco Fortini dedicato a Jean-Marie Straub, attualmente conservato nell’archivio Fortini dell’università di Siena, la figura del cineasta, con il cappello in testa e i sandali, non potrebbe essere più essenziale e precisa. E’proprio questa essenzialità del disegno a rendere con pochi tratti di matita Jean-Marie Straub il destinatario inconfondibile di questo ritratto, che si crede essere, soprattutto, una restituzione di sguardo, un dono ricambiato da Fortini al cineasta che nel 1976 insieme a Danièle Huillet lo aveva filmato e implicato tanto intensamente in Fortini/Cani, di cui compare infatti il titolo, in calce al disegno.
Strano, affascinante dilemma che coinvolge certi scrittori che usano occasionalmente il disegno per avventurarsi in quella terra di nessuno posta tra immagine e parola, un tratto che avvicina Fortini a Kafka, non a caso un altro scrittore letto in profondità da Jean Marie Straub e Danièle Huillet; anche Kafka infatti ha lasciato una raccolta di strani, misteriosi disegni dietro di sé, che dopo un percorso accidentato, solo di recente sono stati finalmente pubblicati[1]. Disegni realizzati per lo più a matita, dai tratti sottili, essenziali, fatti di poche linee che, anche se diversamente composti, sono stranamente vicini alla sua stessa scrittura, nel segno impossibile e libero del “negativo” e del non figurativo.
Fortini/Cani a sua volta è un film-di-segno, per la traccia indelebile che lascia nello spettatore posto di fronte a un film scarnificato, ridotto all’osso, come le linee del disegno di Fortini, eppure abissale per l’idea che lo fonda, situato su uno scarto permanente tra immagine e parola e tra il tempo del testo, I cani del Sinai, scritto da Fortini nel 1967 all’epoca della guerra dei sei giorni tra Israele ed Egitto, e il tempo in cui il film era stato girato, nel 1976, dieci anni dopo il libro.
La filmografia di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet nella sua interezza è composta di film, tutti,necessari e urgenti, ma, a doverne scegliere uno, Fortini/Cani è quello che ho sempre sentito più vicino, indissociabile come è dalla figura di Franco Fortini, del suo modo unico e speciale di essere comunista, la vera ragione – credo – per cui era stato scelto da Straub Huillet per il film, in cui infatti portava una serie di dissociazioni e di dissonanze, personali e politiche, senza possibilità di riconciliazione.
Nel film, attraverso il testo di Fortini I Cani del Sinai, scritto nel 1967, dieci anni prima, “ con ira, a muscoli tesi, con rabbia estrema”, a ridosso della guerra dei sei giorni tra Israele ed Egitto, entrano questioni irrisolvibili come l’essere ebrei in diaspora in rapporto con lo stato di Israele e come il conflitto in Medio Oriente che allora Fortini leggeva con lucidità nel senso che “la chiave della situazione avvenire, risiedeva nella capacità di organizzazione politica anticapitalista e antimperialista tanto in Israele quanto nei paesi arabi”[2], una posizione personale che gli avrebbe procurato aspre critiche all’interno del suo stesso ambito di relazioni parentali. In un momento del film, illuminato dalla presenza di Luciana Nissim, si sente da una breve osservazione di lei una diversa visione di Israele che allontana la psicoanalista dal poeta, nonostante la vicinanza profonda e il rispetto delle posizioni dell’altro…
Per questo, Fortini/Cani è anche un film radicalmente straniero a se stesso come lo era del resto Franco Fortini, qualcuno che aveva scritto “ Fra quelli dei nemici, scrivi anche il tuo nome”[3] (la forza e la bellezza di Fortini/Cani sembra soprattutto risiedere nella distanza, nella differenza, nella non coincidenza), protagonista di un film difficile e stratificato per il concentrarsi di una pluralità di tempi, storici e personali, formati di memorie collettive e individuali, tragiche e a rischio di dispersione, e per questo scisso, lacerato internamente, tanto da trasformare la visione in un esercizio di educazione all’ascolto che si trasforma in una lezione di storia, inseparabile da un’esperienza di vita drammatica come quella di Fortini, un uomo che per tutta la vita continuerà a interrogare senza indulgenza se stesso e il mondo.
Nella filmografia di Straub e Huillet, in dialogo permanente con i testi letterari, e in particolare con la letteratura italiana del secondo dopoguerra nel confronto serrato, ad esempio, con Vittorini e con Pavese, Fortini/Cani appare tuttavia come qualcosa di completamente diverso e a sé stante, proprio in quanto mediato dal corpo-voce-parola di Franco Fortini, autore del testo, I cani del Sinai, di cui è nel film anche lettore/attore.
Attraverso la figura di Franco Fortini, figlio di un padre ebreo, perseguitato dalle leggi razziali, e a sua volta costretto dalla guerra a scelte drammatiche, Straub/Huillet hanno potuto far entrare nel film strati storici che appartengono a epoche diverse, come gli inserti dei telegiornali sul conflitto israeliano nel 1967 o come l’impressionante sequenza delle Alpi Apuane, teatro di innumerevoli stragi nazi-fasciste, dove tutto il peso di una memoria dolorosa, di guerra e di sangue, viene trascinata dalla lenta, doppia panoramica (nella stupenda scansione di Renato Berta), che misura silenziosamente il paesaggio palmo a palmo, il silenzio interrotto soltanto da un tenue abbaiare di cani in lontananza o dai rumori della campagna. Sono immagini al presente, che si aprono a un oltre, l’abisso del cinema secondo Straub/Huillet, il luogo visibile/invisibile dove si affollano e ritornano i fantasmi della storia. E’ in questo senso che Serge Daney ha potuto parlare del piano straubiano come di un “piano come tomba” dove “il contenuto del piano è allora, stricto sensu, ciò che vi si nasconde, i cadaveri sotto terra”[4], definendo in ragione di questo la politica e la morale di Straub e Huillet come una politica (e una morale) della percezione.
Questo straordinario spessore “archeologico” e percettivo, molto raro da sperimentare al cinema, proviene da lontano, ed è uno dei segni del metodo Straub/Huillet, che mette al centro l’attenzione, l’incontro tra i linguaggi, i rapporti, tra cui, quello fondamentale con la pittura di Cezanne, a lungo osservata e meditata dai due cineasti, che proprio partendo dai suoi quadri hanno potuto riflettere e comprendere come arrivare a condensare lo spazio per farne del tempo. Anche nel lavoro di un cineasta come Amos Gitai, molto legato all’opera di Straub/Huillet, si ritrova questa stessa linea genealogica, che forma l’architettura stessa che sostiene i suoi film, a loro volta segnati dagli incontri necessari con la Storia, con lo spazio e con il tempo (evidente soprattutto nella sua trilogia di House, A House in Jerusalem, News From House, News From Home, e in quella dedicata al Wadi Rushmia, filmato da Gitai ogni dieci anni, dal 1980 in poi fino a Wadi Grand Canyon del 200, che la conclude.)
A distanza di quasi cinquant’anni dalla sua realizzazione, Fortini/Cani si apre ancora di fronte allo spettatore come un testo che chiede di essere letto, interpretato e ricostruito, lavorando sui diversi blocchi che lo compongono. Ma quale è il filo che lega le panoramiche dense sulle Apuane, con il percorso della Torah filmato dall’alto e accompagnato dai canti nella sinagoga, o con le diverse sequenze girate nelle strade di Firenze vicine a S. Maria del Fiore, e poi nel traffico del Lungarno, per arrivare all’ultima parte del film, con Fortini seduto nel patio della casa di fronte al mare? Quel filo tenace è dato dai percorsi intermittenti della voce di Fortini che legge, che a tratti si impunta o che tace, per poi riprendere, dopo il prolungato silenzio che accompagna alcune sequenze, nella lettura del testo.
E’ la sua voce che batte il tempo al cuore del film, e in questo senso Fortini/Cani anticipa e prepara la grande stagione di una meravigliosa riconquista della bellezza della lingua italiana operata nei loro film da Straub/Huillet, che lavorando analiticamente sui testi di Vittorini, Pavese, Dante, hanno saputo entrare fin dentro gli strati più profondi per far poi risuonare nel loro cinema, come forse nessun cineasta italiano, ad eccezione di Carmelo Bene, si era mai sognato di fare, “ una lingua nuova, divina universale / una lingua serena, dolce, ospitale/ la nostra lingua italiana“[5], come si legge in un punto delle Histoire(s) du cinéma di Jean Luc Godard, restituendola al suo assoluto splendore.
Tornando a Franco Fortini e alla nota che aveva scritto sul suo testo e sul film, in cui asseriva che “ Né io che ho scritto e qui scrivo sono quel signore che nei fotogrammi di Straub-Huillet cova in se stesso una esistenza sconfitta e legge, quasi incredulo, quel che un altro se stesso ha scritto, con una enfasi riverberata dai silenzi e dai fragori del presente circostante” si scopre in Fortini/ Cani una stretta vicinanza con Ici et ailleurs, un altro film occupato – letteralmente – dalla situazione di crisi in Medio Oriente, ma dal punto di vista della lotta della Palestina, girato un anno prima, nel 1975, da Jean Luc Godard e Anne-Marie Miéville.
Fortini/Cani e Ici et ailleurs condividono in primo luogo il fatto di essere entrambi abitati da fantasmi di guerra, oltre a una presenza plastica e per entrambi determinante degli scarti temporali, da cui sono scavati internamente e che ne definiscono così radicalmente il senso. Visti in questa chiave sia Fortini/Cani sia Ici et ailleurs sono diventati, anzi, sono stati da sempre due film-laboratorio, dove quelle stesse immagini che in entrambi restituiscono uno spessore così materiale e materialistico a un passato di morte invisibilmente presente, riescono nello stesso tempo a portare internamente il seme nascosto di qualcosa a venire, lo si chiami speranza o futuro.
E’ pensando al futuro, credo, che quel poeta lucido e pessimista che è stato Franco Fortini, nella nota che accompagnava la ristampa di I Cani del Sinai, sottolineava la presenza di un piccolo oleandro che all’inizio delle riprese non era ancora fiorito, ma che Straub aveva continuato ad annaffiare. Ed è anche per questa attenzione speciale che Straub e Huillet hanno saputo rivolgere alla terra e alle piante, che nell’ultima panoramica dolce di questo film così teso, affollato dai morti e dai fantasmi, ostile ad ogni forma di consolazione, può tuttavia entrare, come provenendo direttamente da una poesia di Brecht, anche un piccolo oleandro con dei fiori rossi, appena sbocciati.
[1] Cfr. I disegni di Kafka (a cura di A. Kilcher), Adelphi, Milano 2022
[2] Nota di F. Fortini, pubblicata in F. Fortini, “I cani del Sinai”, Quodlibet, Macerata, 2002
[3] Cfr Traducendo Brecht, nella raccolta Una volta per sempre.
[4] Cf. S. Daney, La rampe, ed. Cahiers du Cinéma, 1996, p.p. 147-148
[5] Cfr J.L. Godard, Histoire(s) du cinema, La monnaie de l’absolu, Une vague nouvelle, Gallimard, Parigi 1998, pp89-1\00