Forme del tempo nel cinema di James Benning
di Edoardo Nardi
Sebastian Schadhauser era mio amico. A lungo, negli ultimi tempi, abbiamo riflettuto sull’essenza del cinema come arte e artificio, sulle differenze assolute tra pellicola e immagine digitale. In questa mia riflessione, vorrei estendere alcune considerazioni emerse dalle nostre conversazioni spostando, tuttavia, il problema da un’analisi puntuale, ontologica del supporto in questione, alla considerazione che ritengo fondamentale nella comprensione di ogni pratica di produzione artistica: l’attitudine al racconto, la forza di mostrare le cose, anziché semplicemente dimostrarne l’oggettiva esistenza che appartiene nel nostro caso alla produzione di immagini digitali. Sebastian, è cosa nota anche dai contenuti degli interventi pubblicati in Filmcritica, riteneva pellicola e digitale due pratiche filmiche dotate di differenze insormontabili. Laddove la pellicola implicava la concretezza della messa in scena, la fisicità del lavoro artigianale del regista e, dunque, possedeva il dono della memoria delle cose, il digitale, al contrario proponeva un’immagine manipolabile, fittizia e dunque priva di ogni ricordo. Tuttavia, pur nella comprensione del suo punto di vista rigoroso e definitivo, anche figlio delle sue collaborazioni con Huillet/Straub e della propria attività registica culminata nel suo Anno Schmidt (1974), sussisteva una domanda alla quale nessuno di noi due riusciva davvero a dare una risposta certa: l’immagine digitale possiede quell’attitudine al racconto della quale parlavo in precedenza, e che rappresenta la condizione essenziale di una pratica narrativa? Vedendo le produzioni televisive in streaming o nella tv digitale, viene da pensare che l’uso del digitale sia perlopiù legato all’attività di dimostrare tesi predefinite, attraverso una scrittura serrata ed efficace e pratiche di messa in scena semplici e coinvolgenti. Lo spettatore medio sembra oramai attratto prevalentemente da visioni nette e definite che gli consentano di vivere le ore delle immagini prodotto nell’illusione di fruire di una esperienza culturale. In realtà sembra che ciò di cui è sprovvista tanta produzione televisiva e cinematografica in digitale, pare essere proprio l’elemento portante del cinema in pellicola, ovvero la presenza di quei margini del racconto, di quelle zone d’ombra nelle quali rintracciare il pensiero dell’autore. Queste lacerazioni del racconto cinematografico, la capacità di abbandonarsi a una visione che diventava destino critico dello spettatore, ma anche l’abbandonarsi al sogno che ogni immagine, anche nel cinema delle origini, reca con sé, rappresentavano per Sebastian gli elementi costitutivi dell’inquadratura. Sebastian amava spesso ricordare come nella lingua tedesca Einstellung significhi tanto inquadratura quanto posizione morale. Dunque tanto vicino a Huillet/Straub nel pensare i film come opere d’arte del tempo, costituite da porzioni di spazio, egli individuava nei richiami nascosti, sotterranei, delle inquadrature una storia del cinema diversa, alternativa a quella ufficiale, costituita da una rete di rimandi profondi ed insistenti tra opere ed autori. Spesso mi citava il sottotitolo italiano del capolavoro di Bresson, Mouchette (1966/67) ovvero Tutta la vita in una notte, legandolo alla medesima frase presente in Warlock (1959) di Dmytryk. Sebastian sosteneva che in fondo Anthony Quinn si suicidasse come Mouchette, contro il destino. Certo, la sua visione del cinema era assai vicina a quella di un altro bavarese poeta e filosofo delle immagini, quel Werner Herzog che Sebastian stimava moltissimo e che condivideva con lui la concezione del film come esercizio fisico, oltre che come fatica intellettuale. Tuttavia, sappiamo come oggi il concetto chiave di inquadratura non costituisca più l’unità di misura delle immagini in digitale come lo era stato del film in pellicola, in quanto l’immagine digitale non ha centro né margine e non necessita del punto di vista privilegiato. In questo tentativo di pensare un futuro per il cinema, un uomo che aveva vissuto a Roma nell’ultima grande stagione intellettuale italiana, che conosceva e frequentava quotidianamente Moravia, Pasolini, Dacia Maraini, Sandro Penna o Edoardo Bruno, con il quale aveva un rapporto di stima profonda, anche se talvolta caratterizzata da accese dispute dialettiche, sin da quando entrò a far parte di Filmcritica nel 1968, era profondamente diverso da un uomo del terzo millennio quale potevo essere io, che pure ne ammiravo il rigore assoluto che scaturiva dalle sue rapidissime intuizioni. Ho continuato, tuttavia, nella gran parte delle nostre ultime conversazioni, a tentare di riflettere sulla realtà del digitale insieme a lui, consapevole che non dobbiamo rifiutare la realtà nella quale siamo immersi, ma tentare sempre di comprenderla. Debbo dire che anche in questo Sebastian mi ha aiutato confrontandosi continuamente con le mie domande. Difatti, anche se ci troviamo di fronte ad una rivoluzione estetica evidente e decisiva, trovo che il digitale possa veicolare ancora il pensiero della messa in scena, in una forma nuova che non prevede tanto l’artificio della scena da costruire, pur presente, quanto la formulazione rinnovata degli elementi costitutivi dell’inquadratura. In tal senso mi è venuta in soccorso l’opera del grande cineasta americano James Benning. Cineasta ottantenne, autore di decine di film documento, cresciuto nella temperie del cinema strutturale e del New Narrative Movement, dunque nel clima avanguardista statunitense degli anni Settanta, Benning sviluppa individualmente un percorso narrativo singolare e straordinario. Presente nei maggiori festival cinematografici europei ed in particolare a Vienna e Berlino, quest’anno si è potuta apprezzare la sua ultima fatica Allensworth, culmine di un’opera accostabile per l’intransigente rigore della messa in scena del reale, alla assai diversa produzione di un Wiseman. Soprattutto mi interessa la produzione successiva al 2000, quando Benning decide di incentrare la sua opera su di una nuova idea di paesaggio che egli, da matematico di formazione, decide di riprendere con una cinepresa in 16 millimetri attraverso inquadrature fisse dalla durata costante e dal numero variabile. Le opere di Benning sono difficilmente classificabili. Tuttavia le sue inquadrature fisse, insistenti, si differenziano dalla fotografia poiché vertono principalmente sulla durata ed in questo senso ci riconducono al concetto di inquadratura come posizione morale tanto caro a Sebastian con il quale, purtroppo, non sono riuscito a condividere la visione del regista americano magari ponendolo in relazione con i paesaggi di Huillet/Straub. È il tempo a costituire l’ossessione di Benning ed a suscitare gli spettri della memoria che i luoghi a lui cari evocano e dei quali resta in silenzioso ascolto. La sua opera ha due poli dialettici, la luce, che egli studia minuziosamente, ed il suono, che tenta di catturare anche nelle sue manifestazioni impercettibili. Con Benning si assiste ad una concezione nuova di paesaggio, nella quale il visuale appare secondario nei confronti della durata rappresentativa. Di conseguenza la sintesi di luce, suono e tempo dell’inquadratura trasformano letteralmente il paesaggio medesimo, lo rendono astorico, assoluto, ma allo stesso tempo ci consentono di vivere quei luoghi e di riconoscere attraverso di essi la natura selvaggia degli Stati Uniti. In tale apparente paradosso risiede l’arte di Benning, che non cerca la verità dei volti e degli spazi pubblici di un Wiseman, ma si concentra sulle possibilità espressive delle immagini fisse, delle inquadrature intime, nella logica però della sfida al tempo, della resistenza alla velocità del mondo contemporaneo. Nonostante questo, non esiste compiacimento in tali opere, né freddezza. Certo è possibile che uno spettatore dopo alcuni minuti di Nightfall, possa abbandonare la sala cinematografica, dove è necessario proiettare le opere di Benning per una maggiore immersione nella durata della propria visione, ma tali immagini costituiscono la miglior prova dell’attitudine che lo stesso digitale possiede nei confronti della narrazione del reale. Esse provocano il senso della Storia americana, dei luoghi del quotidiano, del lavoro, degli oggetti. Un parallelismo è possibile tra l’oggettività delle opere di Benning e quella proposta dalle fotografie di un William Eggleston, o anche dall’ipertrofia descrittiva di un Philip Roth o di un Thomas Pynchon e dalla ossessiva ripetizione presente nelle partiture musicali di Reich o Glass. Sembra che la maggiore espressione dell’arte statunitense degli ultimi sessanta anni, consista nel tentativo estremo di dare colore alle forme del reale e di possedere quasi fisicamente gli oggetti attraverso la loro descrizione, cosa che sembra raggiunta dal digitale. Tuttavia nella descrizione insistita delle cose, tale arte ne svela la più intima essenza, ed è forse questa dell’astrazione assoluta, probabilmente, una delle cifre peculiari dell’immagine digitale.