Foglie al vento di Aki Kaurismäki
Anacronie di destini in-crociati.
di Tiziana M. Di Blasio
In una temporalità plurale, evidenziata anche dalla mirabile sintesi narrativa (81 minuti), ri-compresa tra la visione di un film contemporaneo, The Dead Don’t Die di Jim Jarmusch e la re-interprezione di un classico degli anni Trenta, Modern Times di Chaplin, il film di Kaurismäki in originale Kuolleet lehdet (Foglie morte) narra, nella periferia notturna di una Helsinki odierna, una storia di solitudini tra personaggi marginali e a-temporali, sopraffatti dalla società, ma non sottomessi, foglie al vento in balia di contatti complicati, numeri di telefono smarriti, incontri casuali e mancati, incidenti sul lavoro e nella vita, in paesaggi apparentemente senza tempo. È la storia di Ansa (Alma Pöysti), commessa di supermercato licenziata e Holappa (Jussi Vatanen), operaio metalmeccanico alcolizzato, anch’egli licenziato. Dopo aver perso il proprio lavoro non si danno per vinti, ma in una società che non permette loro di scegliere, si riciclano con ostinazione in nuovi mestieri anche se sempre più subalterni e sottopagati.
Nel presentare il film, Premio della Giuria a Cannes, come quarto capitolo di una trilogia dedicata alla classe operaia da Ombre del paradiso (1986) ad Ariel (1988) a La fiammiferaia (1990), Kaurismäki dichiara: «ho finalmente deciso, tormentato da tutte le guerre insensate, inutili e criminali, di scrivere una storia sui temi attraverso i quali l’umanità potrebbe avere un futuro: l’anelito all’amore, alla solidarietà, alla speranza, al rispetto per gli altri, la natura e tutto ciò che è vivo o morto».
La guerra in Ucraina, evocata da Kaurismäki nella cronaca dei radiogiornali, è una guerra senza volto, guerra di una Macrostoria che irrompe nella microstoria, «storia dal volto umano», come proposto da Iggers, in grado di soffermarsi sul destino dei singoli individui e di narrare le vicende nel tessuto co-esistenziale della loro vita quotidiana. I volti di Ansa e Holappa di cui si conosce solo il cognome, sono l’espressione di un proletariato urbano che vive una precarietà assoluta: lei isolata in un appartamento minimale, emblematizzato da una tecnologia domestica retrodatata, priva di TV, PC, Smartphone e dove la presenza di un solo piatto rivela l’impossibilità assoluta di condividere un pasto, mentre lui alloggia addirittura, in compagnia dell’alcol e del fumo, in un container condiviso con i colleghi del cantiere in cui lavora.
Pur nelle loro traversie occupazionali, con salari minimi («Non sei pagata per pensare» l’apostrofa il datore di lavoro di Ansa poi arrestato per spaccio) e contratti a zero ore, nell’assenza di tutele sindacali e di sicurezza sul lavoro, i personaggi, nonostante il profondo disagio, sanno esprimere eleganza anche nell’umiliazione, dignità e resistenza proprio in quella rete di solidarietà tra ultimi che porta le colleghe di Ansa ad autolicenziarsi in segno di protesta, l’infermiera dell’Ospedale a donare gli abiti dell’ex marito a Holappa, Ansa a dare il cibo scaduto a un indigente e ad accogliere un cane salvandolo dal rischio di soppressione. Per inciso il cane, di nome Chaplin, adottato da randagio, in realtà appartiene allo stesso Kaurismäki in perfetta intesa cinefilo-cinofila.
L’amore tra i due è ostacolato dalla difficoltà a comunicare, esemplificata dalla perdita del contatto nell’intensa sequenza del bigliettino con il numero di telefono che vola via all’improvviso e impedisce loro di ritrovarsi, ma anche dal vissuto di lei per la morte sia del padre che del fratello a causa dell’alcol e della madre per il dolore.
Gli eventi si susseguono tra opprimenti paesaggi urbani, atmosfere notturne e architetture d’interni con evidenti rimandi pittorici e referenze vintage, spoglie fino all’essenziale, ma mai trasandate, anzi raffinate in un’inattesa saturazione cromatica tale da prefigurare l’evoluzione di sentimenti che, pur se ostacolati da incomprensioni e disguidi, tendono ad una soluzione d’amore pervasa di tenerezza e dignità. Scena clou dell’ingresso di Holappa nell’intimità di Ansa è l’acquisto pratico/metaforico delle stoviglie per la cena “a due”.
I soli momenti di socialità e di distrazione sono quelli dedicati alla musica e al cinema, entrambi elementi fondativi dello sguardo poliespressivo dell’autore e della stessa struttura iconica del film.
La chiave ermeneutica risiede nell’anacronia di destini in-crociati tra il tempo presente della vicenda reale, esplicitato dalla visione di un film recente, da un calendario con la data 2024 e dalle ininterrotte interferenze di radio d’epoca a comunicare ai diversi personaggi la “dannata guerra” e il tempo passato, nel paradosso di una scrittura meta-linguistica che non vuole essere mera ripetizione, ma processo ri-fondativo e ri-flessivo delle pratiche di senso.
Analoga struttura binaria riguarda il dispositivo diegetico dei destini in-crociati che sembrano adombrare le vicende e i personaggi di Demy, i quali si incontrano e poi si perdono, si rincontrano e si riperdono quasi sempre per caso, anche se in Kaurismäki tali incroci da oggetto tematico si trans-fondono, in fattispecie linguistica, nelle specifiche connessioni della poliespressività, nell’accezione genettiana di trans-testualità, come compresenza di più testi, l’uno dentro l’altro, in questo caso letterari, figurativi, architettonici, musicali e filmici. L’intenzionalità citazionale di Kaurismäki trascende, in tal modo, il senso primo di opera chiusa, per proporre indizi semantici generatori di sensi plurimi, come nel caso della citazione del romanzo di guerra di Marko Tapio Arktinen hysteria II: Sano todella rakastatko minua (Arctic Hysteria II. Dimmi che mi ami davvero). «Ogni testo – ricorda Kristeva – si costruisce come mosaico di citazioni, ogni testo è assorbimento e trasformazione di un altro testo» e Foglie al vento non fa che confermare tale assunto anche nel processo creativo che investe l’interpretazione stilisticamente trattenuta in un pudore emotivo fino all’inespressività, fra sospensioni diegetiche ed ellissi, dramma e commedia, silenzi e citazioni, secondo la concezione bressoniana: «Il ne s’agit pas de jouer “simple”, ou de jouer “interieur”, mais de ne pas jouer du tout».
In un mix di solitudine collettiva, depressione individuale e di ironico distacco, tra dialoghi atoni e battute surreali, i protagonisti trascorrono le serate al Karaoke bar con la colonna sonora che fa da contrappunto alle vicende del film a partire dal titolo che richiama Les feuilles mortes di Kosma/Prévert, originariamente eseguita da Yves Montand in Les Portes de la nuit di Carné e qui riproposta nella sequenza finale nella versione di Olavi Virta. Ed è proprio nei testi dei brani musicali pop, rock e tango che Kaurismäki concentra quell’emotività elusa nei comportamenti: Syntynyt suruun ja puettu pettymyksin (Nata nel dolore, vestita di disillusione), cantata live dal duo contemporaneo Maustetytöt, Mambo italiano, in versione finlandese, Arrabal Amargo di Carlos Gardel e nella musica colta: Sinfonia n. 6 Patetica di Čajkovskij e ancor più Serenade di Schubert a far da controcanto al primo incrocio di sguardi.
Al cinema Kaurismäki dedica naturalmente un florilegio di citazioni, riferimenti e rimandi, iniziando proprio con il primo appuntamento che non può non avvenire in una sala cinematografica per vedere il film horror parodistico The Dead Don’t Die di Jim Jarmusch, che fa dire ad Ansa: «Non ridevo così da molto tempo…» ed il cui titolo non allude soltanto agli zombie, ma al film in quanto tale, pellicola inerte che torna alla vita nella magia della proiezione. Due spettatori, en sortant du cinéma, direbbe Barthes, accostano il film al Bresson di Journal d’un curé de campagne e al Godard di Bande à part, nella sua doppia istanza drammatica e comica, così come passa sempre attraverso il locus determinato del cinema, in cui i protagonisti tornano per ricercarsi e ritrovarsi, quell’«ultima occasione per trovare il primo, unico e definitivo amore della loro vita».
È a Bresson, a Ozu e a Chaplin che l’autore riconosce di aver dedicato con questo film «un piccolo plauso». Sicuramente per le rispettive connotazioni di sottrazione, staticità e umanesimo.
Disseminazioni di segni iconici, quali manifesti e locandine, accentuano l’importanza dello spazio cinema dalla citazione d’autore Fat City di Huston; Pierrot le fou e Le Mépris di Godard; Rocco e i suoi fratelli di Visconti; L’Argent di Bresson; di genere, dal thriller Le cercle rouge di Melville; al mélo Brief Encounter di Lean; al fantastico Lost Continent di Newfield; al noir The Killers di Siodmak; all’horror The Face of Fu Manchu di Sharp.
Una referenza inter-testuale privilegiata, infine, è quella che Kaurismäki instaura con la coppia Prévert/Carné, autori di opere come Le Quai des brumes e Le jour se lève, capolavori del realismo poetico, un realismo trasfigurato tematicamente nell’attenzione al popolo minuto e stilisticamente nelle ambientazioni di periferie urbane fantasmatiche, solitarie e desolate in una costante dialettica luce/ombra. Elementi questi certamente ri-considerati e ri-visitati nella peculiarità kaurismakiana di osservare la Realtà filtrata costantemente dallo sguardo del cinema, uscendo in tal modo dalla dinamica chiusa della cronologia per aprirsi, secondo l’accezione di Didi-Hubermann, a temporalità differenti e sfasate come principio epistemico.
È il tempo sospeso del realismo poetico che ritorna nella visione contemporanea di Kaurismäki che inter-medialmente guarda alla pittura realista di Hopper e al suo spazio anch’esso sospeso, tra un dentro e un fuori, tra ciò che è e il suo possibile accadimento che però resta inespresso, mentre nel cineasta esso genera un’esplorazione, un’opportunità destinata a compiersi.
Proprio quando Holappa decide di rinunciare all’alcol per amore e riprende il contatto interrotto con Ansa («Sobrio come un topo del deserto – le dice al telefono – Ho lo sconto fedeltà agli alcolisti anonimi»), viene incidentalmente travolto da un tram. Questo infortunio fuori campo – filmicamente riconducibile a Sirk e McCarey – ingenera in lei, ignara dell’accaduto, l’ennesima delusione. Sarà di nuovo il caso a intessere il filo della loro relazione.
Nella sequenza conclusiva Ansa, Holappa e il cane Chaplin si incamminano, all’orizzonte, verso la speranza di un possibile futuro insieme, destini che, come in una dissolvenza in-crociata, intersecano quelli di Goddard/Chaplin in Modern Times, opera-manifesto dello sfruttamento della classe operaia e storia anch’essa di un incontro tra creature ai margini, nonché al grado più alto di anacronia espressiva in quanto film muto all’epoca del sonoro e qui richiamata come sintesi figurata di un passato iconografico tale da rappresentare, sino in fondo, unitamente al motivo musicale Les feuilles mortes, il tempo diegetico della contemporaneità.