Filmare lo strazio
di Sergio Arecco
Nota.
Edoardo Bruno iniziò a scrivere a vent’anni. E chi lo incoraggiò, scorgendo in lui una precocità intellettuale non comune e una libertà di pensiero fuori dagli schemi, fu il suo professore di Filosofia al Liceo “Massimiliano Massimo” di Roma, Ernesto De Martino. Il magistero della visione antropologica demartiniana permeò tutti i primi scritti cinematografici di Edoardo. E oso pensare che questo mio piccolo contributo, apparentemente stravagante in considerazione della nuova specificità di filmcriticarivista, alla “leggenda” (e legenda) di De Martino non gli sarebbe dispiaciuto. Poco dopo, l’incontro con il maggiore critico cinematografico di allora, Umberto Barbaro, arricchì i saggi di Edoardo di quello stile incisivo, puntuale, intessuto di conoscenza non dottrinale della storia anche più antica del cinema (Stroheim, per esempio) che rimase poi la sua cifra inimitabile, inconfondibile, fatta di acutezza testuale, di culto sensibilissimo dell’immagine e insieme di sapiente declinazione letteraria (Edoardo fu anche autore – La sua giornata di gloria deriva da un suo racconto giovanile – e, per lunghi anni, sua propria voce, critico teatrale per il Terzo Programma Rai, poi Radio 3). Dopodiché la familiarità, anche personale, con un grande filosofo, Galvano Della Volpe, l’autore di Critica del gusto, lo indirizzò definitivamente verso una nozione la più ampia possibile dell’analisi estetica di un’arte – il cinema – alla cui lettura non potevano non concorrere tutti i possibili strumenti dell’ermeneutica, dalla filosofia alle scienze umane (ancora l’antropologia) alla, kantianamente, critica del giudizio (“Ciò che conta esteticamente è per dir così la renovatio delle idee-immagini verbali e letterarie in idee-immagini filmiche”, 1960, p. 152). Quanto segue è il frutto della rifusione di due saggi da me pubblicati l’anno scorso nel libro Docu doc. La non fiction delle meravìglie (ed. Petite plaisance, Pistoia – si ringrazia l’editore per la gentile concessione), e intende costituire un piccolo omaggio a un’intelligenza tra le più fertili del nostro tempo
s. a.
La crisi del cordoglio è una malattia ed il cordoglio
è il lavoro speso per tentare la guarigione. Più
precisamente. La crisi del cordoglio è un caso particolare
del rischio della perdita della presenza, di non poter
trascendere il momento critico della situazione luttuosa.
Ernesto De Martino, Morte e pianto rituale
Ai suoi inizi, tra i Cinquanta e i Sessanta, Luigi Di Gianni (1926-2019) – documentarista etnografico formatosi sulla scia di Visconti, poi autore di fiction, ma con un solo lungometraggio all’attivo – riesce, con uno dei primissimi corti, Magia lucana (b/n, 16 mm. 1958, 18’) a farci dubitare della pertinenza del titolo di Ernesto de Martino La terra del rimorso (1961).
Suggestionato dalla lettura di Il mondo magico (1948), Di Gianni, di padre lucano (Pescopagano), contatta De Martino in partenza per una delle sue spedizioni in Lucania (le prime, dal 1952 al 1955, si giovano di un’eccezionale documentazione fotografica, a cura di Franco Pinna), la mitologica terra “dove l’erba trema” di Rocco Scotellaro (1949, Io sono un filo d’erba / un filo d’erba che trema / e la mia patria è dove l’erba trema). E, affiancato dall’antropologo Romano Scalisi, gli propone la scaletta per un film su quel paesaggio, “così unico, abissale”. De Martino accetta di fargli da consulente, coinvolge nell’iniziativa, come in altre occasioni, il musicologo Diego Carpitella, con il quale sta appunto preparando La terra del rimorso (il quale uscirà non a caso con accluso un disco di canti salentini, e ‘commentato’ dalle foto di Pinna), e concede a Di Gianni giusto l’opportunità, tramite Magia lucana, di smentirlo in merito al suo assunto sulla magia come prodotto culturale.
Solamente con l’incipit – un rituale di contadini, giunti dopo un viaggio iniziatico tra i costoni di un paesaggio ancestrale, al cerchio magico ove un contadino sciamano armato di falcetto, officia una liturgia esorcistica innalzando al cielo una salmodia propiziatoria –, Di Gianni rende omaggio alle teorie demartiniane sul soprannaturale. Dopodiché, sul filo di un documentarismo rigoroso e insieme poetico nei tempi e nei modi – piani sequenza lunghissimi sui fianchi desolati di una Lucania non solo rupestre ma extraterrestre, alternati ai primi piani degli ‘ultimi’, donne vecchi bambini, confinati in paesi di pietra e di segregazione –, inscena la propria correzione lirica a De Martino: non La terra del rimorso, bensì La terra del rimosso.
L’antropologo non parla forse di ri-morso (si tratta del morso della tarantola, con tutto lo scenario coreutico-musicale che ne consegue) come “ritorno del cattivo passato, del passato che non fu scelto”? E Di Gianni sviluppa da par suo questo spunto relativo a un passato remoto che pesa come pietra, oltre che come clausura secolare, su chi ne è prigioniero atavico, e in eterno – il cineasta ha sempre avuto un debole per Kafka, per la sua idea di condanna a prescindere: cfr., per la tv, Il processo, Nella colonia penale e il complessivo Appunti per un film su Kafka. Come lo svilupperà da par suo, da lì a pochi anni, Gianfranco Mingozzi, affiancato dalla medesima coppia di studiosi, De Martino/Carpitella, in La Taranta (1962). E, come lo si vedrà sviluppato dagli scatti e dai filmati coevi, posteriori a quelli di Pinna, di Domenico Notarangelo, antologizzati mezzo secolo dopo da David Grieco in Notarangelo, ladro di anime (2019, anno in cui compare pure lo studio del collettivo Flee Tarantismo: odissea di un rituale, con la ripresa in doppio vinile delle registrazioni di Carpitella, e foto di Chiara Samugheo).
Sui muretti a secco dell’innominato, poiché tale deve essere, paese fuori dal tempo e dalla storia prescelto da Di Gianni come paradigma mitografico, siedono, oltre ai vecchi, giovani sfaccendati senza lavoro – senza neppure quel lavoro di dissodatori di un suolo aspro e ostile che altri, acquiescenti al proprio destino, accolgono come un portato non tanto culturale quanto ontologico, inerente a un culto, magico, delle pietre e del sole a picco, delle nuvole e del cielo. La fidanzata, a casa, accende due candele e le ripone sulla credenza (credenza!) in segno di buon auspicio, di preghiera apotropaica a favore del ritorno del fidanzato lontano. La puerpera, in ossequio alla leggenda delle sette fate deputate a visitare il neonato e a toccarlo in fronte sotto un raggio di luna, prepara il figlio all’appuntamento rituale come fosse un’offerta da consacrare. Perché, qui, la possibile malattia, o la morte, corrispondono a un disegno divino – di dèi antichissimi –, a un’interferenza del soprannaturale, di cui vanno scongiurati gli effetti perversi o maligni.
Di Gianni, addentrandosi reverente dentro case o piazzuole di pietra indifferentemente abitate da maiali o galline o vecchie dolenti, facendoci toccare con mano il reperto dimenticato di un corpus misterioso, troppo alieno da noi per risultare leggibile, insegue un’utopia luministica e non illuministica, un discorso dell’estasi fatta persona o cosa. Regista onirico per eccellenza, e credente nella magia, ora circoscrive e ora dilata, con una metrica da lirica delle origini fatta di pieni e di vuoti, un astorico tempo dell’inizio, dove il “pianto rituale” di De Martino (il saggio è del 1958) si trasforma – a fronte di una bara esposta sopra uno sperone roccioso, sorvegliata all’uno e all’altro capo da due giovani orfani vestiti a festa, muti e come spersi con gli altri paesani disseminati sulle rocce – nel pianto di tre prefiche amministratrici del culto barbaro dei morti, in un lamento preordinato che si accompagna con la percussione delle mani sulla superficie della bara e l’ululato disumano dell’animale, nel mezzo di un convegno che ha la configurazione del sabba – meno visionario, seppur non meno mirifico, il “pianto rituale” documentato dalla “pioniera” Cecilia Mangini (1927-2021) nel corto Stendalì. Suonano ancora (1960, con testo di Pier Paolo Pasolini, coevo a La canta delle marane, sempre “scritto” da Pasolini), a Martano, nel Salento ‘greco’; e, a sessant’anni di distanza, lo spiritismo ricreato da Gigi Roccati in Lucania. Terra, sangue e magia (2019).
La stessa sobrietà del commento over, tipico dei documentari del tempo (si veda Cesare De Seta), del quale Di Gianni avrebbe fatto volentieri a meno in quanto ‘credente’ nella forza esaustiva delle immagini, è un modo per lasciar parlare chi, se deve parlare, parli rispettando le cadenze della melopea e della litania religiosa. Così come parlano, nel loro linguaggio non meno religioso, gli altipiani immersi in atmosfere chimeriche, o gli aratri che provano a incidere la lama dentro un solco che non si lascia penetrare – impenetrabile come il volto di chi manovra il povero attrezzo: ridotto a icona sul crinale di una collina lontanissima, lungo la quale sfumano i contorni di uomini e bestie, e domina l’assenza. O domina, se vogliamo citare ancora De Martino, per Di Gianni antagonista sì ma antagonista dialettico e quindi interlocutore di prima istanza, “la crisi della presenza”.
“La Taranta è il ragno mitico, in sé innocuo, che morde simbolicamente e dà con il suo veleno turbamenti fisici e dell’anima. Il tarantismo, il male del cattivo passato che torna e continua il suo tormento, ebbe origine dalla contaminazione di riti orgiastici e iniziatici pagani tra l’800 e il 1300. Ha avuto e ha diversa cronaca dall’anno 1700, quando la Chiesa, alla speranza degli invasati per una liberazione, sostituisce l’immagine di san Paolo taumaturgo e sciamano”.
Non è difficile riconoscere, nella didascalia che fa da epigrafe a La Taranta o Tarantula (b/n, 35 mm, 1962, 18’), il documentario di Gianfranco Mingozzi (1932-2009) per il quale funge da consulente, lo stile, analitico e letterario insieme, di Ernesto De Martino: l’antropologo che, prima con Il mondo magico (1948), poi con Morte e pianto rituale (1958) e La terra del rimorso (1961, pubblicato quattro anni prima della morte prematura, con corredo fotografico di Franco Pinna risalente al 1952-1955), si addentra, da studioso ma anche da uomo del nostro tempo – è il tempo del miracolo economico, a cui l’etnologo e storico delle religioni, contrappone un’alterità comunque persistente –, in una terra in trance ancora arcaica e sepolta sotto oscuri relitti culturali. Di cui il tarantismo, o ‘tarantolismo’ come lo chiama Pinna in Atlante figurato fotografico del lamento funebre (1958), è il fenomeno più identificabile e, a suo modo, più appariscente. E identificabile nella “pizzica”.
Pizzicata è, per esempio, il titolo d’esordio, 1996, di Edoardo Winspeare, cresciuto a Tricase, nel leccese, ed è evocata con questo nome anche in Le Grand Bal di Laetitia Carton (Francia, 2018), ambedue – pur a distanza di decenni – in inestinguibile debito con quell’esperienza musicale e culturale che è stata il Canzoniere Grecanico Salentino, gruppo fondato nel 1975 dalla scrittrice leccese Rina Durante, la cui fondamentale lezione ha saputo trasformare la storia e l’immagine del Salento. La “pizzica” è ballo frenetico inscenato dalla tarantata, la donna contagiata dal morso simbolico della taranta o tarantola o tarantula, il ragno immaginario il cui veleno altrettanto simbolico risveglia in lei il dolore e la sofferenza di un corpo emarginato. L’appariscenza perché la danza convulsa della posseduta dal morso e dal ri-morso (si replica ogni anno, tra giugno e agosto), fino allo sfinimento e alla guarigione concessa per grazia di san Paolo, si fa spettacolo popolare, puntualmente ripreso in ogni sua fase dall’empatica mdp di Mingozzi, da sempre interessato alla metrica del rito e della cerimonia.
Un Mingozzi che, per il commento over, ricorre poi all’alata prosodia di un Salvatore Quasimodo – “Questa è la terra di Puglia e del Salento, spaccata dal sole e dalla solitudine, dove l’uomo cammina sui lentischi e sulla creta, dove scricchiola e si corrode ogni pietra da secoli” – e non manca di planare in piano-sequenza, con la mdp a mano, proprio su quel paesaggio arido calcinato da una luce divorante, su quei ruderi di chiese diroccate, sbiancate dal sole, sotto i cui portici smangiati e percorsi da statue mutile, donne e bambini soggiornano tra lavoro e lamento. Dopodiché Mingozzi si porta a Nardò, fotografa un barbiere – sarà lui il suonatore di violino durante la “pizzica” –, un becchino – sarà lui al tamburello – e un acquaiolo – sarà lui alla fisarmonica. Giusto per significare la provenienza in tutto e per tutto laica e profana di chi è chiamato, per tradizione secolare, a interpretare quel “simbolismo remoto della musica e dei colori atto a coordinare le crisi delle tarantate in un una danza che le libera dal maleficio religioso” (Quasimodo).
Poi si porta in una casa di Nardò dove fotografa il “ciclo coreutico” (De Martino) di Maria, il suo ingresso carponi in camice bianco stretto in vita e calzini scuri, da dietro una tenda di cucina che fa da sipario, alla presenza di una vecchia incartapecorita. Maria striscia sul dorso, stringendo un panno colorato, intorno al perimetro cerimoniale definito da un lenzuolo bianco (allusione a un ipotetico parto?) cosparso di nastri variopinti. Rotola su se stessa. Assume una posizione prona, battendo la fronte sul tappeto al ritmo della tarantella, si rialza, percorre correndo il perimetro, si ferma davanti ai suonatori “per prendere i suoni”, mentre un bambino seduto su una sedia le porge l’immagine (più grande di lui) di san Paolo.
La sonorità ancestrale s’intensifica (le musiche sono state adattate dall’etnomusicologo Diego Carpitella sulla base di ritmi antichissimi), come s’intensifica la frenesia rotatoria da derviscio (un tempo si sarebbe detto da menade) di Maria (per un secondo inquadrata in primo piano, scarmigliata, stravolta). Si ributta, ora supina ora prona, torce compulsivamente il collo. Lacera il panno-feticcio. Si rialza. Si mette in ginocchio. Prova a parlare a san Paolo, salmodiando l’invocazione rituale che strappa il cuore: “Ahi Santu meu de le tarante, facitece ’na grazia, a tutte quante”.Uno sguardo agli astanti in attesa della purificazione. Ma no, niente redenzione per il momento (secondo la liturgia cultuale più antica la pizzica può durare giorni, fino all’esaurimento delle forze). Maria ora si siede – e Mingozzi approfitta della pausa per incorporare un esterno giorno, un campo lungo su ulivi rinsecchiti e muri screpolati. Poi Maria riprende a contorcersi – e Mingozzi approfitta della movimentazione sempre uguale per uscire di nuovo all’esterno, questa volta per planare dall’alto sulla piazza del paese piena di gente, con forze dell’ordine a regolare il flusso, e per riprendere un’altra tarantolata, in nero (allusione al lutto?) che si fa largo tra due ali di folla e replica la danza e la corsa coreutiche, sul lastricato bruciato dal sole.
È una forma di emulazione prevista dal codice comportamentale: il morso è contagioso. Montaggio parallelo, allora. Dentro casa Maria, ancora distesa in trance, riprende a dimenare il corpo sotto gli occhi della madre. Fino a che non si ferma. Mentre l’emulatrice continua a scorrazzare per la piazza cercando il contatto con i presenti, fino a che un uomo non la placca e non la placa. Anche Maria, adesso, è placata. È il momento di trasferirla in auto fino alla basilica di san Paolo di Galatina. Dove, all’interno della cappella del santo, può salire sulla cornice dell’altare su cui campeggia l’immagine sacra, arrampicarsi su una mensola (una donna sta accendendo un cero) e impetrare la liberazione definitiva.
Stacco (da notare che la scansione dell’intero ‘ciclo’ è giusto documentata da Pinna nell’Atlante). Preparativi per la festa in paese. Si allestisce un chiosco con festoni e luminarie. Notte. Sfilata della banda. Processione con la statua del santo. Chiosco tutto illuminato nel buio. Musica bandistica. Un finale con il quale Mingozzi registra, dopo aver misurato con la mdp l’ampiezza della faglia storica tra un passato radicato a fondo nelle viscere di un Salento tuttora colmo di sopravvivenze pagane, l’invadenza di un presente che da un lato lo rispetta integralmente e dell’altro lo desacralizza a reperto archeologico, a imitatio scenica e spettacolare – negli anni Duemila la Notte della Taranta si trasformerà nel più importante Festival europeo di musica tradizionale.
Nei primi anni Sessanta, tuttavia, la secolarizzazione è appena un cenno, e resta comunque chiusa entro i confini assoluti di una finis terrae abissalmente remota dal mondo non magico: “Da noi si riposa il falco e la civetta / segna la nostra morte. / Da noi il mondo è lontano” (Mario Trufelli, Lucania, 1952). Tant’è che Mingozzi non lascia, anzi, raddoppia. E, invitato a collaborare con un breve episodio (b/n, 5’) al film collettivo Le italiane e l’amore (1962), vi introduce, al quinto posto della silloge, quel corpo estraneo che s’intitola Le tarantate o La vedova bianca (in omaggio sarcastico alla velenosissima vedova nera). Dove, in estrema sintesi, ripropone tale e quale il ciclo coreutico cambiandovi solo l’interprete: non più Maria ma Rosaria di Nardò. Con un effetto di concisione che giova al tutto (“Antiche e represse delusioni d’amore, in alcune donne del Mezzogiorno, esplodono in crisi ossessive determinate, secondo la credenza popolare, dal morso della tarantola”: così suona, più didatticamente che in La Taranta, la didascalia iniziale). E cala Rosaria, dopo un vertiginoso piano-sequenza tra strade bianche e vicoli deserti e svolte sepolcrali, in una pizzica – data la concentrazione richiesta – ancor più terremotata e frenetica.
“Avara è l’acqua a scendere dal cielo. Questa è terra di veleni animali e vegetali, qui cresce nella natura il ragno della follia e dell’assenza, insinuandosi nel sangue di corpi delicati, qui cresce tra le spighe di grano e le foglie di tabacco la superstizione, il terrore, l’ansia di una stregoneria possibile, domestica”, ‘canta’ Quasimodo nell’esergo a La Taranta. Evocando a suo modo quella “crisi della presenza” che De Martino riprende dal vocabolario di Martin Heidegger per elevarla ad antitesi della modernità, a emblema del ritardo storico del Sud, a teorema di un’umanità depressa, che solo nella magia trova la propria medicina simbolica condivisa. Al che, gli esaustivi 18’ di La Taranta fanno davvero scuola. Mentre i 5’ scarsi di La vedova bianca fanno da lectio propedeutica, identificando nell’isteria – la vittima non è sempre solo la donna? – il “delirio malinconico” (Francesco Serao), guaribile unicamente con la terapia sonora.
Del lungometraggio Samp (2020), la docuficion realizzata da Antonio Rezza e Flavia Mastrella in Puglia – un killer che, nella dimensione parodistica e surreale della trasgressiva coppia di performer (Rezzamastrella), si propone d’invalidare alla radice l’intero patrimonio culturale del Salento (!), non sarebbe qui il caso di parlare. Sennonché, il film, autoprodotto, reca ancora traccia, a oltre mezzo secolo di distanza da Morte e pianto rituale e La terra del rimorso, di un’accanita rilettura dei testi demartiniani, anarchica quanto si vuole, abnorme quanto si vuole, ma pur sempre rilettura ex novo –, e il fenomeno va segnalato.