…en toute amitié
di Sergio Arecco
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Non riconciliati (Jean-Marie Straub, Nicht versöhnt, RFT, 1964-1965, 50’)
“Ho deliberatamente scartato ciò che il romanzo di Böll comportava di pittoresco, satirico, aneddotico; per, fare, attraverso la raffigurazione di una famiglia borghese dal 1910 ai giorni nostri, una pura riflessione cinematografica, morale e politica sugli ultimi cinquant’anni della Germania, in una sorta di oratorio filmico”. C’è giù tutto Jean-Marie Straub in questa dichiarazione di accompagnamento all’uscita, contestatissima, del suo primo mediometraggio (1965): la sua intransigenza etica ed estetica, la sua aspirazione a un rigore formale che depuri la narrazione di ogni possibile orpello e la lasci, nuda e spoglia, all’anatomia critica di uno spettatore in piena sintonia con l’autore: una sintonia religiosa, da ascolto luterano di un corale che diviene, tramite il corredo delle immagini – immagini discrete e non concrete –, meditazione collettiva sulle vicende di un popolo straziato da ben due sconfitte, nelle due guerre mondiali del XX secolo. E sì che il romanzo di Heinrich Böll, Biliardo alle nove e mezzo (1959), nel suo andamento joyciano – è ambientato a Colonia, citata in minore attraverso il fotogramma della chiesa di sankt Severin, nello spazio-tempo di un solo giorno – è già di per sé un referto di fatti, passati e presenti, più che una narrazione distesa, più un conglomerato di schegge diegetiche che un congruo complesso di situazioni. Già in nuce un blocco roccioso, bisognoso, in molte edizioni del libro, di uno schema di lettura, come per l’Ulisse di Joyce (lì un Bloomsday, 16 giugno 1904, suddivisibile secondo lo schema Linati in diciannove ‘stazioni’; qui, un 6 settembre 1958 suddivisibile secondo lo schema Poser in tredici). Un blocco da cui Straub, nel suo monitoraggio d’impronta geologica e genealogica – assistito in ciò dalla non meno radicale Danièle Huillet – ricava, ripromettendosi di fare cinema puro, un serie di piccoli minerali da auscultare, come fossero eco-reperti di una delle tante cronache famigliari del suo odiato paese – è il duro motto brechtiano “Solo violenza aiuta dove violenza regna”, da Santa Giovanna dei macelli (1932), a far da sottotitolo a Non riconciliati (b/n, 35 mm). Qui, è in gioco la cronaca della famiglia Fähmel, scandita ellitticamente nell’arco di tre generazioni, tutte di architetti. Dal capostipite Heinrich, di cui il 6 settembre 1958 la moglie Johanna, il figlio Robert e il nipote Josef con la moglie Marianne festeggiano l’ottantesimo compleanno; a Robert, distruttore, in provocatoria obbedienza alla norma della ‘terra bruciata’ imposta dai nazisti, dell’abbazia di sankt Anton edificata dal padre; a Josef, il migliore interprete delle ragioni ‘suicide’ di Robert (antinazista per formazione) e proprio per questo deciso a rinunciare al progetto di ricostruzione che gli è stato affidato. Quali, le ragioni? Le ragioni del cuore di Robert, legato alla memoria della moglie amata, Edith, trucidata dai nazisti e simbolo di quel “sacramento dell’agnello” che viene contrapposto da Böll al “sacramento del bufalo” (il bufalo per eccellenza è stato il maresciallo Hindenburg, incarnazione della devozione al binomio nazionalista “sangue e zolla”). Un sacramento a cui si è consacrato da subito l’ancor oggi in vita Nettlinger, nazista della prima ora, antico persecutore di Robert e del suo diletto amico ebreo, compagno di scuola e di gioventù, Schrella, altro neofita del “sacramento dell’agnello”. Sono episodi che risalgono al 1935. Il Robert di oggi – che ogni mattina, alle nove e mezzo precise, si presenta all’hotel Prinz Heinrich per giocare tutto solo una partita di biliardo, assistito dal liftboy Hugo, incaricato dalla direzione di portargli ogni volta un doppio cognac – li racconta giusto a Hugo, tra un colpo di stecca e l’altro, indugiando, nel fondamentale segmento d’apertura di Non riconciliati, sull’amicizia fraterna con Schrelle e sulle inaudite prepotenze del seguace della Hitlerjugend Nettlinger (protetto dall’insegnante di ginnastica Vacano, il torturatore vero di Robert). Guai, però, con Straub, parlare di flashback o di analessi! La sua concezione del film, fondata su una grammatica strutturalista, antinaturalistica e antiletteraria (per quanto si rifaccia alla letteratura, con Böll, come in seguito con Brukner o Corneille o Brecht o Bach o Mallarmé o Engels o Kafka o Schönberg o Hölderlin o Sofocle o Pavese o Vittorini), straniata dal fuori quadro e dalla dizione meccanica degli attori, antipsicologica e antillustrativa, oggettuale e funzionalistica, in una parola materialistica – il film come dialettica di, frammenti brevi, spesso fulminei, talvolta irrelati – non lo tollererebbe. Se mai, si potrebbe parlare, anticipatamente (Gilles Deleuze ha coniato il termine studiando Resnais, negli anni Ottanta), di falde di passato. Se non fosse che le falde di passato individuate da Deleuze sono destinate periodicamente a tornare, a suggestionare il presente, mentre le falde di Straub sono destinate a non tornare, a restare cristallizzate come fossili da collezione (album, paleoteca: si vedono anche spezzoni di repertorio relativi alla Grande Guerra), una volta riportate alla luce. Detriti. Piccoli corpi contundenti. Se mai, allora, faglie di passato! stante la stratigrafia del materiale, strutturato dal regista più per dissociazione o antitesi, tipicamente brechtiane, che per associazione e sintesi. Alla faglia Schrella (l’agnello costretto, da ebreo, alla fuga, e rientrato in Germania dopo vent’anni) subentra la faglia Heinrich Fähmel, il grande vecchio che Robert incontra a distanza di tempo nel bar all’aperto della stazioncina di Denklingen, località dov’è ricoverata da diciotto anni, in una casa di cura per malattie mentali, la moglie (e madre di Robert) Johanna. Robert dispera di persuadere il padre circa le ragioni (del cuore) che lo hanno indotto a distruggere l’abbazia di sankt Anton, ma ci prova. Lo ha già confessato al piccolo Hugo nella sala da biliardo: lui era bravo con gli esplosivi, un professionista, e sarà stata anche quella risorsa a indurlo alla messa in scena del suo sacrificio, apparentemente arbitrario, in memoria degli ‘agnelli’. Sennonché, agli occhi del patriarca (la segretaria era già la Johanna, interpretata da giovane da Danièle Huillet, poi divenuta sua moglie), l’atto del figlio ha indotto pure alla follia la sensibile Johanna, con conseguente reclusione in manicomio. Follia lucida, comunque. Di più. Lucidissima, per Straub (la donna, in realtà, non è affatto pazza). Non è lei, grazie alla libertà provvisoria concessale dall’ospedale per festeggiare il giorno del compleanno del marito, a procurarsi una pistola e, una volta affacciata al balcone di casa da cui è possibile assistere a una tronfia parata di ex combattenti, a uccidere, contrariamente al suggerimento di Heinrich – colpire finalmente l’infame Nettlinger – un ministro del nuovo governo democratico? Dopodiché, dopo l’inconsulta (per i presenti) revolverata, ecco che Johanna può presiedere tranquillamente al ricevimento, con la distribuzione della torta agli invitati. Come non ricordare che, nel corto d’esordio, Machorka-Muff (1962, b/n, 17’, anch’esso da una novella di Böll), Straub ha raccontato, con stile più accessibile, la riabilitazione dell’ex generale Erik von Machorka-Muff, investito dal nuovo governo di un’importante onorificenza – a testimonianza della mancata, sebbene necessaria, discontinuità della politica tedesca postbellica? Con il suo gesto, Marianne, la quale, nel 1914, ha definito il Kaiser “l’imbecille imperiale” – gesto secondo Lukacs tutt’altro che insensato, anzi umanamente tanto autentico da sanzionare il passato fascista della Germania –, si vendica proprio di quel malsano “sacramento del bufalo” intorno al quale Böll (che non ha amato la versione Straub) fa ruotare la compagine del suo romanzo. Con il suo gesto, Marianne si vendica della platealmente negata discontinuità storica tedesca. Non resterebbe, ora, che la faglia Josef… (la cui fidanzata è scampata per miracolo a uno di quei suicidi collettivi cui i gerarchi nazisti, al momento della disfatta, costringevano i famigliari, sul modello dei Goebbels). Ma giova, qui, forse fermarsi. E, piuttosto, rilevare che, se di faglie si parla, anche di linee di faglia si dovrebbe parlare. Per dire, in definitiva, che di linee, tra loro in eventuale relazione nell’immaginaria area sismica di Straub, non esiste tuttavia traccia. E che l’oracolare titolo, Non riconciliati, non allude solo, esternamente, all’atteggiamento non accomodante dei Fähmel; allude, intrinsecamente, all’inconciliabilità delle frange estreme di un cinema che, pur influenzando non poco le propaggini anni Sessanta del nascente Junger Deutsche Film, segna già – nelle modalità geometriche e nel gelido, traslucido apparato iconografico (un b/n di assoluto, abbagliante nitore, come poi sempre in Straub) – una linea di non ritorno.
Il fidanzato, l’attrice e il ruffiano (Der Bräutigam, die Komödiantin und der Zuhälter, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, RFT, 1968, 23’)
“Stupida vecchia Germania. Odio stare qui. Spero di poter andarmene presto. Patricia. 1.3.68”. Jean-Marie Straub proietta i titoli di testa del suo secondo corto, Il fidanzato, l’attrice e il ruffiano (b/n, 35 mm) su un muro (di cella?) ricoperto di graffiti. Sul quale spicca proprio quel graffito, così autobiograficamente esplicito, così intensamente autoreferenziale, così intrinsecamente personale (Straub, con Danièle Huillet, lascerà la Germania per Roma l’anno dopo). Il Sessantotto, dunque, straubianamente straniato e formalizzato. Il film è infatti scandito in cinque inesorabili sequenze: un carrello su un marciapiede della periferia di Monaco battuto dalle mercenarie del sesso (a); un condensato ‘esemplare’ della pièce tardoespressionista di Ferdinand Bruckner Malattia della gioventù (1926) effettivamente allestita da Straub al piccolo Theaterstück di Monaco (b); l’inseguimento notturno di due automobili in corsa verso una resa dei conti messa in scena in riva all’Isar (c); la celebrazione di un matrimonio cattolico in una piccola parrocchia (d); la ‘fuga’ dei due sposi verso la casa di campagna della donna, dove li attende il ruffiano (R.W. Fassbinder), che la donna non esita a far fuori rivolgendosi poi estatica verso la finestra illuminata dal sole (e). Un Sessantotto straubianamente straniato e formalizzato, si diceva – ma non per questo meno combusto. Di una combustione dei materiali impiegati destinata a trasformarsi in vera e propria autocombustione, per effetto di un’intertestualità che, facendoli interagire l’uno con l’altro, ne contamina l’astratta (straubiana) purezza d’impianto e, di fatto, ne provoca l’implosione. Non a caso b, nella sua nevralgica articolarità (10’35” di proiezione fissa senza stacchi, incorporata come un monolito nel flusso di brevi proiezioni in movimento commentate dalla musica di Bach), interagisce in primo luogo con a nella misura in cui Straub privilegia, della pièce di Bruckner – modellata su Risveglio di primavera di Wedekind (1906), quindi tutta scandalosamente consacrata alla rappresentazione della sessualità giovanile come patologica devianza –, il rapporto perverso tra il ruffiano e la serva di casa; riproducendolo in termini di rapporti di classe e di sfruttamento mercenario. Ma b interagisce in secondo luogo con c e d, nella misura in cui il ruffiano non solo appare propenso ad avviare la serva alla prostituzione ma appare intenzionato a prostituire pure l’attrice, innamorata di un fidanzato di colore, costringendola a sposarlo. E b interagisce in terzo luogo con e, nella misura in cui le “profonde caverne del senso” di cui parla l’attrice dialogando con la partner Desiree diventano, una volta fuori dalla fisica del palcoscenico, le metafisiche «caverne del senso» di cui parla Juan de la Cruz nelle sue coblas a lo divino, le «caverne del senso» che prima era “cieco e oscuro” e ora “con mirabili premure / presso l’Amato dan luce e calore»”. In altre parole, Straub smantella nientemeno il paradigma teatrale assunto come primo referente, con il suo rigido apparato di azione e coazione. Cioè, sessantottescamente, lo derealizza, impastandolo con una realtà che si vorrebbe imprigionare tra gli addobbi di un teatro (pur modesti: una poltrona, un carrello portaliquori, una sedia, un vaso di fiori, un secchio) – il ruffiano della finzione di Bruckner derealizzato a ruffiano vero, maleficio pubblico da esorcizzare non solo in effigie. E, sommando contaminazione a contaminazione, fa recitare l’attrice di Malattia della gioventù non più con i detti profani di Bruckner ma con i detti sacri di Juan de la Cruz, interpretando così nel modo più consono la nozione di notte oscura propria del mistico spagnolo. Non solo. Una volta rotto l’incantesimo scenico, in d l’attrice e il fidanzato non si chiameranno più, rispettivamente, Marie e Willi, come succedeva in b, bensì Kristin e James, come l’attrice (Kristin Peterson) e l’attore (James Powell) chiamati da Straub a interpretare Il fidanzato, l’attrice e il ruffiano. E il ruffiano che si farà trovare nella casa di campagna per vendicarsi dell’attrice, finendo paradossalmente eliminato dalla stessa arma con cui intendeva ucciderla, non si chiamerà più Freder, come in b, bensì Rainer Werner, “dato che il tempo è venuto in cui conviene fare il riscatto della sposa che in duro giogo serviva”. Bruckner? No. Anfibologicamente, Juan de la Cruz. Perché Straub, applicando la nozione di notte oscura a Malattia della gioventù, ossia incrociando scena e fuori scena, mistero profano e mistero sacramentale, prolunga la suggestione della pièce ben oltre le assi della ribalta: fin dove la notte si fa incendio e luce di conoscenza, solarità naturale, fuoco sacro. Come puntualmente vedremo in Mosè e Aronne, Dalla Nube alla Resistenza, La morte di Empedocle, Antigone.
Peccato nero (Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, Schwarze Sünde, RFT, 1988, 40’)
“Uno dei rari tentativi di filmare il vento”, ha scritto Serge Daney al tempo di Trop tôt/trop tard (1980-1981). E in effetti, da allora, è come se la coppia formata da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet lo avesse ascoltato. Basti pensare alle versioni dall’Antigone di Sofocle (1991), dai Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese (le singole tranche, a partire dal 2006, con le tranche antecedenti -comprese nella seconda parte di Dalla Nube alla Resistenza) e da Friedrich Hölderlin: La morte di Empedocle (1986) e Peccato nero (colore, 35 mm), che della Morte di Empedocle hölderliniana trasfigura in immagini la terza e più succinta versione (1799). Dove il termine trasfigurazione, se inteso secondo il suo etimo, non ci pare esagerato. Se infatti, nel rigoroso rispetto della prima versione di La morte di Empedocle (132’), Straub e Huillet si sono sentiti in qualche modo ‘costretti’, a un dato momento, a sacrificare i molti personaggi astraendoli, sollevandoli, alla lettera, dalla scena fissa concepita per loro, con sparizioni ostentatamente teatrali, onde riuscire a concentrarsi sul paesaggio naturale – le verdi pendici dell’Etna, lo stormire delle fronde – e fermarsi a contemplarlo per farne l’epicentro privilegiato del dramma, nel più sintetico Peccato nero (dal v. 34 della terza stesura), non devono soggiacere a tanto sacrificio. Di più. Possono, facendo propria un’intuizione dello stesso Hölderlin – il quale inizia la tragedia in medias res e immagina senza preamboli un Empedocle emergente da un sonno oblioso – e amplificandone genialmente la portata, rappresentarlo ancora addormentato sulla nuda terra, ‘parlato’ dalla sua stessa voce fuori campo come se parlasse oracolarmente nel sonno, zwischen schlaf und wachen (“tra sonno e veglia”: v. 251). Per cui il giovane discepolo Pausania, concepito da Hölderlin quale eco del suo risveglio, può apparire, nella luce offuscata del risveglio medesimo, una proiezione del sogno di Empedocle, una materializzazione del suo inconscio. A un punto di tale annullamento della fatale divergenza enunciata dal filosofo – perdita dell’identità con il divino eclissatosi da lui e sua riconquista attraverso il suicidio, inteso come espiazione del peccato di essersi preteso simile agli dèi – che all’analogo mondo delle apparizioni può appartenere, dopo la sparizione di Pausania, pure il nuovo personaggio chiamato a fargli da interlocutore, il sacerdote egizio Manes. Non è forse durante il dialogo tra Empedocle e Manes che Straub/Huillet staccano finalmente dall’inquadratura fissa (inderogabile in La morte di Empedocle, come in buona parte del loro cinema) e inseguono con la mdp il profilo dell’Etna inciso nel cielo azzurro? Non è forse lo stacco, finora impensabile, sull’imago mitica del vulcano (ribadita poco dopo da altre due inquadrature fisse dello stesso) sinonimo di un’ulteriore sparizione? Quella, nella circostanza, di un Manes evocato da un immaginario tutto personale, consumato da Empedocle in interiore homine, al solo cospetto di se -stesso o del suo io diviso. Del resto il modulo dell’asincronismo tra i parlanti, per come viene adottato, da sempre, da Straub/Huillet, e per come viene elevato, in Peccato nero, a regola aurea della messa in scena della parola, non fa che accreditare gli effetti illusionistici di quanto vediamo riflesso dallo splendore del plein air: lo spettacolo, esaltato dal fatto che si tiene all’aperto, entro un orizzonte naturale, di una locuzione che, innaturalmente, abbandona colui che parla per impadronirsi di colui che ascolta. Come il ça parlelacaniano che, nella logica dell’inappartenenza e della dislocazione del sé, non appartiene più all’io ma al suo opposto, non più al reale ma al metareale. Non è forse metareale l’ultima apparizione del film – che si tratti, nella fattispecie, di un’autentica apparizione non sussistono dubbi, poiché il personaggio non compare nella terza stesura dell’Empedocle di Hölderlin, della cui testualità Straub/Huillet riproducono fedelmente persino le virgole e le cadenze –, quella di Pantea, interpretata, con un colpo d’ala degno di chi è un compagno di vita oltre che d’arte, da Danièle Huillet? Sull’identico punto dove Empedocle (interpretato come nel lungometraggio da Andreas von Rauch) dormiva e forse sognava Pausania e Manes, prende posto Pantea, prima sdraiata e poi seduta come lui, a mo’ di alter ego – è sua sorella – , ultima proiezione (siamo al cinema, no?) di chi era ritenuto non a caso uno sciamano, e recita un esodo che, non esistendo in nessun testo di Hölderlin, rinvia pertanto alla cultura del mito in appannaggio ai due autori di Peccato nero: “Solo chi crede nella natura non finirà maledetto…”. Pantea/Huillet lo recita dopo 3’ di perfetta immobilità, nello stile suo e di Jean-Marie, come se intendesse raccogliere le forze necessarie per dire l’indicibile, il mai detto, con una voce che vuole forse offrirsi quale istanza di un sacro dato per dissolto, di un messianismo dato per morto.
Il ginocchio di Artemide (Jean-Marie Straub, Le genou d’Artémide, Francia, 2007, 16’)
Prima appendice – ne seguiranno altre, in forma teatrale, Le streghe 2008, e cinematografica, L’inconsolabile 2011, e La madre 2012 – di Quei loro incontri (con Danièle Huillet, 2006), Il ginocchio di Artemide (colore, 35 mm, più esatto, in francese, Artémis) arricchisce con la tranche forse più affascinante l’ormai corposo confronto condotto da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet con i Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese (1947): un confronto inauguratosi nel 1978 con la seconda parte, quella recitata in costume dagli attori dilettanti del gruppo teatrale di Buti, di Dalla Nube alla Resistenza. In costume, certo. Perché il primo approccio di Straub/Huillet con i Dialoghi dello scrittore piemontese ha da essere, secondo i rigorosissimi principi spettacolari della coppia, assolutamente filologico: tradurre cioè nelle vesti medesime, lacere e primitive, in cui Pavese li ha pensati e immaginati, i personaggi del mito, dalla Chimera all’Uomo-lupo, dalle Muse agli Dèi stessi (i Dialoghi pavesiani scelti per la messa in scena sono 6 per Dalla Nube alla Resistenzae 5 per Quei loro incontri, a cui vanno aggiunti i 4 singoli più recenti: in tutto 15 su 27). E tradurli rispettandone tutte le pertinenze: a) logistiche: con l’unità di luogo della campagna attorno a Santo Stefano Belbo, fulcro del mito delle Langhe come ombelico del mondo magico e del mondo storico; b) metalinguistiche: con la sola, anche se non è poco, correzione straniante della parlata, con un costante slittamento dal senso grammaticale al suono in sé e per sé della parola o delle parole pronunciate; c) scenografiche: con costumi precisamente modellati sull’immaginario arcaico, alla Pasolini. Precisandosi sempre meglio l’idea dell’opera-laboratorio, della messa in cantiere di un’esperienza risolutivasecondo il modulo elaborato insieme a Danièle lungo gli anni, già con Quei loro incontri (che è tra l’altro la battuta conclusiva di Gli dèi, l’ultimo dei Dialoghi con Leucò) la pertinenza c ha finito per assimilarsi alla pertinenza b, nel senso di un utilizzo più esteso dell’effetto straniamento, che coinvolge non più solo il sistema della dizione ma anche quello della rappresentazione. L’opzione per gli abiti moderni, abiti comuni e quotidiani, ha così potuto rafforzare la pertinenza a, ossia la riconoscibilità di un ambiente, di un topografia nella quale, secondo Pavese, e ora secondo Straub/Huillet, sia leggibile il connubio tra ur-Zeit e Zeit, tra il tempo senza tempo e il tempo di ieri o di oggi: convergente con l’altro spettrale connubio tra archetipi come la vigna, l’uliveto, il ruscello, e il campo di grano, il viottolo battuto da un carro di buoi o da un contadino di passaggio. O come, per entrare nello specifico di Il ginocchio di Artemide, tra ciò che Pavese chiama oracolarmente nube, roccia, acqua, vento, fuoco, grotta, bestia, sangue, mostro, intendendo l’indistinto dei conflitti primordiali, e ciò che chiama storicamente barbarie e violenza, intendendo il conflitto radicato in quel sostrato primevo e perpetuatosi senza soluzione di continuità (la soluzione che dovrebbe intervenire tra Caos e Cosmos, immortalità e mortalità) nella forma dei massacri e degli eccidi di oggi, come quello dei bambini trucidati dai nazisti nel bosco sopra la Gaminella, in memoria dei quali è stato eretto un cippo, puntualmente visualizzato nelle immagini finali di Il ginocchio di Artemide. Dopo uno stacco da brividi dalla fissità tutta straubiana del dialogo tra Endimione e lo Straniero – il primo seduto su un masso, il secondo appoggiato a un pioppo –, la mobilità inquieta della mdp, ondeggiante sulle cime degli alberi e sulle penombre del sottobosco, ci trascina passo passo con sé, alla ricerca di qualcosa che alla fine si rivela essere la lapide dedicata alle piccole vittime fucilate. Il mito, così, anziché confliggere, si sposa indissolubilmente con la storia, anzi, la illumina connotandola con la propria luce sacrale, la propria eco dell’infanzia del mondo, la propria risonanza dell’origine delle cose e degli esseri – dèi e uomini dialoganti insieme, come Endimione e lo Straniero –, la propria solarità già venata di ombroso stupore. Il ginocchio di Artemide è incorniciato tra due nastri di pellicola nera. Il primo, di ben 4’, è occupato – a titolo di preludio musicale della citata tragedia dell’infanzia – da uno dei Kindertotenlieder di Gustav Mahler. Il secondo, di 2’, è occupato da un frammento corale di Heinrich Schütz, e fa da coda ai lunghi 2’ nel corso dei quali la mdp indugia, in una presa diretta intensificata, sullo stormire delle fronde e sul volto contadino dello Straniero – noi stessi – come se non lo volesse lasciare, prolungando il piano ben oltre la chiusura del dialogo, con una licenza fattasi ormai sistema nell’ultimo Straub. Sempre più austero e stilizzato, ma anche sempre più ipnotizzato dalla fissità mitologica della sua mdp, affascinata in misura sempre più struggente dallo splendore intatto del verde campestre, dalla fulgida simbologia agreste e, nel caso di Il ginocchio di Artemide (il ginocchio che nessun uomo può toccare), dalla misteriosità dell’underwood, tempio di tutti i segreti, custode inesauribile di memorie e di favole selvagge.
Sciacalli e arabi (Jean-Marie Straub, Schakale und Araber/Chacals et Arabes, Germania/Francia, 2011, 11’)
Non è la prima volta che Jean-Marie Straub e Danièle Huillet si misurano con Kafka, e il loro Rapporti di classe (1984, dal romanzo incompiuto America) rimane a tutt’oggi una messa in scena – è in costume – memorabile. Ma Rapporti di classe respira ancora del rigorismo brechtiano, in b/n, della prima fase della coppia, nonché, diciamolo, delle formule connaturate alle traduzioni filmiche di opere letterarie del Neuer Detuscher Film, algido e straniato. Sciacalli e arabi (colore, video) appartiene invece alla loro ultima fase, contrassegnata perlopiù dalla traduzione filmica dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese – da notare che Danièle, nel 1987, pubblicò preventivamente sui Cahiers du Cinéma una traduzione in francese della novella di Franz Kafka (1917). Per cui, in Sciacalli e arabi, al vincolo del corto sperimentale, corrisponde, a colori, il vincolo di una messa in scena da kammerspiel in ‘interni naturali’, come accade con gli esterni naturali pavesiani: dalla prima parte di Dalla Nube alla Resistenza (1978, dove gli attori della Compagnia teatrale di Buti recitano ancora in costume, sia pure alpestre) a Quei loro incontri (2006), ai corti ‘singoli’ Il ginocchio di Artemide (2007) e L’inconsolabile (2011). Con uno Straub, che, rimasto purtroppo solo, si abilita a restituire comunque, in Sciacalli e arabi, attraverso l’impiego di finestre illuminate dal sole, la luce naturale, garanzia, insieme alla trascrizione ‘purista’ dei testi, di un palinsesto altrettanto ‘purista’. La novella Sciacalli e arabi è la prima di Storie di animali (nei Dialoghi con Leucò gli interlocutori sono spesso animali, sia pure mitologici): un ciclo in cui gli animali, naturalmente parlanti, non sono altro che esseri umani dissimulati, partecipi di dissimulatissime guerre di potere dall’esito sempre nefasto. Kafka – ricordiamolo, dal momento che non lo si ricorda spesso –, prima che uno dei massimi scrittori del XX secolo, è, per effetto di una tradizione che non ha mai sconfessato, un esperto cabalista ebreo di Praga, un occultista e un ermetista, un alchemico e un enigmista (da qui la complessità dell’esegesi kafkiana), che traveste le sue moralità leggendarie con il velo dell’allegoria e dell’astrazione. Straub, che se lo ricorda, tiene in grandissimo conto questa vocazione a rappresentare parabolicamente la Legge come inevitabile Condanna, e i suoi sottomessi come inevitabili capri espiatori. Si veda il coltello (anche se qui sono forbici) che, Barbara Ulrich, accucciata per tutto il tempo come una vittima sacrificale accanto a una porta finestra, con abiti dimessi che ne mascherano l’apparenza da sciacallo, brandisce d’un tratto, alla fine del suo monologo, contro Jubarite Semaran, l’arabo ritto in piedi che le contende uno spazio epidittico nel quale è stato introdotto da Kafka in qualità di testimone. Al punto che potremmo, per convenzione, chiamare K l’anonimo schermo nero, lucido come una lavagna, non occupato per il tempo concesso al contraddittorio di Barbara e Jubarite da alcuna figura umana se non dalla voce di Giorgio Passerone, figlio del grande professore d’italiano Maurizio, l’uomo “del Nord”, un K che reca nondimeno i contraddetti dello stesso Passerone. E a un punto tale che potremmo assimilare il coltello brandito da Barbara al coltello da macellaio con il quale il rabbino tagliava il prepuzio durante il rito della circoncisione, così come il macellaio rituale tagliava la carne kasher. La novella Sciacalli e arabi si presta come nessun’altra al gioco delle parti dicitrici – e austeramente detentrici di due sole inquadrature fisse, il totale e il primo piano – caro a Straub. Essendo essa, dopo un rapido prologo ambientato in un’oasi abitata da arabi con cammelli e contornata da sciacalli apparentemente inoffensivi, attirati più che altro dal calore dei falò, interamente risolta nel dialogo diretto, senza interpolazioni, in quella dizione pura che per Straub/Huillet si è trasformata lungo gli anni nell’essenza stessa del loro cinema di parola (come, per Pasolini, esisteva, accanto a un cinema di poesia, un teatro di parola: e il loro ne è l’audace intersezione). Tanto che la parte dicitrice di K può dirsi quella dell’uomo “del Nord” estraneo alla dialettica sciacallo-arabo, quindi alla loro cultura dell’incontro-confronto-scontro, una cultura intrisa più di diffidenza atavica (vedi I dialoghi con Leucò) che di autentica vis pugnandi. E il tutto malgrado il coltello. Il quale, nell’ermeneutica da noi proposta, non funge da arma di belligeranza quanto da simbolo di scontro ecumenico – gli sciacalli cercano un’ecumene da abitare, se non addirittura da condividere –, di divisione ancestrale (vedi ancora i Dialoghi con Leicò), non a caso rivendicata da Jubarite dopo l’ammazzamento di un cammello della carovana, che l’arabo vorrebbe far pagare al nemico. Al che K gli ferma la mano – Jubarite è sempre ritto in piedi in tutta la sua notevole altezza, contro la finestra adiacente a quella di Barbara –, con un gesto che non vediamo e che però captiamo attraverso il filtro dello schermo nero. “Hai ragione, lasciamoli al loro ufficio di sciacalli; del resto è tempo di levare il campo. Tu li hai visti. Che bestie meravigliose, non è vero? E come ci odiano!” La sottolineatura è nostra, a sottolineare l’impredicabilità, tutta kafkiana, nonché da corpus hermeticum, di una situazione che a Straub/Huillet piace proprio perché lasciata puntualmente in sospeso, come nei Dialoghi di Pavese: quale punto di domanda, di una domanda esistenziale che resterà eternamente in attesa di una risposta che nessun fotogramma – nella logica filmica della coppia, sintomo di cardiogramma, logogramma, engramma, programma di lettura – potrà ma rilasciare.
L’inconsolabile (Jean-Marie Straub, L’inconsolable, Francia, 2011, 14’)
Le traduzioni in immagini dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese (1947, dove Leucò sta per Leucòtea, da Le streghe, l’unico Dialogo trasposto in teatro prima che su pellicola, 2008) curate da Jean-Marie Straub (da solo o in coppia) e da Danièle Huillet sono al momento 15 (su 27): 6 compresi nella seconda parte di Dalla Nube alla Resistenza (1978), 5 in Quei loro incontri (battuta finale dell’ultimo dei Dialoghi pavesiani, Gli dèi, 2006), e 4 ‘singole’: Il ginocchio di Artemide (da La Belva, 2007), Le streghe (2008) L’inconsolabile (2011), La madre (2012). Perché, per due cineasti radicali e intransigenti come Straub-Huillet, i Dialoghi di Pavese? Perché proprio i Dialoghi sono la più radicale e intransigente delle sue opere – significativo che, in Dalla Nube alla Resistenza, Straub-Huillet registrino e contestualizzino nel duplice registro del film, il passaggio di testimone dal Storia (La luna e i falò) al Mito, e che, da quel momento, in larga prevalenza, optino, sulla scia di mitografie cinefile precedenti come Mosè e Aronne, La morte di Empedocle, Peccato nero, Antigone, per il Mito. E, allora, perché il Mito? Perché, a giudicare dall’algida temperatura iconografica a cui la coppia lo tempra ogni volta, la rilettura della Storia alla luce atemporale – binomio chiave – del Mito, soddisfa, per loro, tre fondamentali esigenze di regia: a) il necessario straniamento del dettato filologico d’origine, ogni volta integralmente rivissuto sullo sfondo di scenari agresti, consentito dall’interpretazione di attori dilettanti appartenenti alla Compagnia teatrale di Buti, dal costante slittamento dal senso grammaticale del testo pronunciato al suono in sé e per sé della parola o delle parole pronunciate che la loro dizione ora “a legare” ora a “slegare” assicura; b) il necessario straniamento del dettato filologico d’origine realizzato – salvo che nei 6 Dialoghi compresi in Dalla Nube alla Resistenza, da ritenersi ancora di natura propedeutica e dunque prove d’apprendistato – attraverso l’abbigliamento convertito dall’antichistico (alla Pasolini) al modernistico dei ‘dicitori’, anche quando impersonano la Chimera o l’Uomo-lupo, le Muse o gli stessi dèi; c) il necessario straniamento del dettato filologico d’origine attinto grazie alla reinvenzione topografica, per cui se si dice archetipicamente vigna ha da essere vigna, se si dice archetipicamente uliveto ha da essere uliveto, se si dice archetipicamente roccia ha da essere roccia, se si dice archetipicamente podere ha da essere podere, e non per una ragione d’impossibile realismo o mimetismo, quanto per il motivo esattamente contrario: per l’alto grado di stilizzazione del mitologema campestre – vigna, uliveto, roccia, podere – raggiunto grazie alla fissità ipnotica della mdp, sistematicamente immobile, disposta al massimo a un’alternanza tra totali e primi piani. In L’inconsolabile (colore, 35 mm), la geografia non ha da essere solare, come spesso accade nel palinsesto straubiano di altri Dialoghi, in quanto i due interlocutori sono Orfeo e Bacca (per Baccante, sulla falsariga del poemetto in prosa di Maurice Guérin La baccante,1836, matrice mai ammessa da Pavese e da nessuno individuata). Con un Orfeo avvilito, appena tornato dall’Ade senza niente in mano (Euridice), seduto sul rilievo di un boschetto di felci con le mani sulle ginocchia, i capelli bianchi, in abiti civili (camicia scura, pantaloni grigi) che ne accentuano la dissonanza da un Mito che lo ha ricusato. E una Bacca in piedi in atteggiamento di sfida, con il piede sinistro posato con baldanza su un tronco e la gamba destra distesa (camicia vistosamente viola, gonna vistosamente rossa), anziana, delusa, con le guance enfiate, ancor più dissonante nella sua vistosa intenzione d’ignorare un Orfeo, tracio come lei, che pure è il coreuta delle Baccanti, e che secondo il Mito finirà straziato proprio dalle sue fedeli. Qual è il peccato di Orfeo? Quello di essersi voltato, nell’attimo in cui stava per riportare Euridice fuori dall’Ade e riaverla così con sé? Ma no. Non per Pavese. “Io cercavo non più lei ma me stesso, un destino se vuoi […]. Ho cercato me stesso. Non si cerca che questo”, suggerisce lo scrittore, sovvertendo il senso della loro love story. Orfeo, insomma, si è voltato apposta, ha perso apposta Euridice per ritrovare se stesso. Anche se ora, in mezzo al boschetto di felci, appare “inconsolabile”, con il capo chino, oggetto degli strali polemici di Bacca, furente come sono sempre le Baccanti, e resa ancor più furente dal fatto che il suo dominus si sia assimilato a un vinto dal destino, per giunta senza combattere – lo testimoniano i non pochi asincroni, sei, con i quali la voce di Bacca invade il campo visivo-sonoro di Orfeo, ammutolito dal sopravvento di lei. Per fortuna ci pensa Straub a riabilitarlo, a fargli piovere in extremis un raggio di sole sulla chioma bianca, mentre, dopo un lunghissimo canto a bocca chiusa, quasi un minuto di vicendevole ammutolimento prima delle battute finali, torna con l’inquadratura su una non più sfacciata Bacca disposta a riconoscere a Orfeo, nonostante tutto, il dono del dio, del cantore di tutte loro, prima di congedarsi con un detto ahimè sibillino e profetico: “Purché un giorno le donne di Tracia non sbranino il dio”. Un giorno… Per ora la reciproca pace armata viene sigillata da Straub con un campo lungo che li comprende entrambi e li accomuna ancora teneramente, prima del nero dei titoli di coda.