ELLE di Paul Verhoeven
Dietro la porta chiusa
di Edoardo Bruno, Michele Moccia
Ha ragione Daniela Turco a richiamare le linee di Mondrian, nel parlare di Elle[1] di Verhoeven, la tridimensionalità dei suoi quadri, la nettezza dei colori, le anse geometriche, le campiture squadrate, rosse, gialle e blu, trascurando però l’assenza di movimento (che Mondrian respingeva) e la stretta complementarietà con gli impulsi del sesso che, nel pittore sembrano essere rinchiusi in quei precisi e netti riquadri, quasi senza introspezioni, in una estatica (ed estetica) astrazione.
La linea d’ombra, la luce smorta, il taglio obliquo dell’inquadratura, e il tono della rappresentazione, come avvolta in folate di vento (intense le sequenze mentre si chiudono le imposte nell’appartamento) elaborano una solitudine che raccoglie la sessualità inattesa nel film, che è la chiave di interpretazione, esplicitata in una scritta, sulla strettezza della vagina, nella donna, ad una certa età, per cui invece di turbarsi per l’avvenuto stupro, Michèle (una Isabelle Huppert strepitosa) si compiace di essere trattata come una giovane vergine, e nella sua ricerca dell’uomo, vuole scoprire chi, mascherato come in un fumetto, l’ha violentata, con furia ricambiata, sin dalla prima sequenza. Altre immagini turberanno la visione, ma sono solo ripetizioni mentali, sino a quando armata di una forbice non colpirà lo stupratore alla mano.
Il film ricostruisce un insieme alto borghese di oggi, confuso e di varia origine sociale, di operai e padroni, di madri e padri, in preda ad una intensa attività sessuale, e di altri, fatto di masturbazioni e di violenze, come quando Michèle accetta di andare nella cantina del vicino di casa, a vedere la caldaia per il termosifone a combustione invertita.
Ma Verhoeven non molla la presa drammatica, non si limita al solo récit, costruisce un retrotesto giudiziario inquietante – Michèle è la figlia di un criminale che ha ucciso molte bambine ed è condannato all’ergastolo; e lei stessa, da bambina, è stata fotografata sui giornali da piccola. Questo spiega la sua natura contorta e al tempo stesso limpida, in un quadro femminile, verso una linea politica di riscatto.
In Elle il rigore geometrico della messa in scena è costantemente confuso e scompaginato, come nel precedente mediometraggio Tricked (Steekspel era il titolo in lingua olandese traducibile con la parola “giostra”, titolo più che indicativo), una commedia mascherata da thriller, con quelle forbici (ancora le forbici, come già il punteruolo in Basic Instinct) piantate nella finta pancia della donna, da tutti creduta incinta, in una continua deriva che dimostra come Paul Verhoeven deragli continuamente lo sguardo oltre le storie visibili. In Elle la metafora è il vento della tempesta notturna contro il cui furore astratto e invisibile si provano a chiudere i ‘rettangoli’ delle imposte. Ma il vento accompagna l’animo inquieto di Michèle, come se avvolgesse solo la sua abitazione, nella quale prende corpo il rimosso sessuale, fatto di violenza e di turbato desiderio, come ombra nera o uomo invisibile. E Michèle rimanda a Linda dello straordinario L’uomo senza ombra, nel quale la storia fantastica dell’uomo invisibile, mirabilmente rivisitata, deviava, a tratti, verso il mélo della storia di una donna alle prese con i suoi desideri profondi e le sue pulsioni sessuali.
Qui Verhoeven penetra dietro la porta chiusa di una donna sola, penetra negli spazi chiusi di una psiche disordinata, e lascia anche che ad entrare nei corridoi e nelle stanze di Michèle sia solo uno sguardo maschile, uno sguardo violento. Gli spazi della casa di Michèle sono occupati con violenza dallo sguardo, come la violenza dell’atto sessuale che la donna subisce, violenza da lei provocata anche con piacere, perché possa pienamente palesarsi e, dunque, essere castrata, una volta per tutte. A Michèle sembra anche di non riconoscere più suo figlio, l’unico uomo però, nella sua probabile sterilità, a poterla aiutare a liberarsi. Così Verhoeven ci mostra che l’occhio per vedere deve spostarsi continuamente, deve continuamente riposizionarsi rispetto alla mobilità di qualsiasi prospettiva. E chiude il suo film con una sequenza meravigliosa, la passeggiata in un cimitero di due donne amanti.
[1] Daniela Turco, Femmes, femmes…, Filmcritica 667/668, Settembe/Ottobre 2016.