Dipinti di salvezza

di Paolo Vernaglione Berardi
La domanda impressa nell’opera di Serena Nono è: cosa succede quando migranti, poveri, anziani, senza casa, folli, incontrano la memoria dell’arte occidentale? Che ne disfano la storia di oppressione, il disagio, la fame e la fatica.
Questo dicono i dipinti della serie Migrantes che ha accompagnato la mostra veneziana del 2019 Senza poesia. Insieme all’artista Nicola Golea che condivide l’atelier alla Giudecca e ad Emergency, dall’esposizione e dai convegni quei corpi abusati e respinti hanno ricevuto voce e sguardi che curano, creano, combattono, salvano, disfacendo confini e poteri. Nell’attraversare lo spazio esistenziale tra l’Europa dei respingimenti, della guerra e della crisi di civiltà e la florida natura, il progetto assume il rilievo dovuto ad uno dei più importanti eventi politici di questi anni disastrati (https://www.serenanono.com/mostre/senza-poesia/).
La mostra sulle migrazioni e i razzismi di ieri e di oggi, sul regime globale di esclusione e sfruttamento, i convegni e il documentario, attestano la miserabile sospensione dei diritti umani e del diritto internazionale da parte degli stati liberal-democratici e di quelli sovranisti autoritari. Le immagini mostrano l’estensione cosmica del governo dei viventi, cioè l’abbandono alla morte di un’umanità considerata residuale.
Ed è l’altra storia, quella del colore e dell’oscurità, delle lotte e della violenza subìta ad impregnare la tela nei disegni delle periferie della morte. Nell’opera di Serena Nono la visualità affonda, il contorno e la luce confliggono, il segno dirada. Lo sguardo penetra negli attimi di pericolo: donne violate, barchini alla deriva, nudità ferite, visi di paura e speranza dimenticati nel blu mediterraneo, nel deserto liquido della pandemia, nella processione della Passione, nella messa in scena di vite esaurite.
Non un grido echeggia negli olii degli anni 2019 -’21, perché la povertà urla in ultrasuoni, il disagio non strepita, il terrore rappreso nella tela si trasforma in fiori e nature morte, paesaggi tragici da cui è scomparsa l’angoscia, trasposta in una luminosità pastello e in giochi d’infanzia (https://www.serenanono.com/opere/2019-2/).
Le tele di questi ultimi anni ricordano invece il mondo perduto di Gauguin, le terre assolate di Van Gogh, la nascita dell’arte che precede la mimesi. Nella Breve storia dell’ombra Victor Stoichita percorre le origini incerte della pittura commentandone le epoche a partire dalla definizione che ne ha dato Plinio il vecchio: il dipinto nasce quando per la prima volta si riuscì a contornare l’ombra umana. Ricordo che rende presente l’assente, il tratto è la trascrizione di un amore. «Il corpo è come un vaso o come un ricettacolo dell’anima» dice Cicerone nelle Tusculanae. Quando l’ombra assume consistenza è rappresentata in due modi, come ombra portata e come ombra incarnata. Nei dipinti degli anni 2000-2009 i due eventi dissolvono l’uno nell’altro. La prospettiva si annulla, il piano è la superfice di racconto di volti scoloriti, di parole essenziali (https://www.serenanono.com/opere/2000-2010/).
La sobrietà del disegno è la cifra dell’artista, la salvezza il suo mistero, l’attenzione è la costante del suo sguardo; l’altro, l’altra, gli altri, lontani da sé, sono il fine di quest’arte. Spettri, anime visibili incorporate emergono dalla tradizione minore del realismo e della scolastica e sono immersi nella fluidità del colore.
Qui è attestata la presenza dello Spirito, il mistero dell’annunciazione sembra ripetuto.
I sopravvissuti sono il tema visuale del cortometraggio Venezia e le maschere, (https://www.serenanono.com/film-2/fase-2-venezia-e-le-maschere/).
Realizzato alla fine del confinamento per la pandemia, lo stupore nell’uscire all’aria aperta accompagna il silenzio comune a cani, gabbiani, papere e anziani. In alcuni olii del 1995 parti di corpi sofferenti, mani in preghiera e dorsi nudi galleggiano, quasi salvi, alla superfice della tela.
Nel documentario Ospiti, realizzato nella Casa di Ospitalità S. Alvise, gesti e parole aprono la presenza che ha lottato con l’esclusione (https://www.youtube.com/watch?v=12e_qxYzWhg).
Il film è una partitura jazz in cui si raccontano vite “a basso volume”, nascoste, escluse, disagiate, perdute e riscattate nell’aiuto, nella condivisione, nell’esperienza accumulata. Marinai di lungo corso, tecnici con mille diplomi, attori raffinati e artisti che realizzano in laboratori di pittura, sculture e convivialità, il sogno di vita pura, di ricca creatività, di semplicità quotidiana.
Lo slogan della Casa è indicativo: «ogni tanto viene qualcuno a volerci reinserire, ma noi non vogliamo essere reinseriti in società. Siamo poveri e felici». Liberi infatti di fare realtà della vocazione, al di fuori dell’invivibile società cittadina. Nei visi in primo piano è segnato questo movimento che segue quello dei dipinti. Profili incarnati e voci che hanno smesso di urlare rabbia e fallimento, corpi impegnati in un’altra forma di resistenza alla pietà ricca e ipocrita, al lavoro, alla precarietà, a fetide politiche di compassione.
L’ultimo movimento, la passeggiata tra le calli del ghetto, apre lo spazio di avvenire in cui è possibile la resa al tempo, al sole, all’acqua nella lancinante bellezza di Venezia. Ma dimostra al contempo la fine dell’inclusione e delle retoriche dell’integrazione, la vita in tempi bui in cui è affondata la cosiddetta civiltà delle immagini, nel chiasso insopportabile di un’informazione asservita.
Di questo mondo l’opera di Serena Nono è prova di verità da scagliare in faccia a chi deturpa volti, corpi e linguaggio, a chi usa e profitta, a chi invoca sicurezza e paura, a chi specula e opprime, ai tristi cittadini che consumano menzogne.
Venezia che salva è Venezia salvata, forse dall’epoca della costruzione del ghetto a cui si riferisce la genealogia degli Schöenberg che ha incrociato i Nono nel film Finding Fioretta.
L’amico (2015) racconta la messa in scena di Aspettando Godot da parte di due anziani indigenti (https://www.youtube.com/watch?v=OSUpBzcsQjk).
The Last Time, è un cortometraggio di 8 minuti da un racconto di Hanif Kureishi da lui stesso recitato in stanze in cui un amore che si consuma rinviene come nuova passione (https://vimeo.com/423611519).
Via della Croce realizzato con gli ospiti della Casa dell’Ospitalità è una sequenza di tableaux vivents della Via Crucis elaborata sul registro della storia dell’arte italiana da Giotto a Bellini. (https://vimeo.com/user116573469).
Un’arte del conflitto, non di teoria, un’arte all’altezza dei tempi, un’arte che dal paese dei Tarahumara investe la lingua della critica; un’arte della vita che rompe la storia dell’arte, dei musei e delle cattedrali dell’espressione alternativa, già da tempo catturata. Un’arte della cura, un’arte erotica, un’arte dello Spirito circoscrive un’esperienza in cui affonda l’appartata filosofia del gusto, l’alta ricezione di opere rare, la lingua colta del pensiero.
L’attesa è il tempo di queste insurrezioni, una volta esaurita la soglia mobile tra parola e silenzio in cui da troppo tempo abitiamo. Nel mondo che finisce questa è la ricerca e la gioia, la potenza di vita che ci invade, la debole forza che spira dal paradiso.
Sono figure del tempo della fine quelle di Serena Nono. Lo sono perché tale è il presente che lotta contro la modernità assassina e le ipocrisie del regime liberale mondiale, che sia democratico, autoritario o teocratico. Ma lo sono anche perché quelle figure abitano i margini della storia, sono le creature piccole in via di estinzione che resistono nel mondo in rovina.
Da quel margine queste povertà, queste migrazioni, questi scampati, nei colori e nelle scene dei dipinti, nei bozzetti di scena e nelle sequenze di un mondo deserto, annunciano la vita. L’annunciano nella poesia del creato, recitata nella forma beat di più alta spiritualità: che tutto è santo.
Questa esperienza sperimentale della materia, dei suoni e delle percezioni è tante cose nel chiasso insopportabile della città, delle proprietà e degli interessi, – perché qui l’opera è nuda, esposta all’indifferenza, impressa nell’infanzia, nella natura lussureggiante – la dolce memoria che trapassa dei mari di un sud disincantato. Attimi di bellezza rubata al sole sono all’origine dei ritratti e dei profili di donne appena disegnati con linee e curve che restituiscono il batticuore felice degli incontri. Qui le ombre mostrano i loro corpi, invertono la rappresentazione, sono presenze che relegano il certo nell’incerto, la realtà nel rischio, il sapere in tenui movenze.
Se scorriamo in un solo movimento quest’arte vi scopriamo una sinfonia in progress di incompiuta avanguardia satura di passione. Pathos erotico che è estetico, forma a venire dell’immaginazione che si trova al di sotto della realtà. Passione che è l’effetto della caduta sulla terra delle idee, dei modelli, degli dei. Ombre di cui il mondo non si accorge e che si rivelano ad un altro sguardo. Incitano ad una vita altra queste figure, aprono un’altra scena in cui le rovine del progresso sono coperte da robusti rampicanti, verdi eccezionali, erba maestosa. Un modo lieve e forte ove ricominciare.
Nel saggio dedicato all’artista nella raccolta In attesa del Regno lo storico del cristianesimo Giancarlo Gaeta, curatore dell’opera di Simone Weil e tra l’altro di una eccezionale edizione dei Vangeli, scrive che Serena Nono dipinge a prescindere da quanto si agita nello snervato e compromesso mondo dell’arte e, aggiungiamo, delle immagini. Ciò che conta è la pura apparizione, effetto luccicante di ciò che è celato in ciò che si rivela. Presenza che regredisce allo stato primigenio del cosmo, quando corpi e cose sgorgano dalla materia che si disfa, come in Bacon.
Nelle opere dei primi anni 2000 sono i visi a formarsi su fondi scuri, e gli abbracci a emanare passione nel gesto che è amore e rifugio. Corpi e cani disegnati attendono uno sguardo che riveli la loro verità quotidiana, fermati in un istante nudo, nella linea di un giorno, di un problema, di un’espressione (https://www.serenanono.com/opere/2000-2010/).
Nei dipinti successivi i visi sono profilati, marcati nell’oscurità in cui corpi singoli cercano nella notte il senso di un gesto antico: uscire con la lanterna nella campagna buia. Sono comunque volti sfasati, che chiedono tenui l’inizio di una vita diversa o un diverso riposo che ne sfumi il conflitto con mari e cieli di luce scura, pastosa, rara. Tra le dune o nel bosco un cane remoto accompagna la lieve sinfonia dei paesaggi marini e la sua presenza solitaria trasmette la pura forza di una creatura terrestre che è stata spettro e corpo messo a nudo.
Corpi migranti nell’azzurro tragico di questi anni, corpi rifiutati e ancora, volti negli schizzi neri che dal fondo del tempo infame ci guardano indicando miti il dramma esibito tra la loro sorte e la vita boschiva eccitata, fluorescente, incantata (https://www.serenanono.com/opere/2019-2/).
La replica del margine di senso da cui accostare l’opera di un’artista dell’espressione sottratta è il ciclo della Passione, quindici dipinti delle stazioni dell’agonia e della deposizione del Cristo uniti da un esergo del teologo Dietrich Bonhoeffer: «Uomini vanno a Dio nella loro tribolazione. I cristiani vanno vicino a Dio nella sua sofferenza» (https://www.serenanono.com/opere/ciclo-della-passione/).
L’idea è trasposta nel film Via della croce, recitato ancora dagli ospiti della Casa di S. Alvise. L’intarsio di scene della Passione e di frammenti di vita dei personaggi in azioni minimali, riporta il senso dell’Annuncio all’attualità più semplice, sottraendolo alla sacra rappresentazione. L’abbandono, il giudizio, le percosse, la croce, il perdono, il sepolcro, il corpo assente e la nuova vita nello Spirito sono eventi spogli del violento pathos cinematografico e restituiti alla forma essenziale del racconto evangelico. Le scene filmate sono riempite dai volti in primo piano, le vesti, le donne, i soldati, i ladroni, Pilato, sperimentano nell’azione tra le calli e i campi la situazione in cui il presente si fa memoria e la storia del disagio, del potere e dell’oppressione si fa ricordo attuale. La visualità è bloccata in pittura, le stazioni della Via Crucis sono filmate sullo sfondo mentre in piano medio gli attori in costume conversano, simulando l’indifferenza della vita quotidiana alle quotidiane flagellazioni subite dagli ultimi (https://www.youtube.com/watch?v=XFXDRCdhsX4).
Eppure Venezia è ancora salva (per quanto?). Venezia che salva, che accoglie, che cura, che offre bellezza e magiche storie non contaminate dalla storia dei vincitori. É Venezia invisibile per fortuna e che forse riamane salva mentre la città-supermercato è ormai conquistata. Il differente esito storico è stato possibile nel film del 2007 dalla pièce incompiuta di Simone Weil (https://www.serenanono.com/film-2/venezia-salva/).
Vestiti dei costumi sontuosi realizzati dalle detenute del carcere femminile, gli ospiti della Casa dell’Ospitalità di Mestre e Venezia mettono in scena il dramma barocco della salvezza e della condanna. I tre atti del dramma, tesoro concettuale di Simone Weil, sono preceduti da un prologo e inframmezzati da notazioni di regia che rendono la distanza temporale tra l’anno della congiura, il 1618 (l’inizio della guerra dei 30 anni), la scrittura teatrale e il film. Nel libro con la traduzione di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito con annesso DVD ci sono il racconto della lavorazione dell’opera, i bozzetti e le foto di scena.
La messa in scena si distende nello spazio architettonico e urbanistico della città, tra interni splendidi oscuramente maestosi, in cui si consuma la vendetta della libertà sul potere. Concepita come un teorema, l’opera teatrale scandisce un ritmo vibrante al di sotto del deciso dialogato che la sorregge. Il tempo della città sormonta la trama dei congiurati, l’innocenza è nascosta dalla finzione. Neanche i vincitori sognano, benché i vinti siano costretti a sognare la salvezza svanita. L’equazione della grazia è così ambientata: l’amicizia mercenaria e la congiura eguagliano in potenza la ragion di stato, mentre la pietà e la bellezza sottraggono la morte alla distruzione.
La dispersione e il sacrificio sono il prezzo da pagare, ma l’imposta della salvezza non può essere riscossa da nessuno, cade a terra e scompare. Niente in realtà è accaduto. I congiurati, il tradimento di Jaffier (Davide Riondino) loro capo e il tradimento della parola a lui data dal Consiglio dei Dieci trasformano la verità storica del potere in possibilità di governo. La Repubblica permane spargendo sangue al pari di qualsiasi impero. Ma abbiamo assistito a qualcosa di notevole. La finzione ha trasformato la verità in possibilità. Un vedere diverso da un sentire e una logica diversa dal significato dell’azione provengono dal film in cui teatro e movimento, composizione scenica e riprese costituiscono un unico luogo, Venezia dal tramonto all’alba. L’arte di molti vi è raccolta. Venezia è ancora salva. I congiurati stavolta sono stati graziati. La bellezza ha sconfitto il potere, la pietà ha prevalso sulla ragion di stato.
