Di hotel, di scatole magiche e di altri bonbon del WesWorld
di Segio Arecco.
È senz’altro un giocattolo grandioso,
ma io non lo tollero,forse perché sono troppo visivo. Io vivo con gli occhi e il cinema m’impedisce di guardare.
La rapidità dei movimenti e il mutare delle immagini costringono continuamente a passare oltre.
Lo sguardo non s’impadronisce più delle immagini, sono le immagini che s’impadroniscono dello sguardo.
E inondano la coscienza. Il cinema costringe l’occhio, che finora è stato nudo, a indossare un’uniforme.
Franz Kafka, in Gustav Janouch, Gespräche mit Kafka (colloquio databile 1921, Fischer Verlag, Frankfurt, 1968:
“Io vivo con gli occhi e il cinema m’impedisce di guardare” è un motto ripreso ripetutamente da J.L. Godard)
Anteponendo il corto Hotel Chevalier (2006) alla visione di Il treno per il Darjeeling (2007), Wes Anderson sembra promuoverlo ad antefatto, se non a incunabolo, del suo lungometraggio ‘indiano’. Anche se permane fortissima la tentazione, dopo la performance alberghiera di Grand Budapest Hotel (2014), di vedere in quest’ultimo l’erede più legittimo del corto di quasi dieci anni prima. Se non altro perché Mr. Gustave, il funambolico maître dell’hotel, vanta nel suo improbabile curriculum anche un soggiorno a Parigi, capitale a sua volta al centro di The French Dispatch (2021), lì ribattezzata con il nome baudelairiano di Ennui-sur-Blasé, e proprio come maître di un certo… Hôtel Chevalier (qui ci va l’accento circonflesso, anche se il titolo internazionale ovviamente lo trascura).
Sennonché, c’è dell’altro. Eccome se c’è! Giusto per un arguto spirito di contraddizione, c’è l’alter ego cinematografico di Wes, promosso protagonista di Hotel Chevalier, ossia il coetaneo Jason Schwartzman, da sempre con lui (in veste di produttore, oltre che di attore, presente anche nel ruolo del goffo Luigi XVI in Marie Antoinette della cugina Sofia Coppola, 2006, essendo egli nipote di Francis Ford), dal giovanile Un colpo da dilettanti (1994), per ben 11 film su 11, fino al maturo, forse troppo, Asteroid City (2023, di cui è pure protagonista con Scarlett Johansson). Pronto a esibire in Hotel Chevalier, accanto al letto, lussuosissimo quanto è lussuosissimo l’hotel (in realtà, a Parigi/Parigi, la location è quella dell’Hôtel Raphaël), la stravagante gialla valigia di cartone che lo accompagnerà nel rocambolesco viaggio ‘di famiglia’ di Il treno per il Darjeeling, in compagnia di Owen Wilson, il compagno di banco e di stanza di Wes all’università di Austin (Texas) e dell’esordiente (nel clan Anderson)Adrian Brody.
Sarà per questo dettaglio indubbiamente pregnante – la valigia – che Wes, con una pungente, dichiarata parodia dei prequel e sequel alla George Lucas, introduce Hotel Chevalier come “Prologo” o “Parte I” di quella “Parte II” in cui consisterebbe Il treno per il Darjeeling? Ma Wes, lo sappiamo, è uno scompigliatore di carte nato, anzi, è uno che ha fatto dello sparigliamento sistematico delle carte l’essenza stessa del suo pirotecnico cinema a base di semi invertiti, di colori artificialmente modificati, di figure travisate o travisabili per un eccesso di domesticità con il mazzo, truccato quanto basta: un mazzo che trattiene, tra una carta da gioco e l’altra, polvere di stelle, di farfalla, di penne d’uccello esotico, d’(in)visibili tracce d’immondizia. Tanto che, in Hotel Chevalier, il tricheur Wes insinua sì la valigia galeotta, ma fa di Jason, l’indimenticabile finto-quindicenne che nell’opera seconda e già capo d’opera Rushmore (1998) – là occhialuto e introverso coltivatore di velleità artistiche –, un macho barbuto con chioma acchiappafemmine. Per dire quale reinvestimento di eccentrica mutabilità si possa programmare dieci anni dopo la prima giocata di carte.

E non basta. Il Jason disteso sul lussuosissimo letto di Hotel Chevalier a guardare il soffitto, senza nulla in programma che non sia il pigro far trascorrere le ore in un dolce far niente (così scritto, in italiano, da uno che s’intendeva assai di viaggi e di lunghe soste, Stendhal), non prevede, quantomeno a breve, di spostarsi da lì, da quella stanza n. 403 che pare essere l’unica abitata di tutto l’albergo. A meno che non menta – opzione sempre possibile in un trasformista come lui –, è questo che Jason assicura a Nathalie Portman che lo viene a trovare all’Hotel Chevalier, mettendolo in subbuglio (lui, non l’hotel, immerso in una quiete claustrale), per un incontro d’amore, o di sesso. Jason non ha alcuna intenzione di andarsene da lì tanto presto. Non ricorda da quanto tempo sia lì (giorni? più probabilmente mesi, si sforza di rispondere). Né, a giudicare da come si comporta, ricorda con assoluta certezza da quanto non incontra Nathalie, che non aspettava in alcun modo e con la quale copula quasi per un dovere di ospitalità, preoccupandosi di metterle addosso, subito dopo l’amplesso (che non vediamo, e che potrebbe essere una congettura: Wes manipola anche queste cose), il proprio accappatoio giallo, giallo come è gialla la valigia ed è gialla l’intera suite, con la moquette rossa a fare andersianamente da interfaccia. Dopotutto potrebbe rientrare l’anziano cameriere… al quale hanno ordinato 10’ prima due bloody mary, approfittando del suo inopinato ingresso in camera con il carrello dei piatti per la cena.
Nell’attesa – che l’amplesso sia stato solo una tecnica per ingannare il tempo? in fondo i due non si amano, non si conoscono neppure troppo bene e quando s’interpellano l’un l’altro in merito a un eventuale tradimento reciproco non formulano risposta –, Jason accompagna Nathalie alla finestra, la apre e le offre alla vista uno dei più bei panorami di Parigi: che Wes ci lascia, nel suo bazar du bizarre – si pensi alla mostra milanese, Fondazione Prada, Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori (2019, a pochi anni di distanza dal primo corto/Prada, il raffinatissimo Castello Cavalcanti, 2013), raccolta-catalogo di 537 oggetti curiosi da museo polveroso del secolo scorso, da lui curata con la moglie Juman Malouf –, unicamente immaginare, intriso di una luce crepuscolare che di colpo, con un lieve movimento di carrello sulle finestre di fronte, carambola in una luce notturna.
“Quando lui apre la scatola” scrive Michel Chabon a proposito del cinema-bonbon di Wes, “vedi qualcosa di scuro e di brillante… frammenti e totem di memoria, mappe di esilio, documentazione e perdita”. Anche se, secondo noi, sarebbe troppo facile, e forzato, leggere in Hotel Chevalier la comune metafora dell’albergo come non-luogo o labirinto o prigione o extra mœnia. Meglio leggervi la trama sottile della parodia, di Fellini come di Bergman o di Resnais, insomma dei grandi artefici di simulacri che Wes miniaturizza con la sua verve tutta scoutistica – ricordiamo Moonrise Kingdom, 2012, dove riesce a ridire sottotracciail suo essere stato l’intermedio trascurato di tre fratelli più benvoluti di lui dal padre, come è già riuscito a dirlo a chiare lettere, animate, in Fantastic Mr. Fox, 2010 –, venata ora di iconoclastia ora di iconomania.
Non sono gli scout, tradizionalisti per natura, a lasciarsi poi tentare dalle avventure più strampalate che l’immaginario possa consentire? Non è amabilmente scoutistico il suo favoleggiatore prediletto, quel Roald Dahl (1916-1990) a cui si è già ispirato per Fantastic Mr. Fox – cinque anni dopo, va detto, il non meno “dahliano” Tim Burton e il suo La fabbrica di cioccolato (2005) – e a cui s’ispirerà ancora per il suo quinto corto, The Wonderful Story of Henry Sugar (2023, 37’ in piccola parte animati)? Ralph Fiennes, Benedict Cumberbatch, Ben Kingsley e Rupert Friend in quattro ruoli diversi per quatto storie diverse, fatte apposta per mischiarli e confonderne le identità, in quel big carnival del nonsense (in Henry Sugar meno spensierato del solito, con al centro la figurina di un inattendibile benefattore) che è la cifra preziosa/preziosistica di Wes e dello stralunato WesWorld.
